Bugno: riprendiamoci il nostro posto


Numero 10 - Anno 2010

di Pier Augusto Stagi

È da dodici anni che vola alto, che fa il lavoro che ha sempre sognato di fare fin da bam­bino, ma non rinnega il suo ambiente, anzi, dal maggio scorso lo rappresenta, essendo diventato di fatto il Sergio Campana del ciclismo mondiale, la figura di riferimento di tutti i corridori professionisti disseminati sul globo terracqueo. Gianni Bug­no ci concede un po’ del suo tempo, do­po l’ennesima missione a bordo del suo elicottero (lavora per Icarus Eli­cot­teri, ndr).
«Abbiamo appena domato un incendio: quest’estate ne abbiamo spenti parecchi. La nostra organizzazione fa un po’ di tutto, dai servizi di elitaxi, al turismo. Dagli eventi speciali (tipo Giro d’Italia) alle missioni per la protezione civile».

- I corridori l’hanno chiamata per soccorrere anche loro?
«Mi hanno fortemente voluto, mentre io non ero nemmeno tanto convinto, ma alla fine il ciclismo mi piace e ho deciso di buttarmi. Questo sport mi ha dato tanto e anch’io vorrei ridare al movimento e ai miei colleghi qualcosa. Lo faccio più che volentieri».

- Gianni, da dove incominciamo?
«Da dove vuoi tu: io sono prontissimo».

- Parti da dove vuoi tu, tema libero.
«Lo dissi a maggio, in un incontro a margine del Giro d’Italia: vorrei ridare voce ai corridori. Vorrei riportare la fi­gura dell’atleta al centro del palcoscenico ciclistico. Fino a ieri i corridori era­no l’anello debole del sistema, invece sono gli attori protagonisti, attorno ai quali si muove e si deve muovere tut­to».

- I corridori: sono anche la causa di tanti mali…
«È vero anche questo, ma è innegabile che siano i soli o tra i pochissimi ad aver dovuto pagare per colpe che non so­no solo loro. Anzi, a tale proposito vorrei dire che chi ha scontato la sua pena è giusto che torni a correre: punto e basta».

- Ti riferisci a Riccardo Riccò?
«Anche. Non trovo giusto che continui a fare dei distinguo. Bisogna avere una linea comune. Se ad un atleta si dà un anno, dopo un anno deve tornare a correre. Se si infliggono due anni, dopo due anni deve tornare a fare quello che ha sempre fatto. Non trovo giusto che ci sia la discrezionalità degli organizzatori o quant’altro: una regola se c’è, deve essere uguale per tutti».

- Sei per la radiazione?
«Io alla radiazione non ci arriverei mai, però di fronte a questi equilibrismi re­go­lamentari, meglio introdurla: sarebbe più onesto. Ripeto, non mi piacciono i distinguo. Non trovo giusto che un organizzatore arrivi a dire: no, tu ti fai ancora qualche mese di purgatorio perché così mi gira».

- Scusami, ma per quale ragione i corridori stanno sempre zitti?
«Purtroppo in gruppo ci sono tante anime. In futuro vorrei che la no­stra categoria fosse più coesa, decisa e decisiva. Vorrei che si creassero associazioni di categoria anche in altri Pae­si, come Australia, Inghilterra, Russia, Stati Uniti dove non esiste un sindacato. Non è più tollerabile che il corridore sia perennemente sotto ricatto: se corri per un team di ProTour corri, se sei in una squadra Professional devi affidarti al buon cuore degli organizzatori».

- Che idea ti sei fatto del Pro Tour?
«Se introducessero un sistema sportivo, di promozione e retrocessione, sa­rebbe più giusto. Però mi piace l’idea che dal prossimo anno l’Uci torni a dare un punteggio ai corridori. Questo è un fatto positivo, che riporta la figura dell’atleta al centro del palcoscenico. Ma urgono ugualmente regole chiare e trasparenti, che il ciclismo non si è an­cora dato. Ogni anno siamo qui a chiederci chi potrà correre e che cosa. Vor­rei meno corridori professionisti, meno squadre, ma un regolamento forte e chiaro che regoli due fasce in modo chiaro e netto: quello del ProTour e quello delle Professional».

- Quindi?
«Quindi è indispensabile che l’Uci e i Grandi Organizzatori trovino un’intesa comune. Come è necessario spazzare via le Continental: sono un ibrido che non dice niente. Meglio un buon dilettantismo che un professionismo d’ac­catto, semplicemente imbarazzante, che non fa altro che dare una pessima immagine del movimento. Quindi ricapitolando: i corridori devono tornare a contare qualcosa. Il punteggio è la strada giusta ma va completata. Come? Se un corridore va via, metà punti se li porta via l’atleta e metà restano in dote al team. Le squadre devono avere un valore tecnico e questo valore deve es­sere dato dai corridori».

- Non difetti in chiarezza. A proposito: cosa pensi dell’utilizzo delle radioline?
«Io sono a favore. Per me sono uno strumento utilissimo, per la corsa ma soprattutto per la sicurezza. Io ho vissuto il passaggio dal non uso all’uso: trovo che siano uno strumento molto utile. Thomas Casarotto, il povero “under” morto a soli 19 anni in seguito alla caduta al Giro del Friuli, forse se avesse avu­to la ra­dio­lina si sarebbe salvato. Dico forse, non accuso nessuno, ma in certe condizioni, la radio è davvero un salvavita. Ti permette di comunicare, informare, dare indicazioni utili sulle condizioni e la pericolosità delle strade. Perché gli allenatori di una squadra di calcio possono parlare di continuo con un giocatore e un direttore sportivo non può? Perché in F.1 dal box danno informazioni ai piloti che sfrecciano a 300 all’ora e nel ciclismo questo è mal tollerato? Io non lo capisco. Ad ogni modo sono pronto a discuterne e sono fiducioso. Io penso che alla fine un accordo intelligente lo si possa trovare. Ne ho già parlato con Pat McQuaid e ne riparlerò».

- Capisci il passaporto biologico?
«Lo capisco e trovo che sia uno strumento molto utile, ma non mi piace che si colpevolizzi un atleta in via preventiva, prima che sia stato giudicato. La vicenda Pellizotti, per esempio, è sotto gli occhi di tutti: fermo ai box da maggio, in attesa di essere giudicato. Non lo trovo giusto. Fin quando non viene provata la colpevolezza, il corridore deve poter svolgere la propria professione. Punto. Poi a gestire l’antidoping deve essere un ente superpartes, non l’Uci. Non ho elementi per gridare allo scandalo, ma ho buoni motivi per dire che c’è un chiaro conflitto di interessi e questo non è bello».

- Come spieghi il fatto che i corridori italiani siano sempre al centro di scandali doping?
«Me lo spiego solo in un modo: da noi hanno trovato i corridori positivi ma è anche vero che i nostri enti sportivi la­vo­rano. Ti ricordo che Valverde è stato fermato dal Coni, né dall’Uci né tantomeno dalla Federciclismo spagnola. Il Tas, poi, ha messo il sigillo di qualità al lavoro svolto dalla Procura Antidoping e dal suo presidente Ettore Torri. Se poi mi chiedi cosa ne penso nello specifico, ti dico che dopo tre anni, non si può arrivare a fermare un corridore».

- Se è per questo ce ne sono ancora tanti che corrono…
«Se è per questo ci sono tanti atleti che non sono nemmeno corridori ciclisti…». 

- E in questo clima i corridori stanno sempre zitti…
«I corridori pensano a correre».

- Anche i calciatori pensano a giocare, ma quando è il momento la loro voce la fanno sentire…
«Non è detto che non ci si faccia sentire anche noi, molto presto».

- Tu hai fatto tanto per costituire un albo dei procuratori: un albo che stanno pensando di fare anche all’UCI…
«Vedi che noi italiani non stiamo con le mani in mano…».

- Che cosa pensi però del figlio di Pat McQuaid che fa il procuratore?
«Penso che un albo possa servire anche per mettere dei puntini sulle “i” per questi casi. Non c’è nulla di male, ma è bene parlarne serenamente prima che si verifichino situazioni imbarazzanti».

- Che cosa ti imbarazza?
«La burocrazia. Io ci sto mettendo passione, però mi scontro con i tempi della burocrazia che rende tutto più difficile».

- Dodici anni che voli alto: cosa si prova?
«Leggerezza. A parte le battute, è un lavoro che mi piace e mi appaga. Io sono uno spirito libero, un vagabondo che odia stare fermo in poltrona. Odio gli uffici, le feste comandate, le convenzioni: sono un anima fatta così… L’unico aspetto negativo della vicenda è che passa il tempo. Mio figlio Alessio (nato nel ’90 dalla relazione con la prima moglie, Vincenzina, ndr) ha già 20 anni mentre il piccolo Alessandro (avuto da Cristina) ne ha già 11…».

- Alessio ha tradito il ciclismo per il calcio: ora gioca nel Monza…
«E mi dicono che sia anche bravo. Io sono felice che lui faccia quello che desidera fare».

- Vai a vederlo?
«Quando sono a casa, sì».

- Cristina che dice di tutte le tue trasferte?
«È una donna intelligente e paziente: ormai mi conosce, sa come sono fatto e soprattutto conosce il lavoro che ho scelto di fare».

- Hai scelto di fare anche il presidente mondiale dei corridori professionisti: cosa ti aspetti da questa esperienza?
«Mi auguro che il CPA possa aumentare la propria forza, ma questo è possibile solo se i corridori saranno più forti e contribuiranno a rendere forte anche il nostro sindacato. Dobbiamo fare squadra, dobbiamo fare sistema. Abbiamo il dovere di ricordare alle istituzioni che i corridori e gli organizzatori sono la centralità del nostro mondo e il resto è contorno. È mai possibile che corridori e organizzatori contino così poco? In ogni caso, quello che desidero è trovare punti di convergenza con l’UCI e Pat McQuaid. Dalle radioline in su, si possono fare tante cose per perfezionare il nostro mondo: io ci credo. Spero di non essere il solo». 

Puntate precedenti:
Angelo Zomegnan - n. 5 maggio 2010
Gianluigi Stanga - n. 5 maggio 2010
Carmine Castellano - n. 6 giugno 2010
Giorgio Squinzi - n. 7 luglio 2010
Paolo Bettini - n. 8 agosto 2010
Mario Resca - n. 9 settembre 2010

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