Un fiore rosa nel Belìce dove la vita si fermò


Il Giro porta sorrisi e colori a Santa Ninfa, distrutta dal terremoto del 1968  come aveva già fatto in Friuli, in Irpinia e a L’Aquila: per non dimenticare

di Claudio Gregori, 
Gazzetta dello Sport, 9 maggio 2018

Era il 15 maggio 1860, quando la Valle del Belìce udì tuonare i cannoni borbonici, mentre le camicie rosse, che avevano pernottato a Salemi, andavano all’assalto alla baionetta tra i fichi d’India verso Calatafimi. Era gennaio, il 14-15 gennaio 1968, quando la terra della Valle del Belìce tremò e quattro paesi – Gibellina, Montevago, Salaparuta, Poggioreale – furono sbriciolati. Altri furono distrutti al 70-80% come Santa Ninfa, dove il Giro d’Italia arriva oggi, Santa Margherita di Belìce, Partanna, Salemi. Altri devastati: Menfi, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina – il più antico insediamento albanese in Italia – Sambuca di Sicilia, Sciacca, Vita, dove i garibaldini cominciarono a fare l’Italia e, appunto, Calatafimi, che ha aggiunto al suo nome glorioso quello millenario di Segesta. Furono oltre 300 i morti e centomila i senzatetto. La ricostruzione fu di una lentezza infinita. Il Belìce divenne la metafora dell'inefficienza italica. «La burocrazia uccide più del terremoto», disse Danilo Dolci. Leonardo Sciascia, in un’interrogazione parlamentare, nel 1981, denunciò «la vergognosa speculazione che si è attuata con la complicità e l’omissione di controllo dei pubblici poteri, nella mancata ricostruzione della Valle del Belìce». Don Antonio Riboldi, parroco di Santa Ninfa, scelse di stare nelle baracche col suo popolo ferito a lottare contro la mafia e il malgoverno.

IL MIRACOLO 
Fu una tragedia terribile. Una ferita che solo ora si rimargina. Eppure nella ganga ci sono diamanti. Candido Cannavò, direttore della Gazzetta dello Sport per 19 anni, ne trovò uno splendido. Fu mandato dal suo giornale, La Sicilia, tra le macerie. Un freddo cane. Fango, silenzio e brina. A Gibellina trovò i vigili del fuoco al lavoro. Cercavano cunicoli. «A un tratto si sentì un piccolo suono, forse un belato, forse il suono di una semplice illusione. Dopo pochi minuti, si ripeté. Un vigile disse: "Magari c’è una capretta: vediamo di tirarla fuori". Cercarono di individuare la fonte di quel segnale sonoro. E di colpo, forse seguendo un presentimento, deposero le pale e si misero a scavare con le mani. Ora quel piccolo suono di vita era più vicino. Poteva essere un pianto. Nessuno osava dirlo, anzi nessuno apriva bocca. Io seguivo il lavoro con un’emozione che non so descrivere. "Scavate piano", mi scappò di bocca. Ma non ce n'era bisogno: quegli omoni carezzavano la terra, immaginando, ora sì, che stesse custodendo un miracolo. Ad un tratto si aprì un piccolo cunicolo. E comparve ai nostri occhi il Bambino Gesù di Betlemme, trasferito a Gibellina: aveva smesso di lamentarsi, ci guardava con i suoi occhioni scuri e smarriti e il suo succhiotto in bocca. Uno dei vigili lo prese in braccio con la tenerezza di una madonna. L’uomo aveva i capelli rossi e la barba ispida da due giorni. Piangeva senza pudore e diceva: "Sei vivo, sei salvo, figlio mio, tesoro adorato, procuriamo subito un po' di latte"...» (Cannavò, Una vita in rosa, Rizzoli). Quel bimbo, Franco, aveva 11 mesi. Era rimasto sotto terra per 40 ore.

PONTE 
Questa è una terra abitata dal miracolo. Il Giro vi irrompe e la conquista con la forza della giovinezza. Santa Ninfa non è solo un traguardo, ma un luogo della memoria. Il Giro la visita col suo sciame colorato e splendente. Porta il sorriso in una terra che ha conosciuto il dolore. Come ha fatto in Friuli, in Irpinia, all’Aquila. Come ha fatto anche ad Israele, dove accanto a Dumoulin e Viviani, pedalavano anche Bartali, Einstein e Anna Frank. Il Giro non è solo un gioco di muscoli. È un viaggio nella storia e nella bellezza. È un manifesto che porta messaggi. Nei giorni scorsi è diventato un ponte che, con straordinaria audacia, è stato lanciato verso un continente lontano. Ha aperto una nuova Via della Seta. Ora torna dall’Oriente dove è nata la ruota. Torna ossigenato dalla terra della Bibbia e del Vangelo. E ricomincia dalla Sicilia, questo punto d'incontro delle culture del Mediterraneo. Avamposto d’Europa, ma anche dell’Africa (Cartagine) e dell’Asia (Arabi).

OGGI 
La tappa di oggi è di rara bellezza. Agrigento non ha solo la Valle dei Templi e il mitico Toro di Falaride. Ha anche tradizioni sportive sicure. Terone, tiranno di Akragas, vinse ad Olimpia la corsa delle quadrighe nel 476 a.C. e Exainetos si impose due volte, nel 416 e 412 a. C., nello stadion (192,28 m), la corsa di velocità. Anche la Valle del Belìce è ricca di storia, sulla direttrice Segesta-Selinunte, città in perenne guerra. Goethe visitò il tempio di Segesta e il teatro, in parte scavato nella roccia, il 20 aprile 1787. Il giorno dopo andò da Alcamo a Castelvetrano e scrisse: «Abbiamo trovato dei fichi già in fiore; ma quello che destava la nostra meraviglia erano gli sterminati tappeti di fiori distesi lungo la via fin troppo ampia, che spiccavano alternandosi in grandi masse variopinte una accostata all’altra. I più bei convolvoli, gli hibiscus e le malve, grandi varietà di trifogli... Cavalcammo attraverso questo splendore di tappeti mantenendoci entro i sentieri che s’incrociavano a non finire». Godiamoci dunque questo labirinto fiorito. Goethe è credibile. Ha fatto il Giro d’Italia già nel Settecento. E con ogni probabilità conobbe il velocipede. Il barone Drais von Sauerbronn, che l’ha inventato, era membro della «Società che favoriva le arti utili» di Francoforte, come Goethe. Andò in quella città libera e, il 30 aprile 1818, fece domanda di brevetto per il velocipede. Fu respinto. Ma non fu colpa di Goethe.

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