Baronchelli, un indennizzo dal destino




Dal 1989, quando chiuse dopo sedici anni di professionismo, di Tista Baronchelli si sono perse le tracce. Da allora si occupa del negozio di biciclette ad Arzago d’Adda e della famiglia (ha tre figli, l’ultimo undicenne). Baronchelli è, per i più giovani, quello del secondo posto al Giro del 1974, a 12” da Merckx, messo alle corde dal bergamasco nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo. Tista aveva solo vent’anni e molti tecnici ne parlavano come dell’erede di Merckx. Il che non è stato per motivi che lui stesso racconta. 

«A carte viste, invece di passare professionista nella Scic, avrei dovuto accasarmi alla Molteni, correre al fianco di Merckx e imparare quasi tutto da lui. Sarei stato al coperto per due o tre stagioni, facendo esperienza, sarei maturato progressivamente. Con altri è successo. Dopodiché avrei potuto vincere anche cinque o sei Giri in fila, tramontato Merckx. Purtroppo le aspettative su di me erano eccessive, non avevo un manager che mi tutelasse e soprattutto non sapevo un sacco di cose. Un altro dato, i Giri di quegli anni erano disegnati da Torriani per Moser e andavano quindi benissimo anche per Saronni. Di mezzo c’era un sacco di abbuoni, pochissime erano le salite, di tapponi a ripetizione come negli ultimi anni nemmeno l’ombra. Per intenderci, nessun Mortirolo o nessuno Zoncolan».

- Poi, alla Bianchi, nel 1982 un Giro per te senza capo né coda, meritatamente vinto da Hinault.

«Grandi meriti al francese, ma noi abbiamo corso malissimo. C’erano tre capitani, quell’anno partimmo alla pari Contini Prim e io. Ferretti e i dirigenti della Bianchi non diedero mai indicazioni e ci ritrovammo con Contini in maglia rosa a tre giorni dalla fine. Invece di schierare tutti a suo favore, fummo lasciati liberi di fare la nostra corsa, forse perché non credevano a Silvano. Col bel risultato che alcuni giornalisti ci ricamarono sopra, dicendo che io avevo fatto perdere il Giro a Contini. Giocarono una brutta partita anche al Mondiale di Praga, quello del 1981, quando scrissero che Saronni aveva perso da Maertens per colpa mia. La verità è che nel finale quando andò in fuga Millar lo seguii senza portar dietro nessuno e avrei vinto agevolmente perché Millar in volata era fermo. Invece dietro si mossero i nostri per salvaguardare le ciance di Saronni e fummo ripresi. Io tirai la volata a Beppe sino ai 200 metri, ma una domanda sorge spontanea: dov’erano i Moser, i Gavazzi, gli altri azzurri che avrebbero dovuto aiutare Saronni? Stanchi e giustificati».

- La maglia rosa poi è arrivata. Anzi ne hai indossate due in carriera.

«Sì, ma tardi, tardissimo, a 33 anni quando sei già più o meno a fine carriera. Era il 1986, correvo già con la Supermercati Brianzoli dove arrivò anche Moser. Avrei potuto andarmene immediatamente ma decisi di rimanere. Ottima scelta considerato che altrove non mi sarebbe capitato d’indossarla. Fu il Giro in cui morì il povero Ravasio, caduto nella prima tappa, in Sicilia. Entrai in azione dopo la cronosquadre, dove avevamo contenuto il distacco dalla Del Tongo-Colnago. Alla quarta tappa che arrivava a Nicotera entrai in una fuga e vinsi la frazione. Tenni la maglia anche il giorno dopo, sempre in Calabria, poi la persi a Potenza, cedendola a Saronni».

- Emozione tardiva la rosa ma comunque emozione?

«Beh, considerato che da giovanissimo secondo alcuni avrei dovuto collezionarne un’infinità, l’ho considerato un indennizzo dal destino. Mi ha fatto un piacere immenso».

- Avresti meritato molto di più, secondo te?

«Mi paragono un po’ a Raymond Poulidor, anche lui non ha mai vinto il Tour de France, però era amatissimo perché tutti sapevano che dava sempre il massimo. È stato un grandissimo».

- Dei corridori della tua epoca il più grande? 

«Non ho dubbi, Bernard Hinault, che considero tra i dieci protagonisti di ogni epoca».

- Lo dici in riferimento anche al Mondiale di Sallanches, dove trionfò e tu arrivasti secondo? 

«Da piazzato ho vinto il Mondiale dei normali, lui quello dei fenomeni».

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