Barry Ryan: Sappada, un "melodrama" di business
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Barry Ryan è stato una grande scoperta. Corrispondente per l'Europa di Cyclingnews, irlandese di Cork trapiantato a Dublino, ha studiato in Italia (traduceva in inglese testi religiosi antichi dall'italiano arcaico) e parla un italiano così perfetto da fare invidia agli autoctoni. In più, intervista anche in francese e comprende lo spagnolo.
L'intelligenza finissima, poi, è pari forse solo alla sua squisita cortesia e, udite udite, umiltà; che non è mai - mai - falsa modestia. Anzi.
Dopo aver vissuto in Inghilterra, è tornato in Irlanda e sogna di trasferirsi neanche lui sa ancora bene dove. Quando segue le corse "in continente", si appoggia al suo collega di testata Stephen Farrand, inglese di nascita che invece ha scelto Livorno come campo-base per la propria esistenza.
Nel 2017 Ryan ha pubblicato il suo primo libro, The Ascent: Sean Kelly, Stephen Roche and the Rise of Irish Cycling's Golden Generation, pietra miliare sulla storia e i protagonisti del ciclismo (non solo) irlandese moderno.
Lo incontro in un lungo, godibilissimo pomeriggio in un pub nella zona in cui abita, poi lo ritroverò più volte al Giro e in giro per Dublino, ormai la nostra città adottiva.
“Broyage Bistro” - Hilton Hotel
Dublino (Irlanda), 15 novembre 2017
Dublino (Irlanda), 15 novembre 2017
- Barry Ryan, nel tuo libro The Ascent scrivi «la carriera di Roche come il Manchester United di Ferguson: mai semplici le cose nelle loro carriere». In che senso?
«Roche si è sempre complicato la vita. Specialmente nell’87, quando ha perso tempo nella crono [di San Marino] al Giro, ha lasciato andare via Delgado a La Plagne e poi ha fatto quella rimonta [al Tour]. Ma anche durante tutta la sua carriera. Alla Peugeot ha litigato con il direttore sportivo, Roland Berland. È andato alla La Redoute, e dopo ha cercato di portare con sé il diesse Raphaël Géminiani alla Carrera. È andato alla Fagor: non era una squadra nuova ma lui ha cercato di circondarsi dei suoi uomini e anche questo ha creato dei problemi. Le cose non sono mai andate lisce, per Roche. Anche quando era in grandissima forma, come nell’87, c’è sempre stato un qualcosa di drammatico, che gli ha reso la strada più dura. In questo senso è un po’ come il Manchester United di Ferguson: anche quando era la squadra più forte in Inghilterra tante volte ha vinto il campionato, o delle partite, all’ultimo respiro».
- Com’è la vicenda di Sappada '87 vista da un giornalista anglosassone e in particolare irlandese?
«Com’era vista all’epoca?».
- All’epoca e magari oggi, se ancora se ne parla, trent’anni dopo, come succede in Italia.
«La cosa sarebbe stata vista in modo diverso. Perché si deve ricordare che in Irlanda il Giro d’Italia non era in diretta. E anche che in quel periodo lì il ciclismo non era super popolare. C’è sempre stata tradizione qua in Irlanda, però, fino all’epoca di Kelly e Roche, è stato uno sport abbastanza minore. E anche nell’87 il pubblico stava solo iniziando ad apprezzare il ciclismo. Non c’erano giornalisti irlandesi al Giro, o almeno all’inizio di quel Giro. Sono arrivati nell’ultima settimana, quando Roche era in maglia rosa. Quindi non c’era alcun giornalista irlandese al Giro durante la tappa di Sappada, per esempio. E la versione che ne è arrivata in Irlanda è stata per la maggior parte, secondo me, quella trasmessa dal giornalista inglese John Wilcockson, che era lì e che avrebbe parlato con Roche. E quindi anche leggendo dai giornali irlandesi su quel Giro, il giorno dopo Sappada, non è molto chiaro quel che Roche aveva combinato. È solo il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, soprattutto quando è stato fischiato dai tifosi sulla Marmolada e tutto il resto, che in Irlanda si è iniziato a capire cosa era successo. Però, allo stesso tempo, la nostra versione è sempre stata la versione raccontata da Roche, quindi una versione molto parziale. Mi ricordo le prime volte che sono andato in Italia; ho trovato un libro sulla storia del Giro e ho letto dell’87, «il Giro del tradimento»… Diciamo che è la verità però era una versione molto diversa da quella “ufficiale” irlandese, che per la maggior parte è sempre stata scritta da Roche. Senza correzioni».
- Tu hai scritto The Ascent, l’ascesa – ma anche la scalata – del ciclismo irlandese. Allora ti chiedo: 1) Qual è stata la legacy, l’eredità dal punto di vista tecnico e non solo, che Roche e Kelly hanno lasciato nel ciclismo irlandese moderno, che di fatto è nato con loro. 2) Se si è trattato di tradimento o di semplice business, visto che la corsa è corsa e ciascuno corre per sé.
«Quando parli della legacy di Roche e Kelly è un po’ complesso perché c’è sempre stata una tradizione di ciclismo in Irlanda, però non è mai stato uno sport principale».
- Ai tempi di Shay Elliott, per dire, non c’era ancora la copertura televisiva. È cambiato tutto con Kelly e Roche...
«Sì. E soprattutto per il fatto che erano in due e che, sì, erano un po’ rivali e però anche amici. E anche perché Roche era l’uomo per i grandi Giri, Kelly per le classiche, quindi ogni tanto potevano aiutarsi e tutto il resto. Non era una rivalità tipo Moser/Saronni, che invece non si sopportavano».
- C’entra il fatto che Roche fosse di Dublino, quindi uno di città, più cosmopolita per essere poi emigrato a Parigi, e l’altro, Kelly, invece di Waterford, uno di campagna, emigrato sì in Belgio ma solo per correre e poi tornato, a fine carriera, nella sua Carrick-on-Suir, nel cuore dell’Irlanda rurale? C’era anche questo tipo di contrapposizone?
«Sì. Questo si vedeva, diciamo, negli anni ’80. Roche era più popolare nelle città e Kelly nelle campagne. Magari oggi direi che adesso è più popolare Kelly, un po’ perché è tornato a vivere in Irlanda. Roche si è sposato in Francia, è diventato un po’ francese. Ma anche perché Kelly è un po’ più saggio nelle dichiarazioni. Roche è una persona che parla. Per noi giornalisti ben venga il fatto che Roche ami parlare, però ogni tanto ha detto delle cose che non hanno aiutato la sua immagine in Irlanda. Per esempio quando ha spiegato che avrebbe preferito vivere in Francia che in Irlanda, cose così. Kelly invece ha speso meno parole, e magari in questo senso è più saggio».
- Per far capire a chi non è irlandese e magari non frequenta spesso l’Irlanda, Roche che cosa ha detto di così negativo sull’Irlanda?
«È capitato alla presentazione del Tour de France del ’98, che partì da Dublino. Roche, che è uno che parla bene, ha fatto un po' da conduttore della presentazione, mentre Kelly, Martin Earley, Paul Kimmage e gli altri professionisti [irlandesi] degli anni Ottanta erano un po’… Erano presenti però in realtà non facevano parte della festa, che quindi è stata un po’ lo Stephen Roche Show. E poi Roche ha rilasciato un’intervista, andata in onda quella sera stessa, in cui… In quel periodo lui viveva a Dublino, aveva vissuto a Dublino per un paio di anni dopo la fin della carriera, ma dall’anno seguente sarebbe tornato a vivere in Francia. In realtà si era spiegato male. Aveva detto: voglio tornare in Francia perché i miei figli avranno una vita migliore, perché ci sono meno problemi sociali, con alcool, droghe, queste cose qui… In realtà è tornato in Francia perché è stato sposato con una francese [Lydia Giudici, nda]. Non voglio dire troppo della sua vita privata, però mi sembra che lo fece anche per cercare di salvare il matrimonio. Per tenere la famiglia insieme, volevano tornare in Francia, però Roche si è espresso male e poi non è riuscito, e in questo non è stato mai molto bravo, a fare delle scuse. E anche Kelly è stato un po’ scontento per il modo in cui (non) aveva fatto parte di quella presentazione. A quel punto lì si vedeva che il pubblico irlandese tifava più Kelly che Roche, però secondo me è sempre un po’ per quest’idea che magari Kelly sia più irlandese di Roche, perché è tornato a vivere in Irlanda e non ha mai perso l’accento. Per me è una cagata, in realtà sono semplicemente due versioni dell’esperienza dell’emigrante irlandese. Roche è quello che è andato via e si è costruito una nuova vita all’estero, il che è normale, come hanno fatto negli anni tantissimi irlandesi. Kelly invece è andato all’estero, ha guadagnato i suoi soldi e poi è tornato a vivere in Irlanda, il che, anche, è altrettanto normale».
- Kelly – oggi voce tecnica del ciclismo per Eurosport UK – è ritenuto, nelle sue telecronache, straightforward, molto diretto: anche questo è un tratto tipicamente irlandese della sua personalità, del suo carattere?
«Sì, questo sì. Tradizionalmente è sempre stata una qualità apprezzata dal pubblico irlandese, dagli sportivi. Non so se hai presente gli sport d’Irlanda, il calcio gaelico, l’hurling, sono degli sport amatoriali, in cui i giocatori sono dilettanti, e per la maggior parte persone umili. Sì, il pubblico qui tradizionalmente ha sempre apprezzato degli sportivi umili, invece di Roche, che era un po’ più sicuro [di sé]. Adesso direi che sta cambiando perché c’è questo tizio, Conor McGregor, molto arrogante, che è molto apprezzato almeno da una parte del pubblico. Però negli anni Ottanta uno come Kelly aveva la personalità di un giocatore di hurling o di calcio gaelico, cioè di una persona che poteva essere il proprio vicino di casa».
- Se ti dico Sappada '87, quindi, qual è il tuo primo pensiero?
«Stavo per dire tradimento però magari solo perché sto parlando con un italiano… [ride]. No, in realtà è stato… in inglese la parola è melodrama, qualcosa di drammatico, di esagerato. Posso capire perché Visentini l’ha visto come un tradimento, perché in un certo senso è stato un tradimento. Nel senso che c’era una gerarchia, lui era la maglia rosa, però…».
- …e aveva vinto il Giro l’anno prima…
«Sì, infatti. Però, d’altra parte, lui e Roche non erano amici. Per me, vista dalla parte di Roche, è stata una scelta di business. Se torniamo indietro, lui era al secondo anno di contratto con la Carrera. A inizio anno, almeno secondo Roche, la Carrera aveva cercato di tagliargli lo stipendio. Non sono sicurissimo… Comunque sia, Roche stava cercando...».
- Veniva da una stagione in cui aveva corso pochissimo per via dell’infortunio al ginocchio…
«Sì, però so che Roche, sin dall’inizio dell’87, stava correndo con l’idea di guadagnare un buon contratto per l’88 e aveva già iniziato a trattare con la Fagor anche durante il Giro dei Paesi Baschi, prima del Giro d’Italia. E sapeva, anche prima del Giro, che vincere un grande Giro lo avrebbe aiutato a trovare un aumento di stipendio. Quindi, secondo me, Roche ha preso una decisione di business. Non so se avesse già deciso, se fosse già sicurissimo che a fine anno avrebbe lasciato la Carrera, però comunque voleva vincere il Giro per avere qualcosa in tasca. Anche perché si deve ricordare che Roche nell’81 aveva vinto la Parigi-Nizza dopo qualche settimana tra i professionisti, ma poi era sempre stato una specie di promessa che poi alla fine… Aveva finito sul podio al Tour ’85 poi aveva avuto un anno orrendo nell’86. E infatti la sua carriera è sempre stata così: buona nell’81, nell’83 e nell’85, male nell’82, nell’84 e nell’86…».
- Si diceva gli portassero bene gli anni dispari e male gli anni pari, no?
«Sì, fino all’89. Dopo quel magico ’87, e poi quegli infortuni, ha avuto due-tre anni brutti prima di ritrovarsi alla Carrera nel ’92. Però, sì: Roche ha corso in un modo… Ha corso per se stesso, e magari ha capito le regole del gruppo: sì, facciamo parte di una squadra, anzi di uno squadrone, però, alla fine, doveva difendere il proprio spazio. Non so, essendo un corridore irlandese, cioè venendo da un Paese fuori da Francia, Belgio, l’Italia - i Paesi tradizionali - magari ha dovuto lottare un pochino di più per guadagnare spazio. A differenza di uno come Visentini, che era un po’ un predestinato, tra i dilettanti, e ha sempre corso con la squadra più o meno di casa. Alla Carrera. Roche ha sempre saputo… Diciamo che per la gente è per definizione un furbo. Anche tra i dilettanti, in Francia, ha fatto uno sforzo particolare per essere amico dei francesi. Anche alla Peugeot, quando è passato pro’, era una squadra francese però con alcuni corridori anglofoni tipo-Roche: Robert Millar, Phil Anderson, Yates e poi anche lo stesso Roche. C’è sempre stata un po’ una divisione tra gli anglofoni e i francesi, e anche se per la maggior parte andavano d’accordo, gli anglofoni erano visti come un gruppo a parte. Roche però - e non so se sia stata una decisione "cinica" o semplicemente perché è una persona che ama parlare e tutto il resto - è subito diventato amico anche dei francesi. È diventato quasi più francese dei francesi, e in questo modo è riuscito a crearsi un ruolo, alla Peugeot, che magari Anderson e Millar non sono mai riusciti a fare. E secondo me è successa un po’ la stessa cosa alla Carrera. Non parlava l’italiano come il francese. Non poteva diventare italiano com’era diventato francese alla Peugeot. Alla Carrera era invece un leader, o almeno nella sua testa aveva firmato un contatto per essere leader, e l’unico modo di dimostrare di esserlo era vincere il Giro».
- Perché trent’anni dopo siamo ancora qui a parlare di Sappada?
«In Irlanda, è ovvio, perché non è che abbiamo vinto il Giro un sacco di volte… [ride] In generale, perché queste sono le storie che ci fanno appassionare al ciclismo. Se torniamo indietro e guardiamo a quel Giro, sarebbe stato abbastanza noioso perché la Carrera era la squadra più forte in assoluto. Aveva dominato sin dall’inizio, con la cronosquadre e tutte le cronometro individuali. E se Roche non avesse attaccato verso Sappada, sarebbe stato magari uno dei Giri più noiosi della storia. Alla fine invece è stato uno dei più interessanti, perché Roche ha un po’, non so come dire, ha un po’…».
- …rovesciato le gerarchie, e anche il copione – lo script – di quel Giro.
«Sì, infatti. Nella storia del ciclismo, e soprattutto del ciclismo in Italia, ci sono sempre stati questi duelli che hanno appassionato: con Coppi e Bartali; o in Francia con Anquetil e Poulidor. E soprattutto nella stessa squadra. E anche prima del Giro non hanno mai nascosto un po’ il disagio, si vedeva che tutti e due volevano essere leader. La squadra, il ds Boifava non aveva veramente deciso… Aveva un po’ lasciato… "Deciderò dopo la crono di San Marino...". Normalmente si dice: la strada deciderà. E sembrava che la strada avesse già deciso, a San Marino. Roche comunque ha continuato ad attaccare. E non so proprio spiegare perché trent’anni dopo ancora ne parliamo…».
- Mi hai dato un paio di assist e allora ti chiedo: 1) se la Carrera era una sorta di Team Sky con trent’anni di anticipo; 2) se ti vengono in mente altri episodi di tradimenti illustri. Penso per esempio ai duelli, nella stessa squadra, tra Wiggins e Froome al Tour 2012: forse Froome meritava di vincere, secondo la strada, quel Tour. Però c’era una gerarchia molto precisa, ben definita.
«La cosa interessante del Tour 2012 è che mi ricordo di aver trovato Roche alla partenza il giorno dopo l’ultima tappa nei Pirenei in cui Froome aveva rallentato e aveva aspettato Wiggins. Sono andato da Roche per chiedergli “cosa avresti fatto tu”, pensando che… Roche invece mi ha detto: “Ah, io avrei fatto esattamente quel che ha fatto Froome, ha fatto bene” [ride…]. Il Tour de France degli anni Ottanta - o i due Tour de France - di cui parliamo di più sono proprio quelli con Hinault e LeMond nella stessa squadra. Non era proprio lo stesso discorso, però… Una gerarchia non chiarissima, un corridore di casa, uno straniero…».
- Nell’86 doveva esserci lo scambio, no? Il favore ricambiato da Hinault, che a fine stagione doveva ritirarsi. Il Tasso avrebbe dovuto aiutare LeMond perché nell’85 era accaduto il viceversa. Invece attaccò LeMond per poi far intendere che lo avrebbe aiutato a vincere il Tour, in realtà aveva cercato - senza riuscirci - di staccarlo.
«Infatti, su questo discorso dello scambio, per esempio, c'era una specie di accordo – almeno secondo Roche – che Visentini sarebbe stato leader per il Giro e poi sarebbe andato al Tour per aiutare Roche. Roche ha detto di aver cambiato idea quando Visentini ha fatto un’intervista in cui ha detto che non sarebbe andato a fare il Tour de France. Però, anche qui, è un po’… Visentini ha detto che non gli interessava fare il Tour, però non aveva detto che non sarebbe andato al Tour…».
- Però - tra i tanti "si dice" dell'epoca - pare che Visentini avesse detto che lui a luglio voleva starsene «con le balle a mollo», che fosse al mare o al suo amato lago di Garda. Quindi forse Roche aveva intuito tutto. Roche inoltre era bravo a farsi degli amici in gruppo, chiedeva e concedeva favori. Magari lasciava andare una fuga o vincere una tappa o una corsa a qualche corridore gradito. Penso allo scozzese Robert Millar della Panasonic, suo compagno per tre stagioni (1981-1985) alla Peugeot. Ma anche a Jean-Claude Bagot, che Roche e Millar avrebbero raggiunto l’anno dopo, nell'88, alla Fagor. Visentini invece è sempre stato uno molto chiuso, in gruppo e con i compagni, parlava poco e non chiedeva niente nemmeno ai suoi gregari.
«Hai ragione a parlare così di Roche. Il primo anno alla Peugeot ha capito subito l’importanza di farsi delle amicizie nel ciclismo, che è una specie di ecosistema un po’ particolare. Non si sa mai quando queste persone ti aiuteranno o no. Visentini invece, da quel che ho potuto capire, è stato sempre un po’ un solitario. Un personaggio un po’ atipico per il ciclismo. C’è la storia di quando ha segato la bici dopo il Giro...».
- ...del 1984.
«Sì, da quel che posso capire io sì. Ho visto quella storia traccontata in un articolo prima del Tour dell’87 quindi… Però poi ho visto un’intervista che Visentini ha fatto con Claudio Ghisalberti della Gazzetta nel 2012, per i 25 anni di "Sappada". Ghisalberti gli ha chiesto: puoi confermarci che questa cosa è successa dopo il Giro dell’87? E Visentini ha detto sì [sorride…] Secondo me la storia è così buona che…».
- …è un peccato rovinarla con la verità?
«Sì. La cosa che mi ha sempre colpito - e non posso dire di conoscere Visentini - è che Visentini era nella squadra di casa, circondato da gente che era con lui sin dall’inizio della carriera da professionista. Però, come hai detto tu, alla fine Roche ha trovato più amici o più persone disposte ad aiutarlo durante quel Giro. Magari, la notte di Sappada, Roche si sarà sentito un po’ solo nell’albergo quando è arrivato Tito Tacchella per parlare con Boifava e tutto il resto. Ma poi c’era Schepers, ha avuto anche l’aiuto di Millar, la Fagor ha aiutato. E poi alla fine Cassani e tutti gli altri alla Carrera hanno aiutato Roche perché hanno capito che potevano vincere il Giro sia con Roche sia con Visentini. Perché, alla fine, è business».
- Alcuni sostengono che Visentini, paradossalmente, fosse molto (più) adatto per quei Tour, quando ancora c’erano tante cronometro e molto lunghe. E c’è una battuta, feroce, di Roche su Visentini, che appena vedeva il cartello "Chiasso" si perdeva. Visentini non era interessato alle corse all’estero? Era forse perfetto per la Liegi, però a lui importava solo del Giro. Le altre corse era come se non esistessero.
«Sì. È quel che mi ha detto Boifava. Ha detto la stessa cosa: che Visentini secondo lui era un corridore alla Hinault, che poteva vincere il Tour, la Liegi-Bastogne-Liegi. Però, per un motivo o per l’altro, si interessava unicamente alla Tirreno e al Giro, alle corse in Italia e basta. Non so esattamente il perché. Però mi sembra che sia stato un momento un po’ particolare nella storia del ciclismo italiano. Moser, per esempio, ha fatto il Tour de France solo una volta. Come Saronni».
- Quello italiano era un movimento molto diverso rispetto a oggi. C’erano sponsor importanti ma molto italiani, quindi per loro la vetrina importante, i soldi veri - intesi come ritorno pubblicitario - arrivavano dalle corse italiane. Non c’era un mercato globale, quindi non avevano interesse magari a correre in Francia, perché per loro la realtà economica e imprenditoriale era in Italia.
«Sì. Anche per le dirette tv ogni giorno al Giro. Per il Tour magari c’era la diretta però non era la stessa cosa. E l’economia italiana negli anni Ottanta era relativamente forte, però la cosa interessante è che questo è vero per gli sponsor di Moser e di Saronni, però la Carrera era una squadra - non so come sponsor ma con Boifava - con ambizioni di andare anche all’estero. Lo sponsor voleva vendere. E lo sponsor, diciamo, era più internazionale».
- Boifava oggi è il CEO di una marca di biciclette, la Carrera-Podium. Ho notato che qui a Dublino ci sono tante biciclette Carrera. Può aver influito anche questa mentalità, diciamo così, di Boifava di voler espandere il marchio oltre i confini nazionali?
«Sì. La Carrera era una squadra più ambiziosa, a livello internazionale, delle altre squadre italiane. L’anno precedente Zimmermann aveva fatto terzo al Tour [e avrebbe fatto terzo anche al Giro ’88, nda]. E la squadra che aveva mandato al Tour nell’87 probabilmente era anche più forte di quella che aveva dominato al Giro. Però una cosa interessante che Eddy Schepers ha detto è che lui all'inizio non era stato selezionato per il Giro. Ha chiesto a Roche e Roche ha chiesto a Boifava, e il motivo era che in quel periodo i premi al Giro erano più alti dei premi al Tour. Quindi magari anche questo ha influito. Per Visentini non lo so, perché aveva sempre questa immagine di provenire da una famiglia ricca. Non so quanto fosse vera o no, ma c'era l’idea che non avesse bisogno del ciclismo per i soldi o per vivere».
- All'epoca non c’era l'enorme distanza che c’è oggi tra il Tour de France e le altre corse. Oggi il Tour è un evento talmente mondiale, è la corsa che per tanti corridori vale la stagione. Invece negli Ottanta i corridori correvano dalla Sanremo al Lombardia, non c’era ancora l'iper-specializzazione di oggi.
«Sì, e il ciclismo non si era ancora globalizzato come oggi. Quindi c’era un gruppo “italiano”: i corridori che facevano la Sanremo, la Tirreno, il Giro, il Lombardia non erano tutti gli stessi corridori che facevano Parigi-Nizza, Parigi-Roubaix, il Tour de France e tutte quelle piccole corse in Spagna che, per esempio, gli altri irlandesi facevano. Sean Kelly ha corso per la Kas e quindi ha fatto un sacco di corse in Spagna. Kelly ha fatto il Giro solo una volta, a fine carriera [nel 1992, e solo per 15 tappe, nda]. Era un ciclismo molto diverso. E hai ragione a dire che Tour e Giro erano molto più vicini. Secondo me è l’arrivo degli americani che ha un po’ cambiato tutto. Il Tour è diventato più famoso tra la gente che non sapeva niente del ciclismo. È arrivato LeMond, e ha fatto il Tour, è arrivata la televisione americana. E anche in Irlanda [è successa] la stessa cosa. Roche ha fatto il Tour e alla fine il fatto che Roche abbia vinto il Tour, nonostante la vicenda di Sappada che è la storia più interessante... Secondo me è stata quel mondiale la corsa più emozionante perché c’era Kelly che all’ultimo giro ha un po’ sacrificato le sue possibilità. Però il Tour è il Tour – come si dice – e anche gli irlandesi che non sanno niente di ciclismo si ricordano che Roche ha vinto il Tour».
- …e magari meno delle sette Parigi-Nizza consecutive di Kelly.
«Meno, sì. Però poi è strano: nell’87 è stato un peccato per i tifosi di Kelly. È una buona cosa che Kelly abbia vinto quelle corse ma a loro dispiaceva per Kelly perché Roche ha fatto qualcosa che Kelly non è mai riuscito a fare e quindi Roche sarà sempre più grande. Però sono convinto che se tu andassi adesso per Grafton Street [la via principale di Dublino, nda] a chiedere a venti persone di fare il nome di un ciclista farebbero quello di Kelly piuttosto che Roche. Non tutti, però secondo me Kelly è leggermente più popolare, più…».
- ...irlandese? A Villach '87 accadde una sorta di Sappada irlandese, oppure no?
«No, non è stato così. Può sembrare così ma alla fine no. Kelly era il leader però nella squadra dell’Irlanda erano solo in cinque. La tattica era semplicemente di avere Kelly e Roche nel primo gruppo nell’ultimo giro. Ed erano lì».
- Per cercare di far fuori Moreno Argentin?
«Sì, perché Argentin era il corridore più in forma».
- Un po’ come era successo quell'anno alla Liegi, no?
«A Villach gli olandesi avevano tre corridori nel gruppetto e stavano attaccando perché non avevano un velocista. C’erano due irlandesi e Argentin e quindi gli irlandesi, come è normale, hanno marcato gli attacchi. È andato Kelly, poi è stato ripreso, poi è andato Roche. Alla fine Roche ha vinto, è stato non dico fortunato, però un po' sì, nel senso che ha scelto l’attacco buono».
- Che idea ti sei fatto di Boifava, come direttore sportivo, in quegli anni?
«Alla fine parlano i risultati. Ha vinto il Giro nell’86, nell'87 ha vinto il Giro e il Tour. Come Roche alla fine ha preso una decisione di business. Il suo compito era vincere il Giro. Secondo me avrebbe preferito, per tanti motivi, vincerlo con Visentini. Però, allo stesso tempo, quando ha capito che Visentini era un personaggio un po’ fragile, che non dava garanzie... Sì, era un corridore stra-dotato, però c’era sempre la possibilità che avesse una giornata-no, quindi si può dire…».
- In inglese si direbbe mercurial?
«Sì, perché si potrebbe dire che “ah, ha gestito male perché non c’era gerarchia definita”. Però alla fine magari ha pensato che se ci fosse stata una gerarchia, e se Roche avesse perso dieci minuti nella prima settimana lavorando per Visentini e poi Visentini avesse perso la testa nella terza settimana magari… Boifava quindi probabilmente è stato furbo a tenere tutti e due in classifica fino alla crono di San Marino. Il problema poi è che lui si sarebbe aspettato che Roche avrebbe corso per difendere Visentini anziché attaccarlo. Però, anche qui, probabilmente è stato fortunato perché la tattica della Carrera quel giorno lì è stata un po’… Ancora adesso faccio un po’ fatica a capirla. Roche ha fatto qualcosa che non era programmato e poi la Carrera ha corso dietro a Roche, il che era sbagliato però allo stesso tempo è anche chiaro che Roche non voleva badare a quel che Boifava gli diceva. E magari Roche oltretutto è stato molto fortunato nel prendere la maglia, per cinque secondi, quella sera. Però è lì che Boifava è stato bravo: sarebbe stato facile perdere la testa con questo irlandese che è venuto e ha ignorato gli ordini della squadra, invece Boifava, anziché prendersela con lui, è stato abbastanza umile da riuscire poi a guidarlo verso la vittoria. Perché alla fine Roche ha fatto - o perlomeno Boifava e la Carrera hanno fatto - una bruttissima figura quel giorno lì. Sembravano ridicoli a causa delle cose che ha fatto Roche. Boifava, comunque, alla fine è stato pragmatico. E non so, se penso ai direttori sportivi attivi nel ciclismo in quel periodo, non so se tutti sarebbero stati poi capaci - dopo essere stati messi così in imbarazzo - di gestire, di mettere quelle cose da una parte e continuare. Per esempio, non so se Roche avrebbe mai osato - o anche solo pensato di fare le stesse cose se fosse stato in una squadra diretta da Cyrille Guimard o da Maurice De Muer. Non so...».
- …o da Ferretti.
«Sì, infatti... [ride]. In un certo senso si potrebbe dire che Boifava è stato debole, perché non è riuscito a imporre il proprio piano, però allo stesso tempo ha reagito in un modo intelligente».
- Oggi sarebbe impossibile, per le tante telecamere, per i tanti media, uno scenario in cui Boifava minacci di buttare giù un proprio corridore andandogli addosso con l'ammiraglia. A proposito: è successo davvero? Oppure lo stesso Visentini che fu multato di tre milioni di lire per aver provato in corsa, il giorno dopo Sappada, a far cadere Schepers?
«Visentini ha detto che l’ha fatto. È una cosa che avevo sentito dire da Roche e avrei detto “ah, è un’esagerazione”. Visentini però ha detto: sì, volevo farlo [ride]».
- E la paura del sabotaggio? Il meccanico Patrick Valcke, per dimostrare che era stata manomessa, rompe con le mani una forcella. Tu ci credi o fu una montatura?
«Non lo so. Faccio fatica a credere a queste cose. Però avrei fatto fatica anche a credere alla storia di Visentini che voleva far cadere Schepers. Quando ho parlato con Roche, ma soprattutto quando ho parlato con Boifava e con Schepers, ho capito che alla fine, sì, noi – giornalisti, tifosi, appassionati – vogliamo parlare di “tradimento”, perché è una buona storia. Però per quelli che ne furono coinvolti, quindi anche per i meccanici della Carrera, fu veramente una questione di business. Perché dobbiamo ricordare che per Visentini, dopo Sappada, le possibilità di vincere il Giro erano più o meno finite perché quel giorno lì aveva perso un sacco di tempo. Alla fine, anche se non erano contenti, tutti volevano far vincere Roche, per il discorso dei premi e tutto il resto. Magari qualcuno ha fatto qualcosa con le bici però non credo che a farlo fu qualcuno della Carrera, perché non era nell’interesse di nessuno. Perché alla fine tutti stavano ragionando con il portafoglio [ride]».
- C’è qualcosa, su Roche o su Sappada, che non sei riuscito a raccontare come avresti voluto?
«No. L’unico problema – ed è un problema che tu non avrai perché hai a disposizione un intero libro – è che ho dovuto lasciare fuori delle cose perché non c’era spazio. Per esempio, alla fine non sono andato a parlare con John Wilcockson, il giornalista britannico che era presente: era anche andato in camera di Roche per parlare con lui quella sera lì. Sarebbe stato interessante parlare con lui però, alla fine, avevo parlato con Visentini, con Schepers, con Roche, con Boifava che avevano raccontato così tanto che era difficile trovare spazio. Anche Patrick Valcke è un personaggio molto interessante. Magari ho scritto poco di Roche nell’86 alla Carrera, il primo anno. Qui, Valcke è stato interessante perché Valcke alla fine è stato l’unico ad andarci: perché Roche – è curioso che, quando ha lasciato la Peugeot per la La Redoute, Roche abbia portato solo Valcke; anche il fratello della moglie di Roche era passato pro’ per qualche mese con la La Redoute, però Stephen non ha portato "suoi" corridori alla Peugeot. E ha fatto la stessa cosa quando è andato alla Carrera: non ha portato dei corridori però ha portato Valcke. Però poi Roche quasi non ha corso nella prima parte dell’86. E lì Valcke era da solo. Non parlava l’italiano. È interessante questo discorso. Anche il discorso di Schepers è interessante, perché lui qui in Irlanda è stato presentato come l'amico, il gregario di Roche più leale, e lo è stato, però, alla fine, anche per lui è stata una scelta economica. Anche sulla strada, a Sappada, è stato furbo, si è rifiutato di aiutare Visentini. Alla fine tutti hanno pensato al business. Magari non sarà molto romantico, per noi appassionati, però è il loro lavoro e questo è sempre una cosa interessante nel ciclismo. Un mondo in cui c’è questa tensione tra lo sport, i sogni di bambino, e però anche il lavoro di uomini».
- E invece c’è qualcosa che magari hai raccontato così e che cambieresti?
«No. Magari ci saranno delle cose su Roche o Kelly – Visentini non credo lo leggerà mai – Però alla fine penso di aver presentato una versione equilibrata. Non toglierei niente, però è stata interessante la reazione di gente come Gimondi e Bartali, e come ne ha scritto la stampa italiana dell’epoca».
- Come è cambiato, se è cambiato, il tuo approccio al ciclismo, dopo che hai scritto The Ascent?
«Non direi che è cambiato il mio approccio. Io sono abituato a lavorare per il web, che è una cosa molto dinamica. Si fa un’intervista in cinque minuti. E invece lì ero lì a parlare con gente magari per tre, quattro ore. Quindi piuttosto che una volata è stata una specie di maratona, che è diversa. È stato un po’ un cambio di passo. Poi, dopo averlo finito, quando ho consegnato il libro ero anche contento di tornare a fare le cose dinamiche. Però, allo stesso tempo, sì, mi ha dato più voglia di approfondire le cose. Io lavoro nel ciclismo di oggi, parlo spesso con i corridori del gruppo di oggi, però loro non sono… Anche quando sono disponibili, c’è sempre qualcosa che trattengono. Ci si rende conto, con i corridori del passato, che le carriere sono finite, quindi sono più… Non è questione di disponibilità, perché anche la maggior parte dei corridori di adesso sono cortesi e tutto il resto, però [gli ex] possono dire delle cose che trent’anni fa non avrebbero potuto dire. Visentini o Valcke possono essere non dico più onesti, perché erano onesti anche allora, però… possono parlare più liberamente. Questo è bello, è una cosa che manca quando si è al Tour. Per esempio Chris Froome, che ancora adesso non dice quasi niente sul rapporto con Wiggins al Tour 2012. E ha anche scritto un’autobiografia».
- E niente sul suo rapporto con Dave Brailsford.
«Sì, infatti... [ride]. Ha anche scritto un’autobiografia in cui non ha detto niente. E la cosa interessante è che con lui ha collaborato David Walsh per The Climb [l'autobiografia di Froome, nda] e Walsh subito dopo aveva collaborato anche con Roche per il libro [The Agony and the Ecstasy, nda]. Diciamo che nell’87 Roche era stato molto più duro su Visentini e su tutte queste cose, invece Froome è molto più diplomatico. E questo è anche un po’ il modo in cui è cambiato non solo il ciclismo ma anche il modo in cui la gente, soprattutto nello sport ma non solo, si racconta adesso. Tutti sono più… E questo probabilmente è anche per via di internet e di tutte queste cose. Roche ha scritto questo libro, pubblicato in Irlanda e in Inghilterra nell’88… Secondo me nessuno lo avrà mai letto. La Gazzetta dello Sport o il Corriere della Sera non avranno mai scritto: “Oh, guardate che cosa ha scritto Roche nel suo nuovo libro”. Invece adesso, quando un libro è scritto in inglese o in italiano o in francese, se c’è qualcosa viene ripreso subito».
- Quelle vittorie erano pulite?
«Io sono scettico su ogni vittoria. Nella storia del ciclismo è molto difficile dire, dimostrare, delle vittorie dei grandi Giri, che sono affidabili. Secondo me non esistono. Non dico che tutti i vincitori dei grandi Giri fossero dopati però è molto difficile dire, adesso, chi fosse pulito e chi no. Perché il doping era così onnipresente nel ciclismo, non solo negli anni Ottanta e Novanta ma anche prima. Speriamo che le cose stiano migliorando però si vedono delle cose, nelle grandi corse, anche adesso, che mi mettono a disagio. Per parlare di Roche e della Carrera degli anni Ottanta, c’è stato il processo Conconi. E sappiamo delle cose che sono successe in quella squadra negli anni Novanta, è normale porsi delle domande sulla validità di quel che la squadra ha fatto negli anni Ottanta. Immagino non fosse la sola squadra, che ci siano dei dubbi su tutte le squadre dell’epoca. Però esistono, comunque. È complicato. Quando si racconta la storia del ciclismo, Eddy Merckx - il ciclista più grande di tutti i tempi, e non c’è nessuno che dice che non lo è - è stato trovato positivo per tre volte. Quindi è molto difficile tirare una riga... L’hanno fatto per Armstrong, però per gli altri campioni del passato non l’hanno fatto. È difficile, non saprei dire se sia giusto o no».
- Che cosa ti aspetti e vorresti trovare in un libro su Sappada?
«Cose che non so. Anche se Visentini con me ha parlato, ha rilasciato qualche intervista, ogni tanto ha parlato, però secondo me ha più da dire. Mi piacerebbe leggere un’intervista, anche qualcosa di più approfondito sul personaggio Visentini perché per me è uno dei personaggi più affascinanti non solo di quell’epoca ma di tutto il ciclismo».
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