Franco Cribiori, l'arte del diesse
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Buon corridore, Franco Cribiori in una delle sue tante vite è stato, oltre che esperto d'arte (passione trasmessa ai figli, galleristi a Milano), l'archetipo del direttore sportivo della sua epoca. I Settanta più ancora che gli Ottanta.
Uomo d'intelligenza vivida, classe e carisma, a volte sin troppo diretto, per non dire brusco, aveva nel fiuto per i corridori e la tattica di gara i suoi punti d'eccellenza. Per referenze chiedere ai registi tv Fininvest che lui da consulente esterno fulminava con lo sguardo non appena quelli non ne coglievano al volo dritte figlie di decenni trascorsi in gruppo e in ammiraglia.
Lo incontro assieme a sua moglie - collega, oltre che compagna di vita, che per i gruppi sportivi gestiti dal marito si occupava di tutto, dalla logistica all'amministrazione, dalla contabilità alla segreteria - nella loro splendida casa nel Varesotto. Ne esco dopo un clinic di ciclismo lungo generazioni. L'ex "biondino di Corsico" trasuda leggenda.
Curione di Veggiate (Varese), lunedì 29 gennaio 2018
- Franco Cribiori, se le dico Sappada '87 che cosa le viene in mente?
Uomo d'intelligenza vivida, classe e carisma, a volte sin troppo diretto, per non dire brusco, aveva nel fiuto per i corridori e la tattica di gara i suoi punti d'eccellenza. Per referenze chiedere ai registi tv Fininvest che lui da consulente esterno fulminava con lo sguardo non appena quelli non ne coglievano al volo dritte figlie di decenni trascorsi in gruppo e in ammiraglia.
Lo incontro assieme a sua moglie - collega, oltre che compagna di vita, che per i gruppi sportivi gestiti dal marito si occupava di tutto, dalla logistica all'amministrazione, dalla contabilità alla segreteria - nella loro splendida casa nel Varesotto. Ne esco dopo un clinic di ciclismo lungo generazioni. L'ex "biondino di Corsico" trasuda leggenda.
Curione di Veggiate (Varese), lunedì 29 gennaio 2018
- Franco Cribiori, se le dico Sappada '87 che cosa le viene in mente?
«La crisi di Visentini. Era in maglia rosa e secondo me è stato molto, molto stupido, perché il Giro doveva vincerlo lui. Andava più forte di Roche. Andava più forte in salita e più forte a cronometro, però era anche fragile di nervi. Roche è entrato in quella fuga. E Roberto ha cominciato a perdere la testa. Andava alla macchina [l'ammiraglia, nda]: ah, ma di qui, ma cosa fa… E invece doveva parlare con qualcuno, una squadra che non avesse interesse, si faceva aiutare, perché lui non poteva andare a tirare per andare a prendere Roche, un suo compagno, però metteva lì un’altra squadra. Fossi stato il suo direttore sportivo, l’avrei fatto io. Però, sai, non posso parlar per gli altri. E comunque questo qua ha perso la testa e poi probabilmente non ha mangiato ed è andato in crisi di nervi e di fame».
- Lei era in ammiraglia con l’Atala, che sensazioni avevate in gruppo di ciò che stava succedendo? Se ne avevate, sentendo radio corsa.
«No, non ce l’avevamo perfetta. Ricordo che a un certo punto ho anche fatto qualcosa, senza parlar con nessuno, perché mi dispiaceva. E ho fatto anche tirare qualcuno dei miei, tanto è vero che [Marco] Vitali, in particolare, ha aiutato Visentini. Solo che questo era fermo, a un certo punto, perché… perché non era giusto. Quello che è successo, però, fa parte del gioco, no?».
- A proposito di tradimenti, lei ne ha vissuto uno da corridore, anche se solo da testimone e non in prima persona. Che cosa successe al mondiale di Ronse ’63, quando lei sfiorò il podio?
«Beh, tradimenti… [ridacchia]. Intanto, era un campionato del mondo. Era in Belgio e c’era Van Looy che allora era IL campione, metti il Sagan di adesso. Forse con una personalità anche maggiore. Questo non è che non è serio, però è uno che gioca. L’altro non scherzava mai. Fortissimo, velocissimo. Andava... E al campionato del mondo, nella squadra belga, avevan parlato che dovevan tutti correre per Van Looy. E forse avevan firmato qualcosa, perché dovevan tutti essere per Van Looy. Siamo arrivati in un gruppetto di venticinque-trenta e uno o due hanno tirato la volata a Van Looy. Però c’era un po’ il vento contro e lo han lasciato scoperto, un po’ lontano dall’arrivo. Van Looy, che era un gran campione e non aveva mai di problemi, probabilmente aveva mangiato poco e comunque è partito ma si è piantato. Beheyt gli era a ruota, probabilmente per proteggergliela, perché c’era Janssen, c’era Darrigade, c’erano dei corridori velocissimi, e questo qua s’è piantato e l'altro è passato. Van Looy dalla destra, una strada larga dieci-quindici metri, ha tagliato, tagliato, tagliato per non farlo passare, fino al marciapiede opposto, poi l’altro è passato lo stesso e ha vinto. E dopo è stato un lutto nazionale malgrado avessero vinto il mondiale. È stato brutto, da quel lato lì, eh».
- C’è una foto, giù dal podio, nella quale Beheyt nemmeno si gode la medaglia d'oro e la maglia iridata e Van Looy lo fulmina con lo sguardo... Siccome lei era in gruppo in quell'epoca, volevo chiederle come Van Looy gli fece la guerra, boicottandolo in corsa e convincendo gli organizzatori a non invitarlo più nei circuiti. In pratica lo costrinse a smettere di correre. Anche lui fa parte della cosiddetta maledizione della maglia iridata?
«Van Looy era un’iradiddio, è stato un grande corridore. Andava forte da febbraio fino al Lombardia. Ha vinto anche tapponi di montagna. Era un gran corridore e aveva una squadra straordinaria. Si mettevan là come c’era un filo di vento, se facevan il ventaglio ne andavan uno per angolo, eh. Per cui contro questo, l’altro è rimasto un po’ chiuso, però anche Beheyt era un bellissimo corridore. E poi ha avuto delle tragedie in casa [divenuto poliziotto, esercitandosi con la pistola d'ordinanza ferì a morte il figlio piccolo, nda]. La tragedia ciclistica lui non l’ha vissuta, perché gli han fatto la guerra».
- Gli ha fatto la guerra il corridore più forte nelle classiche e Beheyt era uno da classiche. E alla maglia rcobaleno sono legate tragedie incredibili: da Monseré al fratello di Bettini.
«Quella è la vita. Il caso di Monseré è diverso da quello di Bettini. Monseré era un corridore di ventidue anni, aveva vinto il mondiale, gran corridore anche lui da classiche, poi è morto in una kermesse lì in Belgio, per colpa di una macchina. Però là il traffico... Io ho fatto tante gare lì perché avevo i belgi e andavo. Quando facevan le classiche stavamo un mese, e c’eran sempre i ventagli. Come c’era vento allora facevan ventaglio, adesso meno. Lui era sulla sinistra per cui aveva anche torto. E poveretto, ci ha lasciato le penne. Di solito la maglia iridata fa fatica a vincere, non so perché. O fa troppe feste d’inverno…».
- O perché magari in corsa ti marcano di più…
«Quello è matematico. Per esempio Sagan: è campione del mondo, però al campionato del mondo lui corre come se fosse niente. Si mette là in mezzo al gruppo e poi fa gli ultimi dieci chilometri. Allora gli avrebbero fatto la guerra in modo diverso, adesso…».
- Lei su questo è stato critico: perché lo portano in carrozza fino a tot km dall’arrivo.
«Sì, però è complicato, perché adesso hai cinque, sei nazionali che hanno il velocista. E il velocista o lo lasci a casa, o se lo porti devi cercare di portarlo a far la volata, no? E allora se si metton tre, quattro, cinque squadre, non scappa più nessuno. Se il percorso è facile. Se è duro no, è l’inverso, ma se è facile. E questo, per tre anni in fila...».
- Poi il mondiale è strano. Con Lanfranchi, uomo Mapei, abbiamo buttato via il mondiale.
«Lì, fu una porcheria. Per esempio, De Vlaeminck non ha mai vinto un mondiale. Se correvamo con i gruppi lui li vinceva, invece aveva il Belgio contro. C’era Merckx, c’era Godefroot, era uno squadrone però si correvan contro».
- Torniamo a Sappada '87. Lei nei panni di Boifava che cosa avrebbe fatto?
«Io avrei parlato con una squadra che non aveva interessi di classifica o roba del genere, per andare a tirare, per aiutare. E dopo dovevi rendergli il favore, in un modo o nell’altro, però era giusto farlo».
- Può essere che Davide sia andato nel pallone?
«Ma sai, Davide era uno timido, non lo so. È bravissimo, perché è un ragazzo d’oro. Lì per me lui ha sbagliato. Oltretutto, Visentini era italiano; è andata così, però Visentini era fragile».
- Si può parlare di tradimento o Roche ha soltanto colto l’attimo?
«È stata un po’ una furbata. Non è partita come tradimento, è stata una furbata: questo ha aiutato quello davanti, alla fine, con il suo comportamento, no?».
- Roche sostiene di essere entrato nella fuga per far smuovere quelli della Panasonic.
«Son balle. Visentini andava più forte di tutti a cronometro e in salita, per cui non era necessario. Però se lo stesso Visentini a un certo punto prendeva tre compagni e li metteva là a tirare... Non glielo dice il direttore sportivo, glielo dico io come campione, no? E se quello là dice non devi tirare, no, io tiro, te fai quello che vuoi».
- E lì come giudica il comportamento di Schepers, gregario fedelissimo che Roche si portava sempre dietro ai circuiti e con cui l’anno dopo sarebbe andato alla Fagor? E la parte giovane della Carrera: Cassani, Chiappucci?
«Ma non ha tirato nessuno, eh...».
- Ma nei giorni successivi hanno lavorato per Roche.
«E be', dopo, a quel punto lì, sai, con la maglia rosa… è interesse di tutti. Però da quel lato lì, no, lì non han tirato. Io almeno tre li mettevo là a tirare. Anche di più».
- Voi come Atala che Giro avete fatto nell’87?
«Noi abbiam sempre vinto qualcosa».
- In quel Giro tre tappe: Freuler a Bari alla nona, Vitali a Riva del Garda alla 17esima e Calcaterra a Trescore Balneario il giorno dopo.
«Io ho cominciato con la GBC, una squadrina dove avevo smesso a 28 anni. Ero calato e poi si vede che non ero più concentrato. Ho sempre fatto anche altre cose, per cui… Ho fatto quattro o cinque anni che andavo come i campioni e dopo son calato nettamente. L'ultimo anno ho avuto l’appendicite prima del Giro per cui praticamente non ho corso. Poi ho fatto la squadra, una squadrina, e abbiam vinto subito una tappa al Giro col Ballini, quando han trovato positivo Merckx, lì a Savona, nel 1969. E poi Aldo Moser ha fatto settimo al Giro. Io ero ragazzino e lui era già professionista, e poi sono diventato il suo direttore sportivo [ridacchia]».
- E come si trovava a dare ordini a gente più vecchia di lei? Non era un diesse alla Ferretti…
«Non so, quando serve… Però devi parlare, no? Non c’è una regola, perché poi uno lo devi prendere in un modo e l’altro nell’altro. C’è quello che devi spronare e l’altro che devi frenare. Io non ho mai sgridato un corridore che non era forte e dava quel che doveva; però non andava forte, per cui cosa vuoi sgridare... Ho sempre sgridato qualcuno che sapevo che poteva far di più e non lo faceva, tipo il Bugno, per esempio. Lui perché correva male, non perché… Era molto serio».
- In quanto a classe pura è il migliore che ha avuto?
«Io penso De Vlaeminck. Però questo ha vinto anche il Giro, ha vinto due Mondiali. Però l’altro per me era più forte, nettamente».
- E chi avrebbe potuto dare di più?
«Ho avuto Vianelli, che aveva vinto le olimpiadi. Però l’avevo preso l’anno dopo che era stato con la Molteni e lì l’avevano un po’ massacrato. Era un sempliciotto, un contadinotto e si vede che non… Con noi invece era andato bene. Ha fatto quinto al Giro (nel 1971, nda). Poteva anche vincere, aveva un motore straordinario, però…».
- Anche Visentini aveva un motore straordinario.
«Sì. Visentini aveva anche più classe di Roche. Roche però era un corridore più completo e soprattutto di gran testa. Ha vinto anche il Tour quell’anno lì. Al Mondiale gli è andata bene, può succedere, quando non hai niente da perdere. Sai, ti deve andar bene,n non era un uomo che vinceva cinquanta corse. Alla fine è andato via a un chilometro o due. Kelly era di un altro pianeta, era un gran corridore. Però questo quell’anno lì ha vinto due grandi Giri e un mondiale, cosa vuoi dirgli?».
- Visentini aveva spalle molto larghe, un busto lungo rispetto alle gambe. Era un brevilineo un po’ particolare. Ha inciso questa conformazione fisica sulle sue caratteristiche di corridore?
«Non credo. Secondo me la testa era un pochino fragile. Perché era fragile. Non si può dire che non fosse serio. Lavorava, faceva quello che doveva, però in un grande Giro qualche brutta giornata la becchi sempre. C’è chi la supera e chi non la supera».
- Questa fama che aveva, siccome veniva da una famiglia benestante, era bello, le macchine, le donne, è stata un po’ ingigantita?
«E allora Merckx? Merckx guadagnava un sacco di soldi però lui, non da febbraio, perché lui correva anche le Sei giorni, per cui faceva tutto l’anno. Io non è che avessi un’amicizia con Visentini, lo conoscevo, lo vedevo in gara e in gara soprattutto nelle tappe era forte davvero. Era un corridore che poteva vincere molto di più di quello che ha vinto».
- Visentini ha un po’ pagato anche il periodo storico? Quando c’era Baronchelli, magari Torriani disegnava dei Giri duri. Poi c’è stata l'epoca di Moser e Saronni, abbuoni da trenta secondi. Dopo sono ricominciati i Giri duri e Visentini è rimasto nel mezzo e si è inimicato l’organizzazione.
«Queste cose, certamente. Però lui andava forte anche in quei Giri lì, non è che fosse inferiore a Moser e Saronni in quei Giri».
- Nell’83, senza gli abbuoni, come tempo su strada il Giro l’avrebbe vinto lui…
«Eh, ho capito, ma i se e i ma sono il patrimonio dei bischeri».
- Che ciclismo era quello di fine anni 80, con le grandi squadre italiane, le tante corse in Italia? Non era un ciclismo globalizzato come quello di oggi, e la forbice tra Giro e Tour non era così allargata. Oggi tra il Tour e ogni altra corsa c’è un abisso.
«Già partendo da quando correvo io, si correva in sei o sette nazioni. Italia, Svizzera, Francia, Spagna, Belgio, Olanda, in Lussemburgo c’era stato Gaul, un paio di inglesi, Simpson e Hoban, qualche tedesco come Altig, Junkermann; e basta. Adesso hai professionisti di cinquanta paesi, per cui è diverso. È più difficile adesso. Quando correvamo noi, ci saran stati cinquecento professionisti, adesso ce ne saran, non so, cinquemila».
- Saronni racconta che per Del Tongo, il suo sponsor, il Giro di Puglia era più importante del Tour de France. Perché Del Tongo aveva i propri interessi economici in Italia.
«Non credo proprio. Era lui che non aveva voglia di farlo, credo».
- Uno e mezzo li ha fatti.
«Eh, vedi? Era lui che non voleva farlo, come non voleva fare la Roubaix. Saronni era uno che poteva vincerla, la Roubaix. Era una corsa per lui, però non l’ha mai fatta [in realtà sì, nel '78: ritirato; nda]. Saronni era uno così veloce che non aveva bisogno di far certi numeri, ma era un gran corridore. Da giovane ha fatto qualche bel numero, anche staccando tutti. Dopo, faceva la volata, poi è stato bravissimo, uno dei più bravi a far funzionare la squadra. A far lavorare la squadra per lui, per tirargli la volata. Gli ultimi venti chilometri si mettevan là e non passava nessuno. È stato bravissimo, però forse si è accontentato perché, con lo spunto veloce, alla fine vinceva. Infatti poi lui demoralizzava il Moser, perché Moser doveva fare un certo lavoro e poi lui magari, tac, lo infilava. [ridacchia]».
- Moser di Tour ne ha fatto uno, e ha pure tenuto la maglia gialla per una settimana.
«Le nostre squadre puntavan più al Giro e alle classiche. Anche alla Brooklyn: l’ho fatto due volte, il Tour, in sei anni».
- Moser di Tour ne ha fatto uno, e ha pure tenuto la maglia gialla per una settimana.
«Le nostre squadre puntavan più al Giro e alle classiche. Anche alla Brooklyn: l’ho fatto due volte, il Tour, in sei anni».
- Il motivo era economico? Perché gli interessi dello sponsor erano prima di tutto in Italia?
«La Brooklyn, che era la prima o la seconda squadra del mondo, aveva dodici-tredici corridori, per cui eran sempre quelli. Le classiche, i grandi Giri, si correvan in dieci. Due, o al massimo tre, stavano a casa. Non potevi cambiare. E poi, dopo, tanti erano un po’ sgonfi, no? Il Tour non lo facevamo per quello. L’ho fatto due volte con la Brooklyn ma mai con De Vlaeminck, per esempio».
- Dal 2018 le squadre sono di otto corridori ai grandi Giri e di sette alle classiche.
«Sei obbligato a farlo perché ci son tante squadre».
- Incide per la sicurezza? Perché se poi mi metti venti squadre e mi togli un corridore per squadra, non è che cambi molto, o no?
«Be’, oddio, fan tante cadute, eh. Anche troppe, però anche il materiale incide. Queste ruote, guidi meno bene e sei meno rapido e poi van più veloci rispetto a prima. Il problema però è che corre tutto il mondo, e per accontentar tutti… E attenzione: c’è sempre anche un risvolto economico, sia per l’organizzatore sia per le squadre. Per me l’ideale è dieci corridori per squadra: se hai un campione che deve controllare la corsa, diventa molto dura. Non è facile».
- In tanti sostengono che il Team Sky ammazzi le corse, perché ha corridori che potrebbero essere capitani ovunque, li mette lì davanti a tirare a medie pazzesche e non va più via nessuno. Neanche per la famosa “visita parenti”...
«Sì, questo è vero. Froome ha vinto quattro Tour, avrà fatto dieci chilometri da solo davanti. In quattro Tour. Tu pensa Hinault. Non parliamo di Coppi e Bartali, era un altro mondo. Però il Merckx: le biciclette erano più o meno come adesso e le strade eran come adesso, lui faceva i suoi cento chilometri e non lo beccavi più. Questo qua ha fatto dieci chilometri da solo in quattro Tour. Vuol dire che l’han portato a spasso, no?».
- A proposito di saper correre nella pancia del gruppo, Visentini se ne stava in decima posizione a destra. Sempre scoperto, col vento in faccia. Aveva paura di correre a ruota?
«Anquetil invece era un fenomeno e lui era forte quanto Merckx. Aveva un’altra testa, e comunque lui era ultimo e se andava via una fuga di dieci-dodici arrivava il direttore sportivo: “Jacques, stai troppo indietro”. Allora lui andava in testa, e ha sempre avuto delle squadre ridicole. Tirava per venti, trenta chilometri finché non li prendeva. E riandava ultimo, era ultimo ma non stava a ruota, era sempre in fianco, sempre al vento. Magari quando c’erano i ventagli, tipo al Giro di Sardegna - si formavano i ventagli perché c’era sempre vento - c’era Van Looy che come c’era un filo d’aria c’eran i ventagli, e lui era ultimo e passava da un ventaglio all’altro, sempre dall’altra parte della strada e andava sul primo ventaglio. Nessuno, neanche Merckx, ha fatto queste cose qua. Però l’altro era un guerriero, dalla prima all’ultima corsa voleva sempre vincere. Poi, era un fenomeno, chiaramente. Per me Anquetil potenzialmente valeva quel livello lì. Anche Hinault, l’ultimo dei grandi-grandi».
- A proposito di Visentini e la squadra, forse era una sua provocazione, perché ha sempre avuto il gusto per la battuta dissacrante: anche quando lo vinse, nell’86, disse che per vincere il Giro non serve la squadra. Che cosa ne dice il grande ex direttore sportivo Cribiori?
«La squadra è fondamentale per vincere il Giro, dopo se hai Anquetil o Merckx puoi anche vincerlo magari con una squadrina. Oppure come ha fatto LeMond, che ha vinto il Tour senza la squadra. Però ti deve anche andare bene perché lui ha corso su Fignon e ha sfruttato il lavoro della squadra di Fignon. Ma se ti capita qualcosa, e hai bisogno della tua e non ce l’hai... LeMond era un gran corridore, però non ha usato la squadra perché non ce l’aveva e ha sfruttato quella degli altri. La squadra è fondamentale, importantissima. E poi la tranquillità: se sei in una squadra forte, puoi anche stare in mezzo al gruppo e sei tranquillo. Se hai una squadra debole, devi sempre esser là, perché se perdi la ruota del Gimondi o…».
- Come Tom Dumoulin al Giro 2017…
«Eh, hai capito? Devi esser lì».
- Cribiori con che occhio guarda il ciclismo di oggi? Si diverte ancora?
«Sì, mi piace. Però devono fare le salite più dure, non c’è niente da fare. A ruota la penetrazione dell’aria è il quadrato della velocità, la resistenza aumenta col quadrato della velocità, per cui a quaranta all’ora spendi il 10% in meno, a cinquanta il 20%, a sessanta il 30%. Allora era diverso, oggi è cambiato tutto. Devi far le salite che devi andar su almeno ai venti all’ora. Perché sennò uno a ruota non lo stacchi, se non vai al doppio non lo stacchi».
- Il punto è che Tour e Giro sono macchine mediatico-pubblicitarie talmente immense che se non ci sono aree adeguate per la sosta e il deflusso dell'enorme carovana, non possono più essere sedi di partenza o di arrivo. Ed è un problema pratico perché se anche te le mettono, le salite dure, magari devono per forza farlo a trenta chilometri dal traguardo… E allora addio selezione.
«Ma ci sono, le salite. Io ho fatto un Tour con Sercu che poi abbiam vinto la maglia verde e tre tappe, e c’era Merckx. Eravamo d’accordo per tenere la corsa perché noi avevamo l’interesse per vincere le tappe, non perché volevamo aiutare Merckx. Merckx però a un certo punto, aveva la maglia, in una tappa di pianura si arrivava non so dove e continuavano a partire di qui di là. I nostri non ce la facevano a tenere perché c’era una gran bagarre e a venti chilometri parte lui, con la maglia gialla, in pianura, e non lo prendi più. Hai capito? Questo vince la tappa con la maglia gialla che aveva un vantaggio che poteva andare a spasso. Era il suo carattere.
Un’altra volta, e quella lì stata il colmo: il primo anno che ho avuto Sercu, era il ’70, e avevan creato questa rivalità con Merckx che poi era ridicola, perché eran corridori diversi e anche amici. L’anno prima, al Giro del 1969 erano stati compagni alla Faema, e c’era una tappa che si arrivava a Terracina [i], tutta pianura, centocinquanta chilometri. Merckx ha Guido Reybrouck, che era un velocista, e lo mette a ruota a cinque chilometri e Sercu a ruota a Reybrouck con Merckx davanti a far l’andatura per tenerli fuori; aumenta-aumenta-aumenta, all’arrivo: primo Merckx, secondo Reybrouck, terzo Sgarbozza. Capito? Cinque chilometri davanti in pianura e non è passato nessuno, ma velocisti, oh! Se ci fosse oggi sarebbe uguale. Questo qua li sterminava tutti. Voglio vederli ’sti qua col computerino che suona. Ti suona la sinfonia di Beethoven! Ti tiran fuori gli inni subito. Adesso scattano a un chilometro dalla vetta. E quello là partiva subito e aveva una capacità di andar fuori giri e tenere, andava in acidosi eppure andava, hai capito? Adesso, purtroppo, non c’è un campione “vero”. Perché verrà, eh, non credere. Viene».
Un’altra volta, e quella lì stata il colmo: il primo anno che ho avuto Sercu, era il ’70, e avevan creato questa rivalità con Merckx che poi era ridicola, perché eran corridori diversi e anche amici. L’anno prima, al Giro del 1969 erano stati compagni alla Faema, e c’era una tappa che si arrivava a Terracina [i], tutta pianura, centocinquanta chilometri. Merckx ha Guido Reybrouck, che era un velocista, e lo mette a ruota a cinque chilometri e Sercu a ruota a Reybrouck con Merckx davanti a far l’andatura per tenerli fuori; aumenta-aumenta-aumenta, all’arrivo: primo Merckx, secondo Reybrouck, terzo Sgarbozza. Capito? Cinque chilometri davanti in pianura e non è passato nessuno, ma velocisti, oh! Se ci fosse oggi sarebbe uguale. Questo qua li sterminava tutti. Voglio vederli ’sti qua col computerino che suona. Ti suona la sinfonia di Beethoven! Ti tiran fuori gli inni subito. Adesso scattano a un chilometro dalla vetta. E quello là partiva subito e aveva una capacità di andar fuori giri e tenere, andava in acidosi eppure andava, hai capito? Adesso, purtroppo, non c’è un campione “vero”. Perché verrà, eh, non credere. Viene».
- Ma così capace di fare la differenza come in quell’epoca lì? Cioè così distante dagli altri?
«Sì-sì-sì. Prima che arrivasse Merckx già non c’eran più i distacchi. Ah, non si può più perché si va più veloce, perché le bici son più belle, le strade belle, di qui e di là. È arrivato questo qua e ha dato delle menate, porca miseria».
- Però son passati quarant’anni e un nuovo Merckx ancora non si vede neanche all’orizzonte.
«Be’, sai uno vien fuori. Anche Merckx quando è arrivato come fai a sapere? Io ero là a fare il mondiale a Renaix e lui ha vinto quello dei dilettanti. E poi ha fatto delle cose impossibili. Impossibili».
- Qual è stata l’impresa delle imprese di Merckx?
«Io ricordo un Fiandre, per esempio – ma ne ha fatte tante che è impossibile dirlo – C’era un po’ più pavé ma non c’erano così tanti berg [muri, nda] come adesso, allora si partiva da Gand, si andava verso il mare, si facevano venti chilometri sul mare e lì cominciavano a menare: dieci gruppi, dieci ventagli e metà erano già fuori corsa. Poi si girava, si tornava indietro verso il centro del Belgio e si arrivava al rifornimento dopo cento, centodieci chilometri. E rimanevano cinquanta-sessanta corridori, gli altri centocinquanta erano già a casa. Siam al rifornimento e il Merckx è davanti perché non vuol rischiare di cadere, prende il sacchetto e davanti, a cinquanta metri, gli resta a ruota Verbeek. Subito dopo, c’erano ancora sei-sette chilometri di pavé - un settore che adesso non c’è più - prima del Kwaremont, salita che fanno ancora ma allora c’erano sei o sette km prima e tutto il Kwaremont in pavé. Dietro c’erano De Vlaeminck, Gimondi, Godefroot, son rimasti in dieci-quattordici, e davanti tirava solo il Merckx, l’altro non tirava. Verbeek, altro bel corridore, era a ruota. E quella volta De Vlaeminck diceva: "eh, non è possibile, vai a vedere se lo tirano. Ma no, non è possibile”. E allora ho dovuto passare per accontentarlo [ride]. Perché quello là, quando era davanti con questo qua a ruota, anche in pianura, quando quel gruppetto lì si avvicinava, lui dava un po’ di gas e li metteva a due minuti. Era lui che controllava quelli dietro. E poi è arrivato sul Muro di Grammont, ha staccato Verbeeck ed è arrivato con cinque minuti. Hai capito? Cinque minuti! Ma ne ha fatte talmente tante…».
- Mi parla un po’ degli aspetti organizzativi. La Carrera era all’avanguardia, andava a prendere corridori all’estero, tipo Roche che nell’85 fece terzo al Tour.
«Come squadre eravamo i primi al mondo, nettamente. Allora i campioni venivano tutti qua. L’organizzazione, era migliore la nostra. Avevamo i massaggiatori in ordine, avevamo il medico in tutte le squadre. Per esempio, non so se era la Renault, comunque era Guimard il direttore sportivo, ricordo che eravamo al Giro di Sardegna e c’era Fignon che aveva una tendinite e non avevano neanche il medico. Eravamo in albergo insieme e il mio medico gli ha detto: fermalo. E lui: "Eh, no, ma dai...". Era in testa lui, ma era il Giro di Sardegna: cosa vuoi che freghi a Fignon? Ha dovuto operarsi, ha saltato anche il Tour, per dire una stupidata, no? Però erano così. Infatti preferivano venire tutti da noi».
- Per non parlare dell’alimentazione...
«Il primo è stato Giacotto con una squadra piemontese, la Carpano. È stata la prima che ha innovato un po’ tutto. La prima nel mondo, nettamente i più bravi di tutti. Poi siamo arrivati noi con la Brooklyn. La Molteni è stata una gran bella squadra, ma erano tutte organizzate bene. La Brooklyn è stata una squadra straordinaria. Un anno, su centoventi corse che abbiam fatto ne abbiam vinte ottanta. Due corse ogni tre, vincevamo».
- Bravo il patron: Perfetti, di nome e di fatto.
«Era un uomo straordinario. Ho avuto la fortuna di fare il direttore sportivo e l’ho fatto praticamente da padrone perché ho sempre avuto carta bianca. È chiaro che facevo l’interesse della squadra ma anche dei corridori. Infatti i miei corridori son tutti durati molto. Non li ho mai sfruttati. E poi i giovani, quando li facevo passare, ne facevo passare due l’anno. E il primo anno non facevano i gregari. Facevan la corsa. Dopo è chiaro che devono adattarsi, anche perché sennò li smonti subito ed è finita, no? Se gli togli l’entusiasmo, a un ragazzo, è finito. Adesso invece li mettono subito lì, al primo anno, come i somari. A far che cosa, poi? All’inizio tutti fan fatica, a parte i fenomeni. Io ricordo Saronni che è andato subito forte. Ha fatto secondo al Laigueglia ’77 dietro Maertens, che anche lui, quando andava, era un’iradiddio. Lì, ha avuto anche problemi in squadra con Driessens, che era un cretino…».
- Si vantava delle imprese di Merckx come se le avesse pilotate lui dall’ammiraglia…
«Ma no, cosa vuoi, Merckx faceva quel che voleva. Andava così forte che alla fine non puoi dire neanche se sbagliava o non sbagliava, se anche sbagliava rimediava, no? Era così esagerato».
- Tornando a Roche, era bravissimo a leggere le corse. Era una delle sue forze.
«Sì, bel corridore. Rispetto a quelli lì era due gradini sotto, però era un bel corridore e poi [quell'anno] gli è andato bene tutto. Quel Giro d’Italia che non doveva vincere l’ha vinto, perché non lo doveva vincere quel Giro. Al Tour, anche lì, non è che ci fossero degli avversari… E il mondiale, sai, è una corsa. È stato bravo e fortunato. Kelly era nettamente più forte. Non ha vinto il Giro, non ha vinto il Tour però ha vinto una Vuelta...».
- ...e sette Parigi-Nizza consecutive.
«E De Vlaeminck che ha vinto sei Tirreno-Adriatico? Sei in fila me ne ha vinte. E insieme a Merckx battevan tutti, allora».
- Mi dice qualcosa delle altre squadre in cui è stato direttore sportivo?
«Quando ho finito con la Brooklyn volevo smettere».
- Era stanco dell’ambiente?
«No. Ero stanco perché eravamo io e mia moglie, che mi faceva le prenotazioni, i conti, una roba e l’altra, praticamente lo staff eravamo lei e io e basta. Io pagavo poi passavo… Era un periodo, con tutti ’sti scioperi degli aeroplani, era diventato uno schifo. E facevamo tutto al telefono...».
- Sua moglie da casa e lei sempre in ammiraglia?
«Sempre. Mai saltata una corsa. All’epoca non c’erano le radioline e neanche tutte queste rotonde. Adesso non potrei. Una volta, se avevo bisogno di parlare, o vedevo che c’era qualcosa, andavo in coda e se non c’era nessuno andavo-andavo-andavo finché non trovavo qualcuno, perché sennò con chi parli. E delle volte dovevi praticamente quasi andare in testa al gruppo, perché magari eran tutti davanti. Io ho fatto ventun anni il direttore sportivo, ventidue in pratica, non ho mai toccato uno, non ho mai fatto un incidente. Però alle dieci di sera andavo a letto. E al mattino mi alzavo presto, con i corridori, prima dei corridori. E poi non bevevo, non mangiavo molto».
- Vita da atleta anche in ammiraglia…
«Da atleta, sì (ridacchia). Io l’unica gara in cui arrivavo stanco era la Parigi-Roubaix perché c’era una tensione... Adesso è ancora la Roubaix ma non è più la Roubaix, perché adesso il pavé l’han messo a posto tutto. Una volta entravi nel bosco... Il pavé c’è ancora ma adesso van a quaranta all’ora, allora andavano a trenta, sul pavé. Quando c’era il fango eran quattro dita, e poi eran tondi. A Valenciennes nella foresta era la fine del mondo».
- Meglio la Roubaix bagnata, perché almeno non hai la polvere in gola, nei polmoni e negli occhi, o la Roubaix asciutta ché almeno fori e vai per terra di meno?
«No, c’è il problema della polvere, che arrivavan che sembravan dei minatori, però col bagnato eri obbligato ad andare in mezzo alla strada, non potevi sfruttare le banchine perché ci sono le buche e non le vedi. Cosa ne sai di quanto son profonde? E le cadute... però De Vlaeminck, che con noi ha fatto sei Roubaix, non è mai caduto e ha forato una volta. E le sue ruote potevi usarle anche per le corse dopo, invece gli altri le tagliavan tutte, non stavan neanche a guardarle i meccanici. E ha forato quella volta che era caduto alla Gand-Wevelgem e ha corso la Roubaix con trenta punti sul braccio. Era uscito due giorni prima ed è rimasto con Merckx, che poi l’ha staccato».
- Qual è la corsa a cui è più affezionato?
«La Roubaix, spettacolare. Per me è la più fascinosa, anche adesso. Perché anche se il pavé è più bello, una roba e l’altra, però quando sei su una stradina comunque prendi il vento, perché non c’è lo spazio, devi stare in fila e se c’è il vento laterale te lo becchi. E infatti vedi che alla Roubaix a trenta chilometri dall’arrivo ci son lì cinquanta corridori, all’arrivo son tutti sparpagliati come a fare una salita».
- Si può dire che la Carrera fosse una specie di Team Sky con trent’anni di anticipo per com’era all’avanguardia, perché prendeva i corridori più forti e forse anche per il budget?
«Era una squadra fra le migliori. Questi mi sembrano ancora di più. Esageratamente di più».
- Quanto costava la sua Atala dell’87?
«Cinquecento milioni di lire, forse meno. Costava trecento milioni la Brooklyn».
- E voi eravate tra le top?
«La prima o la seconda».
- E la forbice? Che differenza c’era tra le medio-piccole e le grandi? Per esempio tra la Magniflex di Magrini e voi?
«Uno a quattro, uno a cinque».
- Oggi tra una Bardiani e una multinazionale siamo a uno a quindici e forse oltre. Quanto costa una piccola squadra per lanciare i giovani?
«Due milioni, e forse neanche ci arriva. No, ma infatti questi non sono a posto, ma non sono a posto in tante cose. Non è che mi piacciano tanto».
- Che valuta la figura di Brailsford e il suo operato nel ciclismo?
«Non lo conosco. Di sicuro è un organizzatore. Con una squadra così, questo qua li metterà in fila. Quando c’è il gruppo sono in fila, e in parte ammazza le corse perché non ce n’è un altro. Perché se ci fosse uno che va più forte di Froome lo stacca, e buonanotte. Perché questi qua fanno il lavoro, ma se c’è uno che va più forte… Invece, non c’è».
- Non c’è perché quelli forti li comprano tutti loro?
«Non c’è. Perché neanche quelli che han loro sono capaci di battere Froome».
- Le faccio due esempi. Al Tour 2012 Froome scatta in faccia a Wiggins ma dall'ammiraglia lo riportano all'ordine perché quell’anno lì doveva vincere Wiggins. Al Tour 2017 Landa era il più forte in salita però è stato richiamato perché doveva vincere Froome.
«Io ho avuto quel problema l’anno che avevo De Vlaeminck e De Muynck al Giro d’Italia. Però io li facevo correre alla pari. De Vlaeminck, che era caduto e si era fatto male a una gamba, si innervosiva perché vedeva che l’altro andava forte, e non gli piaceva. Perché il De Muynck è nato campione in poco tempo, io l’ho preso che era un buon corridore. Veniva da un anno sfortunato, perché era caduto. È il terzo anno che è andato forte, il secondo anno aveva vinto una tappa al Giro del Belgio. Aveva fatto il gregario, bravo. Al terzo anno, a Francoforte va via in partenza con un pistard a ruota e questo qua va-va-va, orco can!, l’han preso a tre-quattro chilometri, ha fatto duecentocinquanta chilometri davanti, poi ha staccato quello lì, eh la madonna come va questo qua, e dietro andavano… Dopo abbiam fatto Zurigo, niente. Andiamo al Giro di Puglia – per dirti come è nato questo De Muynck – e ricordo che la terza tappa arrivava a Monte Sant’Angelo, dove c’era Padre Pio. Mi diceva: “Domani vinco io”. Boh, speriamo, dico io [ridacchia]. E infatti, a un certo punto, all’inizio della salita parte, stacca tutti e va. Al Roger non piace. Parte anche lui, lo prende e lo batte. De Muynck secondo. Andiamo al Romandia [del '76, nda]. La prima tappa in linea la vince Knudsen, le abbiam vinte tutte noi, in pratica. La seconda tappa c’era l’arrivo in salita. De Vlaeminck mette davanti De Muynck a far l’andatura. C’erano De Muynck, De Vlaeminck e Merckx. A un certo punto questo qua li stacca tutti e due, vince la tappa e prende la maglia. Hai capito?! E lì ha cominciato ad andare. Poi, De Vlaeminck gli ha anche corso contro. De Muynck poi ha vinto la cronometro finale [con 18" su Merckx e 45" su De Vlaeminck, nda] e il Romandia [con 2'51" su De Vlaeminck e 2'58" su Merckx, nda]. Andiamo al Giro e abbiam fatto dieci giorni che si scambiavan la maglia Sercu, De Vlaeminck e De Muynck. E poi a un certo punto De Vlaeminck era caduto, gli altri no ma per me andava più forte De Muynck».
- Ha avuto altri casi di più galli in un pollaio?
«No, solo quello».
- Quindi lei ha scelto di non avere due potenziali capitani che si pestavano i piedi?
«Sai, quegli anni lì c’era Merck, cosa vuoi comprare? Io avevo De Vlaeminck, cosa compri uno che poi le prende dal Merckx? Cerco di prendere uno che poi mi vince quaranta corse l’anno. Con la Roubaix, non so, il Fiandre, il Giro di Lombardia, sei-sette tappe al Giro».
- Al Giro '87 ci fu una cronodiscesa, la semitappa del Poggio. Un azzardo che né Torriani né nessun altro ha ripetuto. In carovana come l’avete recepita?
«È stato Magni a suggerirgliela».
- Vinse Roche, voi sesti con Urs Freuler a 9”. Bel velocista, e bel playboy con quei baffoni…
«Freuler andava forte in discesa. Un bel campione. Doveva far di più anche lui, troppo facile tutto, però gran corridore, sì».
- Anche a Visentini veniva tutto troppo facile?
«Sì, poi era uno leggerino, ma era la testa che non era… Era il carattere».
- Un po’ come Gianni Bugno?
«Gianni io l’ho preso… Avevo il meccanico, Di Lorenzo, che era di Monza e lo seguiva già di dilettante, e l’abbiam preso. Era un corridore molto, molto, molto - sette volte “molto” - serio. Perché era molto serio il Bugno, però in corsa gli dicevi una cosa e invece lui… Non era bravo a correre. Si metteva là e gli dicevi: guarda che c’è il rifornimento poi c’è la salita, bisogna star davanti e invece lo trovavi ultimo, ma non è che lo facesse apposta. Era perché era così. E infatti abbiamo avuto anche un po’ sai di... Io cercavo di correggerlo, perché alla fine era il mio compito. E col senno di poi probabilmente ho sbagliato, perché tanto, dopo, ha corso così come correva e ha vinto, no?».
- Lei quindi cercava di pungolarlo…
«Di pungolarlo, e intanto era uno che vinceva la corsa e sembrava che avesse perso. E dico: porca miseria, non sei contento? Eh, ma sai, domenica… Ma lascia stare domenica prossima… Era una roba… È stato il corridore per me più difficile da gestire, ma non perché non fosse bravo, serio o disciplinato. Ma perché per me era uno che doveva vincere venti corse e ne vinceva cinque. Un direttore sportivo bravo deve vincere tutte le corse che deve e anche qualcuna che non deve. E lui perdeva le corse che doveva vincere».
- Dal punto di vista della proprietà, lei ha sempre avuto carta bianca. Nella Carrera dei patron Tacchella avrebbe avuto più difficoltà? Lo sponsor mette i soldi e vuole un riscontro, no?
«Non lo so, io non ho mai avuto problemi con nessuno. Riscontro sì, però a me mai nessuno ha detto compra questo, compra quell’altro. O vinci questo, vinci quest’altro. Mi dicevano “prova a vincere”, non “vinci”. Che vinci lo sai dopo... [ride]. Però dopo puoi accontentare uno perché dici: mi interessa più andare in Belgio che in Francia o in Svizzera e ci vai, però senza l’assillo della squadra. Fai un programma che deve andar bene rispetto ai corridori che hai. Perché alla fine devi dare i risultati e devi usarli in un certo modo. Dipende da quello che hai, no?».
- Lei è uscito dal ciclismo giusto prima dell’epoca buia. In questo senso è stato fortunato...
«Per fortuna, sì. Può anche darsi che li avrei denunciati, eh».
- Ma lei aveva sentore che ci fosse qualcosa che non andava?
«No. Quando ho smesso, no. C’eran delle cose che non mi tornavano. Siamo andati al Giro del '94 con Mediaset che mi ha chiesto di fare da consulente per la regia e poi facevo il Processo col Vianello. E ricordo il Berzin, che era un pistard, vincere una tappa di montagna. Era lì, con la bambina in braccio, sembrava uno che era lì a veder la corsa… Porca miseria! Io ho visto Merckx, Hinault e dicevo: boh… C’è qualcosa che non va. Hai capito?! Sembrava uno che era lì a veder la corsa, non uno che aveva fatto la tappa. La Roubaix l’abbiam vinta quattro volte, però della mia squadra forse una volta ha fatto terzo uno, gli altri tutti finiti, perché lavoravano! Io li avrei lasciati a giocarsela fino a due chilometri dall’arrivo, poi vanno a tutta, mi sembra giusto, no? Dopo, vinceva lo stesso Museeuw, massì, e nettamente».
- Fu tradimento quello di Roche a Visentini? E da che parte sta, perlomeno col cuore?
«Io l’ho vissuta perché ero lì e l’ho vissuta abbastanza intensamente. Ho cercato anche di aiutarlo Visentini, sinceramente. Però per me il Roche ha fatto il furbo. Non dico sia stato un tradimento però ha fatto il furbo. Questo, sicuro. E poi è stata gestita male dal Visentini e dalla sua squadra. Anche se il Giro poi l’han vinto lo stesso. Però è un Giro che doveva esser vinto da Visentini. Io son dalla parte di Roberto, sì».
- Che cosa le piacerebbe trovare in questo libro che parla del suo ciclismo trent’anni dopo?
«Non lo so. Quando lo hai scritto lo leggo [esplode in una fragorosa risata]».
Ben mi sta, me la son cercata: un Cribiori instant-classic.
[i] All’arrivo, nel crollo di una tribuna morì un bambino di undici anni, Gianfranco Manzi.
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