Salvador: Sappada, tutto il casino fatto per (non) averti


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Trevigiano di Cordignano, passista scalatore classe 1960, Ennio Salvador è stato professionista dal 1982 al 1989. Al Giro del 1987, correva per la Gis Gelati e nella tappa verso Sappada fu lui a scatenare la fuga per fare da testa di ponte al suo capitano, Johan van der Velde, che poi avrebbe vinto la tappa e anche l’indomani a Canazei. 
Ennio Salvador oggi commercia in biciclette. Suo figlio Enrico, passista scalatore classe '94, professionista dal 2016, corre dal 2018 con la Biesse Carrera Gavardo, team Continental di... Davide Boifava. Il ciclismo, questo piccolo mondo antico.

"Granciclismo"
Sacile (Pordenone), venerdì 2 febbraio 2018

- Ennio Salvador, chi meglio di lei può raccontare cosa successe in quella famosa tappa al Giro '87. Se le dico “Sappada”, che cosa le viene in mente?

«L’attacco che ho fatto. La confusione, anzi, che successe in quel Giro. Perché il promotore del casino, indirettamente, sono stato io. Indirettamente, non l’ho fatto apposta».

- Qui nel suo negozio di biciclette, c’è appesa una gigantografia in bianco e nero di quell’attacco e in un cassetto ne conserva anche la foto, a colori, nel formato originale: chi sono i corridori che vi compaiono e come nacque quell'azione?

«Si partiva da Jesolo quel giorno lì e dopo cento km c’era la prima salita, passo Rest. Una salita lunga dieci km, poi si scendeva, Tolmezzo, Sella Valcalda, poi Sappada e c’era l’arrivo. Volevo andare in fuga, essendo sulle strade di casa, volevo far bene. E ho attaccato sul passo Rest però quasi in cima mi hanno preso».

- In fuga quanti eravate?

«No, sul passo Rest ero da solo. E lì mi hanno seguìto i francesi. Non so come mai, ma mi hanno ripreso. Ero un po’ arrabbiato perché ero fuori classifica, ma mi hanno preso. Come scollino il passo Rest, attacco in discesa perché era una discesa molto brutta, molto pericolosa. E come ho scollinato, ho scollinato coi primi cinque-sei, son sceso a tutta e dietro è venuto fuori tutto lo sparpaglìo, il casino, cadute, cadevano perché in discesa si andava giù forte. Con me c’era Bagot e poi è rientrato Roche a metà discesa e stava a ruota tranquillamente. Anzi mi ricordo che lui in una curva è anche uscito di strada, ha messo i piedi per terra. L’ho aspettato, perché in tre è meglio che in due. Poi siamo scesi, ma giù dal Rest non è tutta discesa. A metà c’è uno strappettino di un chilometro e mezzo, per chi non lo conosce è un po’ pesantino… E lì l’ho fatta sempre forte, Bagot poi non l’ho più visto, non so se si è staccato. Siamo rimasti io e Roche e siamo scesi, mi sembra, con un minuto e venti, un minuto e mezzo di vantaggio. Gran parte della fuga l’ho tirata io, io tiravo ottocento metri, un chilometro, per non stare a ruota, lui tirava cento-duecento metri, poi girava ma tanto per girare, un attimo. Dietro, da quel che ho capito, la Carrera era un po’ sull’attenti, perché c’era un po’ di rivalità tra Roche e Visenta. No, non rivalità: Visentini voleva essere lui il capitano, perciò gli dava fastidio che qualcuno lo mettesse… Roche mi ha seguìto in discesa, non è che ha fatto… Dietro, la Carrera ha tirato per prendere Roche. Da quel che sembra, perché io ero davanti e non dietro a inseguire; prima ha tirato la Panasonic, mi sembra, per pigliare noi due davanti, non so come mai abbia tirato la Panasonic, ha tirato tutta la Panasonic, poi s’è messa a tirare tutta la Carrera, tranne che Schepers, mi sembra, da quello che so. Poi son saltati tutti e ci hanno presi all’inizio di Sappada. Poi a Sappada è partito il mio compagno di squadra van der Velde, che ha vinto. E ha vinto anche il giorno dopo».

- Perché la Panasonic ha attaccato, visto che lei non era uno da classifica?

«Non lo so neanch’io. La Panasonic è venuta a tirare, finito loro ha tirato la Carrera e poi è venuto fuori il casino che s’è visto».

- Perché era pericolosa quella discesa? E perché Roche ha messo il piede a terra?

«Era una discesa molto a tornanti, senza parapetto in certi punti, si doveva rilanciare tra una curva e l’altra, in contropendenza. Infatti è caduto Fondriest, son caduti diversi corridori, all’inizio, perché era talmente “non bella”, la discesa, con molti tornanti e da rilanciare e perciò molto tecnica: arrivavi lungo, frenavi e andavi fuori strada».

- Dall'ammiraglia che cosa le dicevano? Lei conosceva le strade e aveva studiato un piano o ha fiutato l’aria in corsa?

«No, io ero un attaccante, cercavo la vittoria di tappa e alla squadra andava bene. Anzi sono andato avanti, in avanscoperta, perché sapevamo che anche van der Velde stava bene. In squadra avevamo van der Velde, Chioccioli, Giovannetti: una bella squadra, completa».

- Ha visto le ammiraglie della Carrera, con Quintarelli in quella davanti e Boifava in quella dietro?

«Sì, Quintarelli veniva avanti per parlare con Roche, tranquillamente. Ma sei lei parla con Quintarelli le dirà che io, davanti, tiravo la fuga e Roche girava appena, giusto per non stare a ruota».

- Che rapporto aveva con Roche e Visentini? Vi conoscevate bene?

«Visenta lo conosco bene. E sono anche stato un po’ contento, tra parentesi, d’aver fatto quell’azione, perché l’anno prima, m’ha fatto un tiro che ho perso i campionati italiani. Son arrivato quarto per colpa sua. L’anno del primo di Corti, l’ho perso perché ero sicuro che Visentini mi avrebbe dato una mano».

- E invece Roberto non ne aveva più?

«Ha tirato il pacco. Non diciamo altro. Sono arrivati in volata Visenta e Corti, io e Ghirotto dietro. Però io ho mollato perché ero sicuro che Visentini mi dava una mano, l’infingardo».

- Visentini – che in volata era zero: mi conferma? – ha provato in tutti i modi a staccarlo, Corti, ma alla fine non ce l’ha fatta e Corti è andato via.

«Sì, ha provato a staccarlo ma poi son arrivati in due e Corti era più veloce».

- Invece di Roche che ricordo ha?

«Di una persona tranquilla, onesta. Ogni tanto lo trovo alla Fiera del Ciclo. E parliamo sempre. Una persona tranquilla, normale. È uno di parola. Niente di particolare. Una persona normale che correva il giusto, ma anche Visentini correva il giusto, non è che stava mai a ruota. Tirava sempre, Visentini, non era il tipo, però Roche è un po’ più di parola».

- Per chi non l’ha vista correre, lei invece che corridore è stato?

«Fino a dilettante un vincente, perché in tre anni ho vinto abbastanza. Ero passato con credibilità, di livello buono, di là è un passo diverso. Ero un buon corridore, vincevo per distacco e non ero veloce. Stavo spesso coi primi in salita, a parte i quattro, cinque, sei corridori forti europei - e lì non ci stavo - dal settimo corridore al quindicesimo c’ero quasi sempre».

- Quali sono le squadre nelle quali si è visto il miglior Salvador?

«Ho corso con squadre buone, alla Gis Gelati con Moser, che ha vinto il Giro dell’84. C’era De Vlaeminck, un altro corridore serio. Poi son passato alla Ariostea e alla Bianchi di De Lillo, tre squadre leader. Con la Gewiss-Bianchi di De Lillo ho vinto il Matteotti, ho fatto quinto al Lombardia. Ho fatto bene, lì. Il mio ruolo era di sfruttare qualche occasione, se capitava, o di aiutare l’uno o l’altro, Francesco Moser, Argentin, Rosola per le volate. All’Ariostea c’era Silvano Contini, ce n’erano tanti».

- Quali sono i corridori a cui è rimasto più legato?

«Sono amico un po’ di tutti. Con quelli con cui correvo, un po’ di più. Sono stato abbastanza onesto nel gruppo, di parola, e se dovevo tirarli tiravo. Sono rimasto amico un po’ di tutti».

- E tra i direttori sportivi?

«Quello che mi ha insegnato di più forse è stato... il primo anno che avevo Pieroni. Era più “tecnico”, diciamo così, più sensibile, più preciso nel gestire i giovani. Ha iniziato come massaggiatore e poi come diesse. Veniva dalla scuola massaggiatori, perciò aveva il sistema di organizzare bene i giovani, metterli in camera… Il primo anno io ero in camera con Czesław Lang, che vinse il Giro di Polonia. Un veneto con un polacco, così io insegnavo l’italiano a un polacco che l’italiano non lo sapeva, cose così, capito? O un lombardo con un abruzzese, giusto per farli abituare a parlare».

- Perché secondo lei Roche è rimasto legato all’ambiente e Visentini, tranne qualche rapporto con gli ex corridori, non ha più voluto saperne?

«Visentini era un po’ particolare, un po’ estroso. Mi ricordo quell’episodio dell’87 ma anche quello dopo il Giro dell’84 vinto da Moser: lui è andato a casa e ha segato la bici col seghetto. Aveva visto qualche tifoso di Moser fare qualche piccola spinta - che allora, chi più chi meno, un po’ tutti prendevano - cinquanta metri, così, non è giusto, però non è che… Si incazzava. È andato a casa e ha segato la bici».

- Cosa ricorda della tappa di quel Giro ’84 in cui fu annullato lo Stelvio? Qualcuno se la prese col patron Torriani, che, si disse, voleva favorire Moser?

«No, quello no. Lo Stelvio era impraticabile. C’era neve e non si voleva prendere la responsabilità, abbiam visto l’anno dopo cosa è successo sul Gavia. Lì passò in testa van der Velde che, dopo la discesa, congelato, è montato su un camper per scaldarsi La tappa la vinse Hampsten, che poi vinse anche il Giro».

- Roche era più bravo a leggere la corsa e nelle pubbliche relazioni?

«Tutti gli stranieri son più bravi nelle pubbliche relazioni. A parte Millar, che è particolare, non solo Roche ma anche gli svizzeri. Sono più bravi, rispetto noi italiani, come organizzazione, gli stranieri. Roche dove andava salutava, si comportava abbastanza bene. Visentini era un po’ estroso, un carattere fatto così. Lui l’ha perso perché la testa sua è saltata, non perché l’altro l’ha attaccato. L’ha persa lui».

- Per lei quindi non fu tradimento ma normale svolgimento di corsa?

«Un normale svolgimento di corsa. Il tradimento lo escluderei. Una normale corsa che poi viene interpretata in altre maniere ma una corsa normale tra due leader poi, le critiche ci sono sempre».

- Ma non si era mai visto un attacco così eclatante da un compagno della maglia rosa, no?

«Roche non è che ha attaccato per staccare Visentini. Lui ha seguito me, nell’azione mia, più che altro».

- All’inizio. Ma quando Boifava ha detto a Leali e Ghirotto di tirare la Carrera…

«Sì, ma loro han tirato, tranne Schepers che era molto amico di Roche. Gli altri han tutti tirato, sia Leali, sia Ghirotto, han tutti tirato per prendermi».

- È volata qualche parolina quando è stato ripreso?

«Parolina no, qualche sguardo male sì, ma non parole. Qualche occhiata male, ma parole no».

- Perché almeno a casa mia potevate farmi vincere, è questo il senso?

«Sì, ma era normale».

- Mi descrive la gigantografia che la ritrae in quella tappa?

«Eravamo al culmine del Passo Rest ed ero già col dente avvelenato per attaccare in discesa, perché in salita non ero riuscito a fare il vuoto. In discesa ho provato ad andar via e infatti è venuto fuori il casino che è successo. In fianco a me c'erano van der Velde, Visentini, Muñoz, Corti campione italiano, Conti che avrebbe vinto la maglia bianca di miglior giovane, Argentin con la maglia di campione del mondo, Roche è dietro Argentin, vicino a me c’era anche Renato Piccolo, Piasecki in fondo…».

- Com’era il ciclismo di trent’anni fa? Il movimento italiano era al centro del mondo, no?

«Vedendo il ciclismo adesso, e seguendo, perché ho anche il figlio che corre in bici – quest’anno corre alla Biesse Carrera Gavardo, che è la squadra diretta da Davide Boifava –, dopo trent’anni vedo che il ciclismo italiano è al contrario: una volta gli stranieri venivano tutti a correre in Italia. Adesso i ciclisti italiani tornano a emigrare all’estero. In Italia abbiamo poco. Non abbiamo nessuna squadra World Tour, quella di Saronni è molto italiana ma è sempre di matrice araba. Di squadre italiane ne abbiamo zero. Abbiamo solo tre Professional, che sono le squadre di serie B, teoricamente. Al Fiandre e alla Roubaix non era presente nessuna squadra italiana. Ci sono buoni corridori italiani che corrono in squadre straniere. Perciò siam messi male. Per chi organizza gli eventi in Italia è difficile, hanno poca sostanza. Una volta facevi Tre Valli Varesine, facevi Lissone, facevi tante corse e venivano tutti gli stranieri. Adesso corrono le tre squadre Professional, e mandano qualche World Tour di zona e Continental per riempire il buco. 

- In quegli anni lì era importante anche il Giro di ogni regione, c’erano il Camaiore, il Baracchi, il Matteotti. Era un altro mondo.

«Era un altro ciclismo. Una volta erano gli stranieri che venivano a correre qua, adesso…».

- Il motivo però non è soltanto economico, vero?

«Il motivo principale è che non abbiamo squadre italiane che poi spingono a organizzare certe belle corse italiane, dal Sicilia al Sardegna, al Toscana e al Lombardia. Purtroppo stiamo scendendo molto di tono, ecco».

- La Carrera era un po’ la squadra leader dell’epoca?

«Sì, con Boifava era da tanti anni nel ciclismo, con la Inoxpran prima e poi col nuovo sponsor Carrera. Ha fatto bene per tanti anni al ciclismo, ha portato tanti stranieri a correre in Carrera. Non solo Roche ma anche gli svizzeri. Era un ciclismo bello. Noi avevamo il gruppo industriale Scibilia, la Gis Gelati, che era una bella realtà; prima è entrato con Piero Pieroni, poi con il gruppo Saronni, di nuovo con Pieroni, poi con Giorgio Vannucci».

- Nel settore c’era anche Sanson, era un’epoca di magnati innamorati del ciclismo. 

«In Italia oggi mancano gli sponsor principali per poter mandare avanti il ciclismo».

- Voi guardavate alla Carrera più come una vostra pari o come riferimento al quale ambire?

«La Carrera era una buona squadra, ma anch’io sono stato in buone squadre, perché son stato in Gis Gelati, Ariostea, Bianchi. Eravamo tutti alla pari. Oggi il ciclismo è più globalizzato, è più mondiale che europeo rispetto a una volta, perciò ci sono molti più atleti, atleti bravi, forti e ci vogliono budget più elevati. E in Italia è difficile fare una squadra».

- Che cosa ha fatto scegliere a lei, o a suo figlio Enrico, la Biesse Carrera Gavardo di Boifava?

«L’ha scelta mio figlio. L’anno scorso correva con una squadra austriaca [la Tirol Cycling Team, nda], però, all’estero fai fatica ad abituarti. È tornato in Italia, ha parlato con Milesi, che era il suo direttore sportivo prima, poi con Boifava ha concordato tutto quanto. Ci è andato volentieri perché Boifava ha una grande esperienza, e vediamo se farà una svolta maggiore. Boifava sapeva già come andava mio figlio, io di Boifava mi fido perché ha grande esperienza e insieme abbiam deciso di accettare».

- Le è capitato di avere in squadra due galli nel pollaio? E come si gestiscono quelle situazioni?

«Sì. Nell’84 avevamo De Vlaeminck con Moser, e anche se Roger era più “vecchio”, perché ha due anni di più, e Moser più giovane, c’era pur sempre rivalità. Infatti al Giro d’Italia si fermò per quello. A volte è difficile. Bisogna che [il capitano] sia una brava persona, e metta tutti d’accordo».

- E che mantenga la parola.

«E che mantenga la parola, senz'altro».

- Il ciclismo di oggi la diverte?

«È un po’ monotono, perché è tutto un po’ più pilotato. I ragazzi vanno forte, si allenano, vanno più di prima. Ci sono i mezzi che fanno andare più forte, però è massa (“troppo” in dialetto veneto, nda) inquadrato. Ci vorrebbero più fantasia, più estrosità, più attacchi; adesso è più pilotato».

- Nel ciclismo dell’SRM, delle radioline, una "Sappada" potrebbe succedere?

«Secondo me non è corretto correre con le radioline. Sì, con i wattaggi, la tecnologia va sempre avanti, perché i record son fatti per batterli. Non si fermano mai i record. Le radioline, potrei discutere: penalizzano un po’ il ciclismo e lo spettatore, è troppo monotono».

- Alcuni direttori sportivi dicono che rispetto a quando correvate voi oggi ci sono molte più rotonde, quindi le radioline servono anche per la sicurezza dei corridori, non solo per la tattica.

«Anche per la posizione del vento. Con le radioline, chi è più organizzato, chi ha più persone sul percorso, sa che dopo cinquanta chilometri c’è magari il vento laterale, perciò questo toglie brillantezza alla fuga che magari iniziava prima. Una volta, quando c’era il vento in fianco, nessuno lo sapeva prima e chi era davanti, con un po’ di fantasia, attaccava. Mi ricordo a un Giro di Puglia, la seconda tappa, con la Gis Gelati abbiamo attaccato. In fuga siamo rimasti in cinque della Gis Gelati e Contini ha perso la maglia bianca. Abbiamo attaccato dopo venti chilometri, e per cento siamo rimasti in fuga in cinque della Gis Gelati su cinque».

- Quindi se un corridore ha la gamba va via lo stesso, anche con le radioline.

«Va via anche con le radioline, poi lo prendono. È come batter la testa sul muro, è uguale. Prendi una, prendi due, prendi tre, non parti più, dopo».

- Il Team Sky con un budget annuo da 35 milioni di euro può permettersi corridori che sarebbero capitani ovunque, ma è vero che così ammazza le corse?

«Sta facendo come nell’èra di Merckx, che vinceva tantissimo, era fortissimo, però aveva anche una squadra fortissima. Torniamo agli anni Settanta, la Sky sta facendo uguale. Ha preso i migliori atleti in circolazione e quando punta un obiettivo, cerca di non sbagliare».

- Torniamo al Giro ’87. Complice anche una certa campagna di stampa, nei giorni dopo Sappada a Roche per strada gridavano di tutto, insulti, gli sputavano addosso, gli tiravano brandelli di carne. Lei queste cose, in corsa, le ha viste e/o sentite? 

«Non ricordo, non le ho notate. Però era teso, perché, essendo straniero, in Italia togli la maglia rosa a Visentini e poi abbiamo corso in Lombardia, senz’altro di parole ne ha prese. Ma ad altre cose non ho fatto caso, però le ha prese».

- In corsa lo proteggevano Millar e il gregario fidato Schepers perché avevano paura. 

«Schepers lo conosco bene, correva con me cinque anni prima, nell’82. Sì, stavano vicino a Roche. Parole sì, ma non altre cose. Non ricordo se sono successe cose più pesanti, credo di no».

- Roche era così più forte di tutti, quell’anno lì, visto che vinse Giro, Tour e mondiale?

«No, Roche era forte, Visentini probabilmente era più forte. Come aveva vinto il Giro l’anno prima, andava forte anche l’anno dopo. È saltato di testa per un episodio, vedere un suo compagno davanti... Se stava calmo, vinceva il Giro. Come è casuale che poi Roche ha vinto il mondiale: Argentin era due volte più forte. Sono tutte “casuali”, vince sempre il primo però è casuale. È come uno che vince la Sanremo, non vince quando è più forte e l’anno che va più piano vince la Sanremo. È casuale». 

- E lei che carriera ha fatto?

«Io ho fatto una carriera discreta, ho lavorato discretamente. Ho smesso contento, punto e basta. Non ho alcun rimpianto».

- Non ha pensato a restare nel ciclismo?

«No, perché ero nauseato. Quando corri in bici fai anche tanti chilometri in macchina, stai molto via. Ero un po’ nauseato di muovermi».

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