Bucciantini: «Sappada, il tempo vola ma non passa»
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
«Sappada turba il sonno di Roche,
non quello di Visentini»
- Marco Bucciantini
redazione Sky Sport
Milano, giovedì 8 marzo 2018
non quello di Visentini»
- Marco Bucciantini
redazione Sky Sport
Milano, giovedì 8 marzo 2018
- Marco Bucciantini, so dove colpire: se ti dico Roberto Visentini, il tuo primo pensiero qual è?
«Un ringraziamento. Perché c’è un’età, scolare, in cui sono gli idoli che ti avvicinano agli sport, agli eventi. Poi la passione di quello sport ti rimane addosso, ma ha bisogno quasi sempre di un personaggio da tifare. Quella è un’età in cui il tifo è particolare. Io credo di aver tifato Visentini per la prima volta nell’83, avevo nove anni. Si vedeva il Giro d’Italia, la Coppa Davis e qualche partita di campionato, questi erano gli eventi».
- E che Giro, quello, per Visentini.
«È il primo Giro di cui ho ricordi netti. Sapevo che Hinault era forte, ma quell’anno non c’era, prima due Giri li aveva vinti lui, uno Battaglin. “Battaglin” era un nome che mi piaceva: mi colpiva per come suonava».
- Quasi onomatopeico.
«Sì, poi nello sport ci sta bene. Comincio a seguire quel Giro e vedo un ciclista “diverso”, diverso innanzi tutto perché era bello. Io tifo Visentini perché era bello, non ho problemi a dirlo: era biondo, capelli lunghi, bello anche in bicicletta. Aveva uno stile perfetto. Una grande classe, una grande eleganza. E subito s’intuisce che però, con tutto questo talento, c’è una “dispersione”. Era un’età in cui ero attratto da tutti quei talenti dispersivi. Mi piaceva Gilles Villeneuve, mi piaceva Visentini, mi piaceva Paolo Cané nel tennis. Talenti puri, irregolari, che poi forse avevano le bacheche vuote rispetto a quello che potevano metterci, però riempivano la mia testa, la mia fantasia: quello che serviva. Quindi intanto lo ringrazio. Lui era bello, e mi ha fatto diventare bellissimo il suo sport».
- Come tempi effettivi su strada, cioè senza gli abbuoni - che il patron Torriani metteva per favorire Moser e Saronni, gli “sceriffi” del gruppo - il Giro ’83 lo avrebbe vinto Visentini.
«L’avrebbe vinto però bisogna vedere se Saronni l’avrebbe corso nello stesso modo. Saronni in quel Giro andava molto forte. Quell’anno Visentini, che aveva vinto la Tirreno-Adriatico, in salita non riusciva a fare tanta differenza quindi era arrivato con qualche convinzione: E strada facendo era diventato lui il capitano di cui una squadra che aveva comunque l’ultimo italiano ad aver vinto il Giro, Battaglin aveva in squadra proprio Visentini, però io mi ricordo la cronometro finale, che lui vinse, a Gorizia, un Giro molto strano, ci furono anche le polemiche per quella storia del Guttalax, in cui lui a fine… ricordo benissimo, nitidamente, Adriano De Zan che gli chiede: allora, Roberto? Ma io volevo vincere, svenne dopo il traguardo da quanto si era sforzato per vincere quella cronometro, davanti a Daniel Gisiger, che era un bello specialista. Disse: ma io son contento, volevo vincere la tappa, dimostrarmi competitivo, al primo podio. Saronni era un campione. Era campione del mondo. Aveva già vinto un Giro d’Italia, quindi, nel suo percorso, c’era felicità per quel secondo posto. Per me erano anni d’amore, quindi, quando era competitivo, per me bastava. Non ho mai voluto forsennatamente la sua vittoria, ma la sua presenza. Poi lui c’era poco, nel ciclismo. C’era al Giro, sostanzialmente. Il Giro, e qualche corsa intorno al Giro. Nell’anno di grazia, fa un ottimo campionato italiano, ma ecco, al Tour de France non era mai competitivo, poi erano immagini che se ne vedevano anche meno e quando si vedevano lui non era già più in classifica. Quindi c’era poco e quando c’era mi bastava che ci fosse».
- Facciamo un passettino avanti, quando eri già adolescente; 1987, Sappada: i tuoi ricordi.
«Uno poi non distingue quello che è successo a Sappada da quello che è successo a San Marino, perché Sappada diventa “inaccettabile” dopo averlo visto a San Marino padrone. Perché il ciclismo va anche di patronati. Nell’1986 Visentini vince e si libera di questo complesso. Vince. Si dimostra vincitore. Lo dimostra a se stesso, alla squadra. La squadra che però intanto gli aveva messo in casa Roche proprio perché non si fidava più che potesse vincere, dopo un ’85 grandioso di Roche in cui Visentini fece tanti giorni in maglia rosa al Giro però poi il Giro non ce la fece fisicamente a finirlo, la bronchite e tutto, l’ultimo gradino. L’86 lo vince, quindi nell’87 lo aspetti in un altro modo. Sai che non c’è bisogno di vederlo subito protagonista come fu nell’86 che doveva rimediare alla cronosquadre, allora andò all’attacco in Calabria, in Sicilia fece delle tappe incredibili dove vinse in Basilicata: il meridione fu la campagna di Visentini. Aveva tre minuti a Moser e Saronni che nella cronosquadre di Taormina lo avevano staccato. Nell’87 sapevi che correva da padrone quindi silenziosamente, poi sapevi che a San Marino era il momento in cui si misuravano le forze. Era la prima tappa importante del Giro, c’erano state un paio di cronometro piccole, c’era stato il Terminillo. E lui a San Marino fa quella che lui definisce la più bella giornata della sua vita. Va via con una forza e un’eleganza… E per la prima volta con tutto il suo esercizio, tutto il suo talento, sembrano – come posso dirti – mostrati. Quella cronoscalata di San marino in cui lui dà dei distacchi incredibili, non solo a Roche ma anche a Rominger, c’era anche Breukink in quel Giro – bravissimo in quell’esercizio della cronometro – Stravince, e allora per una volta dici: ecco, l’atleta completo, in cui tutto il suo talento è sprigionato, è manifestato. Ecco: un senso di appagamento mi dette, quella tappa. Se Sappada fosse avvenuta nell’84, che un po’ avvenne, a Selva di Val Gardena; o nell’85, con quella crisettina della bronchite che poi perse il treno sull’Abetone, un po’ l’accettavi. Nell’87 era un tornare indietro, e nell’evoluzione di Visentini quella tappa a Sappada mi sembrò: e riecco Visentini. Capivi che era successo qualcosa che era superiore anche a Visentini, era superiore alla lealtà. Era superiore all’umanità, al senso di squadra che nel ciclismo è uno sport individuale ma invece è molto forte il senso di solidarietà almeno fra compagni e poi anche in gruppo. E lì capivi che invece era saltato tutto, la solidarietà fra compagni, la solidarietà nel gruppo, un certo senso di intendere lealmente la corsa. Però mi ritrovai come se non avesse mai vinto, ecco; i, tre carrierel Visentini che sprecava come se ci fossero due carriere a disposizione: finisco questa poi nella prossima sfrutto tutto. Quindi ebbi mi ricordo… tracollammo fisicamente in due: lui, e io davanti alla televisione. Non ci volevo credere. Anche perché poi quella tappa io l’ho ricercata nel corso del tempo. E tutta quella crisi, alla fine, sono pochissimi chilometri. Cioè, bene o male, a tre km dalla fine, era in gruppo. E in tre km perde sei minuti. Davanti a lui arrivarono in quaranta, tutti insieme, quindi non è che arrivò ventesimo, arrivò molto indietro».
- Ci furono anche altre dinamiche: Visentini, perché era Visentini, a inizio giro dice di Argentin: quest’anno per lui ci vuole la sveglia.
«Arriverà con tre ore, disse».
- E quando ha visto Visentini in crisi, ne ho parlato con lo stesso Moreno poche settimane fa, Argentin ha chiamato a raccolta compagni e alleati e li ha messi a tirare a tutta. “Te la do io, la sveglia”. Trentun anni dopo, ancora gli leggevi negli occhi il fuoco…
«Si mette davanti, me lo ricordo ancora: in quella salita si mette davanti. Visentini è stato un carattere diverso, lo dimostra anche l’epilogo, anche il dopo, cioè non è rimasto in quel mondo. È sempre stato vissuto come un alieno in quel mondo perché c’era una retorica che voleva che il ciclismo fosse uno sport di sopravvivenza, di emancipazione. Lui invece non aveva bisogno di emanciparsi, di costruirsi una vita. Era figlio di una famiglia che stava bene, poi non erano mica ricchi, facevano, e hanno ancora, le pompe funebri. Non è che avessero cinquanta industrie nel mondo. E come dice sempre lui tanti suoi colleghi avevano guadagnato per vivere meglio anche di Visentini. Però lui è sempre stato vissuto come… perché era ricco, perché era bello, perché mostrava sfacciatamente magari entrambe le cose, perché non le ha mai nascoste, perché aveva un carattere reattivo, se c’era da dire qualcosa la diceva, stava per conto suo, non capiva come si gestiva una squadra. Viveva a modo suo, quindi a un certo punto gli è mancato quel tessuto di solidarietà che lo aiutasse in un giorno in cui però si consuma quello che io reputo un tradimento non a Visentini ma al ciclismo. Il ciclismo è fatto di leggi scritte e non scritte, e quel giorno saltano tutte. Poi, Roche andava fortissimo, il Giro lo legittima prima e dopo. Andava fortissimo, è andato piano solo a San Marino, dove però era arrivato coi postumi della caduta al Terminillo. Quindi non è in discussione la legittimità del vincitore, per carità. Però noi poi anche in seguito abbiamo visto anche LeMond scortò Hinault al Tour e poi cominciò l’èra-Lemond, nell’85, e dopo l’abbiamo visto tante volte, l’abbiamo visto con Ullrich e Riis, l’abbiamo visto con Wiggins e Froome. E poi dopo tocca a te. Quell’anno toccava a Visentini, e Visentini si era meritato la maglia rosa, se l’era conquistata sulla strada e quindi andava protetto anche in un giorno difficile, no, messo in condizione di fargli vivere un giorno difficile perché era un uomo che soffriva le difficoltà. Le metabolizzava, il nervosismo toglie energia e Visentini aveva delle reazioni a volte nervose. Il Giro dell’87, c’è quella tappa di San Marino che mi appaga. A me, da tifoso, l’87 in un certo senso mi appaga. Perché comunque c’è la tappa di San Marino che rimane la più bella esibizione di forza di Visentini. Se lui non fa quella tappa nessuno poi può ricordare quel tradimento. È quella tappa che fa a tutti dire: no, aspettate. Visentini non era uno che buttava, Visentini aveva vinto il Giro, aveva meritato il Giro. Quella tappa poi permette di ricordare quest’altra, altrimenti se arrivavano con Roche a dieci secondi avanti a Visentini ma Visentini capitano nessuno adesso stava a fare questi discorsi. Quella tappa di San Marino resta il più bel ricordo. Io ho rimpianti per l’84, dove lui aveva le capacità fisiche per mettersi fra Fignon e Moser e quindi poi essere protagonista l’ultimo giorno. Se non fanno lo Stelvio aiutano Moser ma aiutano anche Visentini. Se Visentini resta in classifica, Visentini a cronometro non piglia due minuti e mezzo da Moser. E Visentini è davanti a Fignon in classifica quando succede tutto questo, quando va in crisi in Val Gardena, è vicinissimo a Moser, tipo a tredici secondi da Moser, quindi lui poteva rimanere lì e quando poi Fignon, la terzultima, prende la maglia… non lo so. Ho dei rimpianti appunto sull’83. Ho dei rimpianti che non abbia… lui da ragazzo vinceva anche le gare in linea, perché aveva coraggio, era attaccante. Quando vince a Potenza, quando a quel Giro attacca, dimostra che ha anche delle qualità da finisseur. A Potenza, quando vince la tappa dell’86 ma anche a Lerici, le due tappe in linea che vince al Giro, lui va via ai più forti in gruppo. Cioè lui riesce a fare un’azione, una in falsopiano, un’altra addirittura in pianura sostanzialmente, dimostrando anche delle qualità “vincenti”. Non era veloce, anzi: era lento. Ma ci sono tanti che vincono da soli. Lui aveva anche le qualità per vincere da solo e non le ha mai sfruttate però, quando tifi uno come Visentini, lo tifi sapendo che lo vuoi rimpiangere. Cioè non tifi Visentini perché vuoi vincere, perché vuoi vedere trofei. Tifi Visentini perché ti innamori della sua imperfezione, perché vuoi soffrire. Probabilmente se avesse vinto due Giri d’Italia, nell’82 e nell’83, non lo avrei mai tifato. Ma questa sua estraneità, al suo mondo e anche per certi versi allo sport. Lui non era un agonista, non avrebbe dato probabilmente tutto per vincere. Ha dato il giusto, quello che si sentiva, quello che gli veniva. Ecco questa sua estraneità in sé c’è già il rimpianto, sai già quando tifi Visentini che poi ti mancherà qualcosa. Lo sai già, e se non lo sai arriva Sappada e te lo ricorda. E col senno del poi qualsiasi altro campione dell’epoca avrebbe rivoltato a favore una tappa in cui il suo rivale si stava distruggendo Roche arriva appeso a Sappada. Se Visentini stava tranquillo quella sera avrebbe avuto dieci minuti di vantaggio su Roche. Dieci minuti. Poi non c’era più niente che teneva alleanze, se vai a vedere ciclisti come Millar, forti ma non “vincenti”, non capaci di vincere un Giro, c’era comunque l’ultima cronometro. Quindi qualsiasi altra persona avrebbe gestito, avrebbe fatto pagare a Roche la moneta doppia rispetto all’affronto, perché Roche s’era messo nella condizione d’attaccare a oltre cento metri dall’arrivo, di consumarsi, di attaccare, però quello era Visentini. Ma lo amavi per questo, lo amavi perché ci stava a modo suo. E poi come hai detto tu. Tu hai detto una cosa che a volte mi riaffiora. Visentini aveva un modo di stare in bicicletta che colpiva. Era Anquetil. Per certi versi molto simile ad Anquetil quando andava a cronometro o ad Anquetil quando combatteva…».
- Ci sono quei corridori che conosci anche senza guardargli la maglia. Il colpo di pedale rotondo di Bugno. Ti faccio una domanda quasi per psicologi: Roberto ha smesso più vincendo il Giro ’86, e quindi dimostrando soprattutto a se stesso, di saper vincere; o a Sappada? Quando ha davvero staccato con la testa, ti sei fatto un’idea?
«Lui ha meno rimpianti noi. Quando lo sento parlare di queste cose lui ha meno rimpianti di noi, e giustamente. I tifosi vivono con un altro spirito, lui ha dato tutto sulla bicicletta. Ci si è proprio consumato, come succede a tutti i ciclisti. I ciclisti non lasciano niente nel serbatoio. Un ciclista difficilmente ha rimpianti. Poi per la mentalità che aveva probabilmente ha fatto talmente tanta fatica di più di quanta magari poteva farne, quindi… No, io penso che Visentini per certi versi “finisce” a San Marino. E ti spiego perché. Perché quando sei così, quando sei fatto in quel modo lì, il momento in cui fai la tua esibizione massima, “dimostrativa”, è quello l’appagamento vero. Hai dimostrato cosa potevi essere, cioè quello che diceva Guimard, no? E cioè: “l’unico italiano che poteva vincere il Tour de France”. E lo voleva anche infatti nella sua squadra».
- Non avrebbe funzionato.
«No, no: il Tour era troppo caotico come squadra e come corsa per lui per gestirla mentalmente. Il Tour è caotico. Il Tour devi esserci, concentrato, troppi minuti. In troppe circostanze. E poi si attaccava di più che al Giro, al Giro negli anni Ottanta non si attaccava molto».
- Si attaccava quando si accendevano le telecamere della Rai…
«Sì. Quindi secondo me a San Marino questo suo arrivare al massimo per certi versi lo appaga, perché a quel punto la sua era una dimostrazione al mondo di cos’era Roberto Visentini. Non avendo avuto probabilmente questa necessità se non di vincere un Giro, che poi l’aveva già vinto ormai, forse già lì per certi versi, quindi nemmeno a Sappada. A Sappada se avesse avuto voglia di vincere il Giro lo vinceva, lo gestiva meglio Sappada. Eppoi non lo so perché anche nell’88 era competitivo, però poi sul Gavia serviva una volontà che lui non aveva più per resistere a quella giornata. Ma a me piace pensare che lui, per come era fatto lui, l’apice era per forza quel giorno. E non era un livello raggiunto. Era un giorno. E lui nell’86 vince un bel Giro in cui lui deve andare forte 21 tappe ma mai va forte come a San Marino. Poteva essere un ciclista che vinceva quattro o cinque Giri. Però io non credo poi nello sport a quello che potevi essere ma credo a quello che sei stato. Di tutte le manifestazioni della vita, lo sport è il più sincero. E di tutti gli sport il ciclismo è il più sincero».
- Cioè tu dici: nella vita, primo-secondo-terzo non succede.
«No. E non ho conosciuto ciclista più “sincero” di Visentini. Visentini era sdi una sincerità auitolesionista, sia quando parlava, sia quando correva. E allora non mi manca nulla. Ha di getto di averlo tifato, perché volevo tifare uno così. E infatti io sono uno di quelli che a Sappada… è un tormento, ti posso dire, io a Sappada ci penso cento giorni all’anno però ogni tre giorni mi trovo a scoprire… e siccome adesso vado in bicicletta, a volte quando vado in bicicletta, cerco di rivivere una delle duemila tappe di Visentini…».
- Spero di non avertici fatto entrare io in questo loop…
«Ogni tanto penso ora mi riprendono, mi sento come Visentini quando… però è un inganno che faccio a me. Ripeto: non mi voglio fermare a quel giorno. Quel giorno fa parte di Visentini. Come di Visentini fa parte San Marino».
- Con i toni più freddi e distaccati del cronista e del commentatore, Roche come lo valuti? Capisco ti desse meno emozioni, ma magari riesci a valutare da un punto di vista tecnico quello che Roche aveva e Visentini no, per esempio una certa forza mentale, la determinazione, la gavetta in Francia da dilettante quasi con la valigia di cartone…
«Roche era un fuoriclasse, per me. Nella testa e anche nelle gambe. Quando stava bene Roche poteva vincere qualsiasi tipo di corsa, poteva vincere la gara di un giorno, la corsa dura. Vinceva a cronometro, vinceva in salita, vinceva in volata, vinceva in fuga. Roche era un fuor4cilasse che non aveva salute fisica. E se non hai salute fisica e sei discontinuo, nel ciclismo non ce la fai ad avere un certo tipo di risultati. Lui andava fortissimo nell’85, andava incredibilmente forte nell’87 al di là di Sappada, al di là di tutto. E poi erano anni in cui già, col senno di poi, non sapevi per andare forte anche cosa succedeva però Roche era un fuoriclasse, come era un fuoriclasse Visentini. La più bella definizione… io quando ne parlo con Cassani, Cassani mi dice: “Visentini era un fuoriclasse”. Anzi, Cassani mi dice, e io lo rifaccio mia: io non ho mai visto in quegli anni un ciclista con la classe di Visentini. Ne ho visti più forti di Visentini. Ce n’erano tanti più forti di Visentini. Hinault era più forte di Visentini, Moser e Saronni erano più forti di Visentini, più forti in senso completo. E probabilmente anche Roche era più forte di Visentini. Erano fuoriclasse. E nel ciclismo i fuoriclasse non sono difficili da identificare, perché son quelli che riescono a fare qualcosa in modo sublime, cioè massimo, meglio di altri. E siccome la bicicletta è uno sport che possiamo fare tutti, cioè non è uno sport tecnicamente difficile, lo sai cos’è, lo vedi. Quando vedi gli atleti, un’impressione di chi è un fuoriclasse ce l’hai. Non di chi può vincere una gara di un giorno, ma proprio di un fuoriclasse, di uno che è capace di avere delle qualità naturali superiori. E secondo me Roche ce l’aveva. Non a caso era fortissimo da giovane. Se uno guarda la carriera di Roche, Roche smette di vincere a venticinque anni, grossomodo».
- E comincia che non ne ha neanche ventuno, alla Parigi-Nizza, alla terza settimana da pro’...
«Roche era un fuoriclasse».
- Quella Carrera possiamo considerarla una sorta di Team Sky dell’epoca? O se preferisci: il Team Sky può essere una Carrera di oggi?
«No, preferirei sempre un team come la Carrera perché aveva una grande forza, una base di crescita, una natura “territoriale”. Un gruppo di bresciani fortissimo. E quello era una sua forza».
- C’era anche un “sano” nonnismo, ammesso dagli stessi protagonisti. Per uno che entrava, alla fine o ti adattavi alle loro regole, o ti correvano anche contro. Vedi Chiappucci.
«Sì, ma il nonnismo fa parte della gerarchia, dei rapporti di forza, del ciclismo. Il nonnismo soffoca alcune carriere, finché non te ne liberi. Quella era una grossa squadra, fatta bene, fatta di ruoli precisi. C’era un velocista che quando era in stato di grazia, Bontempi, faceva quello. C’era Visentini per le corse a tappe, poi Roche. C’erano gregari che sapevano di esserlo, c’erano grandi passistoni. Se Visentini si fosse messo a ruota di Leali, suelle montagne ci arrivava più riposato, invece poi non stava mai a ruota, voleva veder la strada. E tu c’avevi un gregario di un metro e novanta come Leali che tappava il vento a quell’altri, e in questo [Visentini] aveva anche un po’ un limite. Percé quando sei in una famiglia, probabilmente a un certo punto non riesci a stimolarti quanto serve. Il Team Sky è l’opposto, sotto questo aspetto: il Team Sky è una famiglia costruita sui risultati, sul rendimento. E quindi hai bisogno di darti degli obiettivi continui. Di là l’obiettivo a un certo punto poteva anche essere stare insieme, proprio per questa solidarietà, questa conoscenza. E infatti nel Giro dell’87 se c’è un assenza di decisionismo è dovuto proprio a questo, alla troppa umanità che c’era in qualche rapporto. Se Boifava non fosse stato un bresciano ma un altro, avrebbe avuto meno timore a sembrare un favoritismo la vittoria di Visentini, lì serviva un polso che a un certo punto andava da Roche e gli diceva: te ti fermi punto e basta. Oppure che alla fine della tappa diceva: va bene, hai preso la maglia?, da domani lavori per… Però Boifava lì ha pagato questo suo essere… perché tutto quello che faceva Boifava poteva essere letto come amicizia, e poi magari finisci per comprometterla l’amicizia, perché non credo che con Visentini siano rimasti amici. Quindi ecco, questo tipo di limite. E tanto che l’impressione che avevo era che la Carrera vincesse meno di quello che poteva. La Carrera era la squadra più forte. Però gli mancava una “militarizzazione”».
- La sua forza e il suo limite?
«Sì, la competitività assoluta».
- Prima mi hai tirato dentro i concetti di amicizia e, allo stesso tempo, per il Team Sky di oggi, di business: c’è forse un anello di congiunzione che si chiama Eddie Schepers, che era amico di Roche ma per un sano interesse. Quando firmava i contratti per i circuiti, Roche si portava dietro Schepers. Se lo porterà anche l’anno dopo, alla Fagor, con Millar, Anderson, il meccanico-factotum Valcke. E quindi si creava il cosiddetto “Team Roche”: uno Stato nello Stato.
«E quella era una squadra vera. Quell’anno era fortissima, quella piccola enclave straniera dentro la Carrera, che era una grossa squadra. Perché c’era un capitano in grande forma, un gregario in grandissima forma e che aveva un grande, magnifico obiettivo. Stavano bene, e se stavano bene volevano vincere. Roche aveva fatto un ’86 di merda, di patimenti. E quindi nell’87 stava bene e voleva vincere. Anche perché poi, sai, Roche era previsto per il Tour. Però sai programmare il Tour per la vittoria è difficile. Al Tour chissà che cosa succede, chissà come ci arriva quello, come ci arriva quell’altro. Poi è vero che avevano impallinato LeMond, quindi c’erano delle chance».
- Da un punto di vista giornalistico, quella forse è stata l’ultima epoca coi grandi cantori, penso per esempio a un Mario Fossati. Tu che modelli avevi come riferimento, se ne hai avuti, magari anche dopo?
«Nel ciclismo io son sempre stato un lettore di Repubblica, quindi leggevo Fossati per quanto riguarda il ciclismo, leggevo Clerici nel tennis, leggevo Brera nel calcio».
- Alla generazione nostra non è mancata una generazione intermedia dopo quegli aedi lì?
«Non lo so. Io temo invece che quegli scrittori di sport lì fossero in un certo senso figli di una generazione di una situazione irripetibile. E noi siamo cresciuti con gli emuli, che è drammatico. Io penso che ogni generazione, ogni biografia abbia poi per forza un suo linguaggio. Io penso che Brera fosse semplicemente un Gadda che scriveva di sport, ma perché aveva avuto familiarità con Gadda».
- Ma dopo la generazione di Brera c’è stato un po’ un buco, no?
«Perché chi voleva imitarlo ha generato solo retorica. L’emulazione è una forma retorica, poi alla fine vuota, perché un emulo è vuoto, manca del talento per imprimere un’estetica, uno stile. Quelli avevano un’estetica, uno stile. Io poi son stato amico di Gino Sala, l’ho conosciuto andando a lavorare a L’Unità, siam stati anche amici. Era uno di quelli che mi raccontava: come potevi anche solo pensare di scrivere allo stesso modo. A Gino Sala davno una macchina e lo mettevano in mezzo alla corsa, lui stava dietro i polpacci. Noi stiamo davanti ai polpacci. Li guardiamo in televisione. Anch’io, quando ho seguito il Giro d’Italia da giornalista, il Giro d’Italia te lo fanno vedere in televisione. I ciclisti li vedi alla partenza, ma sono fermi, e all’arrivo: sono stanchi, ma sono fermi».
- E subito te li portano via i mille fra addetti stampa, massaggiatori, preparatori, uomini di loro fiducia…
«E invece una volta [gli inviati] stavano in mezzo alla corsa. E poi, da grande, prima di fare il Giro, ho recuperato le cronache di Alfonso Gatto, di Dino Buzzati, perché volevo vedere come scrivevano gli scrittori al Giro d’Italia. Però anche lì capivi che c’era un rapporto col ciclismo, ma anche col territorio, ma anche con la gente, che era completamente diverso. E quella scrittura non poteva che essere figlia di quel modo letterario di vivere, vedere, la vita. Noi dovevamo accontentarci di essere magari cronisti e poi nella cronaca di trovare immagini. Era cambiato il mondo. Noi avevamo a disposizione più informazioni ma meno… vita. Però insomma noi li abbiamo letti, abbiamo letto Brera, Clerici, Fossati. Io ancora me li leggo. Se han scritto qualche libro me lo son messi da parte, gli articoli di Fossati su Visentini me li son riletti cinquantamila volte. Fossati poi era il più critico di tutti sui fatti di Sappada. Non credeva. Fece un bellissimo pezzo nel giorno di San Marino ma non si “scaldò”, non si arruolò, per Visentini. Me li ricordo tutti, e son passati trentun anni. Però son stato fortunato d’averli letti. Se siamo ancora interessati a questi episodi, forse è perché li abbiamo letti».
- Allora ti chiedo: 1) perché trentun anni siamo ancora qui a parlarne? 2) nel ciclismo dei wattaggi, dell’srm, del rapporto peso/potenza ormai divenuto fissazione, potrebbe succedere una Sappada? O una La Plagne: cioè un Roche che sviene all’arrivo, con la maschera dell’ossigeno, per aver rincorso a tutta Delgado non sapendo quanto gli fosse distante. Oggi l’ammiraglia gli direbbe: rallenta, non serve. Perché sanno già quando l’avrebbe ripreso, soprattutto con ancora a disposizione la crono dell’indomani per vincere il Tour.
«Sappada è stato un fatto umano, quindi si può benissimo ripetere. Perché comunque sono sempre gli uomini che decidono, che comandano, quindi Sappada si può ripetere. Roche nel ciclismo moderno ci starebbe benissimo, Visentini no. Visentini con l’auricolare non correrebbe nemmeno una tappa».
- E forse nemmeno salirebbe in bicicletta.
«No, è giusto, ma ci è piaciuto per quello. Visentini nemmeno col caschetto esisterebbe. Visentini esisteva anche perché aveva quei bellissimi capelli, aveva la fascetta».
- Figurati compilare il modello Adams, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno.
«A Visentini mancava il caschetto per invogliarlo a non fare ciclismo, perché secondo me aveva bisogno di sentirsi quello che era. Quindi Sappada è un fatto umano e può esistere. Roche sarebbe un campione anche oggi, anzi forse di più, perché più controllato, più tutto. Visentini oggi non ci sarebbe e forse è anche per quello. Sai perché dopo trentun anni ne parliamo sempre? A parte tutto quello che ci siamo detti, a parte la mia “consolazione” di aver visto San Marino – ogni volta che penso a Sappada voglio pensare anche a San Marino, e non avrei subìto Sappada come l’ho subita, se non avessi visto San Marino quindi lo voglio anche accettare – ma c’è rimasto presente perché è stato un torto. I torti sono indelebili, eh. Quando si tratta di un torto, il tempo vola ma non passa mai. Il tempo vola. Mi sembra di essere ieri che vedo la televisione, con De Zan. Il tempo vola ma non passa, se hai subito un torto. E questo è».
- Parlando invece con i giornalisti anglosassoni, per sentire le due campane, loro non la vivono come noi. Ti dicono “Uh, funny thing”, curioso, che un giornalista italiano parli di treason, tradimento, perché per loro non lo fu. Fu solo business, una scelta di corsa. Forse siamo noi che l’abbiamo un po’ letterarizzata, se mi passi il termine.
«Però se Froome avesse fatto una cosa del genere a Wiggins…».
- È questo il punto: al Tour 2012, Brailsford lo prese metaforicamente per un orecchio… Idem per Landa al Tour 2017: era lui il più forte in salita, ma neanche ci ha mai pensato a poter fare una Sappada a Froome.
«Certo».
- Il fatto che il Visenta fosse ricco di famiglia e non facesse vita da atleta è fiorita tutta una letteratura di luoghi comuni, poi smentiti dai testimoni dell’epoca. In realtà faceva anche di più della vita da atleta, allora ti chiedo: che cosa vorresti trovare in questo libro, oltre alla piazza pulita di falsi miti, bugie e inesattezze (e anche cattiverie) tramandati per tre decenni? Vorresti che fosse raccontata che cosa?
«Ce la fai a parlare con Visentini?».
- Io sono un cagnaccio: non mollo. Però, alla fine, dipende da lui. Vorresti chiedergli qualcosa in particolare?
«Vorrei trovare la sua serenità. Io son convinto che quella tappa, dopo trentuno anni, turbi il sonno di Roche e non quello di Visentini. Turbi il sonno di Bucciantini e non quello di Visentini».
- Roche dice che lo chiama e Roberto mette giù.
«E così restituisce la pace anche a noi. Io vorrei che questo libro mi facesse dimenticare Sappada».
- E ricordare solo San Marino? Perché per te sono inscindibili, no?
«Sì. Per me, sì».
CHRISTIAN GIORDANO
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