Patrizia e il comandante, l'abbraccio 25 anni dopo


VERONA - Santa Margherita Ligure, 17 aprile 1990. «Quando entrai in quella stanza vidi la bambina. Era seduta a terra e giocava con una bambola, la tivù a tutto volume. Lei si voltò e per non spaventarla decisi di fare una cosa che nessun carabiniere del Gruppo d’Intervento Speciale aveva mai fatto: mi tolsi il mefisto, quella specie di passamontagna nero che ci nasconde il volto. E l’abbracciai, stringendomela al cuore. “Ora ti porto dalla tua mamma”. Lei mi sorrise dietro quegli enormi occhialoni. Avevamo liberato Patrizia Tacchella. Ed era come se avessimo salvato nostra figlia, la figlia di tutti gli italiani». 

Verona, 5 novembre 2015. Un uomo entra in una stanza del circolo ufficiali di Castelvecchio, il maniero in cui settant’anni fa si svolse il processo a Galeazzo Ciano. Lo raggiunge una donna, castana, gli occhiali calati sul naso. È agitata, respira a fondo. Lui le va incontro, i capelli grigi, il volto segnato da una vita incredibile. E gli stessi occhi marroni del gigante che 25 anni fa abbracciò la bambina. 

Patrizia Tacchella ieri è tornata a stringersi al «Comandante Alfa», uno dei fondatori del GIS, il corpo d’élite dei Carabinieri che dal 1977 esegue gli interventi considerati ad altissimo rischio. Sono le teste di cuoio italiane, esperti di arti marziali, di esplosivi, di guerriglia. Furono lui e la sua squadra, in una notte di maggio del 1997, a scalare il campanile di San Marco ponendo fine all’occupazione dei Serenissimi. «Si arresero subito, erano goffi e parlavano in un dialetto che non capivo e al quale io, arrabbiato, rispondevo in siciliano», ricorda l’uomo incappucciato. E furono sempre loro a partecipare, nel dicembre del 1989, al tentativo di cattura dei rapitori di Cesare Casella o alla sparatoria del marzo 1995 a Verona, quando l’assalto a un furgone portavalori finì con l’uccisione di due banditi e il ferimento di altri tre. «Non volevamo sparare, ma non avemmo scelta. Quando ci lasciamo dietro dei morti è sempre una sconfitta». 

E poi c’è quel 29 gennaio 1990, quando la piccola Patrizia, 8 anni, figlia del patron dei jeans Carrera, venne rapita da una banda di torinesi decisi a chiedere un riscatto di 5 miliardi

Da Carlo Celadon in poi, il Veneto di quegli anni aveva già dovuto fare i conti con l’Anonima Sequestri. Ma mai avevano osato toccare una bambina così piccola. «Fu uno choc collettivo – racconta il Comandante Alfa – tutti gli italiani si immedesimarono nel dolore di quella mamma e di quel papà, nell’affetto per quella bimba. A scuola gli studenti scrivevano lettere a Patrizia come fosse una loro compagna di classe, la pressione mediatica era enorme. Poi, finalmente, gli investigatori individuarono il nascondiglio dei rapitori e toccò a noi entrare in azione». 

Il blitz durò pochi minuti e portò all’arresto dell’intera banda, che in parte era stata fatta uscire dalla villetta di Santa Margherita Ligure con la scusa di ritirare il riscatto. Ci fu quell’incontro tra il comandante e la piccola, rimasti soli nella cameretta con lui che l’abbracciava «perché sentivo di volerle bene, ma anche per fare da scudo al suo corpicino esile nel caso uno dei banditi fosse riuscito a raggiungere la stanza». 

Oggi, a 64 anni, il Comandante Alfa si occupa di addestrare le nuove leve e si prepara ad andare in pensione, tra un paio d’anni. Ha scritto un libro, «Cuore di rondine» (ed. Longanesi) il cui ricavato va agli orfani dell’Arma e nel quale racconta i suoi quasi quarant’anni di attività nel GIS. Presto diventerà una fiction televisiva in sei puntate. Giovedì l’ha presentato a Verona e ad attenderlo c’era lei: Patrizia Tacchella, che ora ha 33 anni e ha appena dato alla luce il terzo figlio. Si sono incontrati in una saletta privata, il comandante a volto scoperto. «Ti ho riconosciuta subito, sei sempre uguale a quella bambina». Lei ha iniziato a piangere, non riusciva neppure a parlare. E allora lui le ha raccontato di quel giorno e, rapidamente, le emozioni sono riemerse. «Sto ricordando tutto, ricordo la tua voce» ha detto Patrizia. «Grazie, grazie, grazie». 

Poi lui ha indossato il mefisto e ha incontrato il pubblico nella sala di Castelvecchio. E li, di nuovo, si sono avvicinati, il comandante le ha posato una mano sulla spalla, uniti da un vortice di emozioni. Un abbraccio che va ben oltre il valore di un incontro tra l’ex bambina ormai diventata donna, e l’uomo che tanti anni fa la salvò da un incubo. È il sigillo che chiude una delle pagine più tristi della storia italiana, quella dove a comandare erano bande di sequestratori senza scrupoli. 

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