DIARIO DEL TOUR 2018


di SIMONE BASSO 

Geraint Thomas, operaio specializzato (di lusso), vince il (suo) Tour perfetto: senza gorilla del Crodino sulle spalle, quello lo aveva il suo capitano, sempre davanti e impeccabile a ogni stazione decisiva.

Lui che in passato sembrava Paperino, abbonato alla sfortuna, al Giro dell'anno scorso fece strike (...) con una staffetta della polizia, in venti giornate tiratissime, zeppe di cadute e di fuori programma grotteschi, è rimasto intonso.

Prima della passerella parigina, il piazzamento peggiore del gallese è stato il trentatreesimo posto nella tappa (per velocisti) di Carcassonne.

Nel ciclismo delle velocità esasperate, del Passaporto Biologico, degli SRM, la regolarità è quasi tutto: col senno di poi la prima settimana, gli inconvenienti di Chris Froome (51" persi nella vernice di Fontenay-le-Comte) e di Tom Dumoulin (53" con 20" di penalizzazione per scia verso il Mûr-de-Bretagne), aveva già tracciato il solco di questa Grande Boucle.

Una Festa di Luglio salvata dai corridori, dal loro agonismo, che ha evidenziato troppe ombre - non solo organizzative - della mastodontica ASO e dell'ambaradan mediatico che la circonda.

Una nemesi il sesto trionfo di un corridore del Team Sky, roba degna del gruppo Renault (prima Gitane) di Cyrille Guimard che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta si impose sette volte con tre atleti diversi (Lucien Van Impe, Bernard Hinault e Laurent Fignon), quando i tracciati, da almeno tre anni, sembrano studiati per disinnescare l'armata multinazionale di Sir Dave Brailsford.

Nell'estate all'insegna del cretinismo generale, la cui vetta sportiva (?) è stata la fiction mondiale disputata in Russia, la Francia ha offerto un eccellente esempio della pandemia di stupidità che ci sta coinvolgendo.

Il trattamento 1950 riservato a Chris Froome, e ai suoi compagni al seguito, è stato solo il risultato di mesi di discussioni (disastrose per l'immagine del ciclismo stesso) senza un'idea - sul campo, sulla strada - di che cosa dovrebbe essere lo sport professionistico nel 2018.

Il caso salbutamolo, la nuvola nera raccontata dai gourmet del giornalismo generalista, ha evidenziato più le lacune di chi racconta che la realtà.

A partire dall'idiozia della comparazione Ventolin-Eprex in poi: una narrazione infantile che è benzina (e ribalta) per l'ego dell'autore, e produce nel lettore, distratto dall'immagine riflessa di sé, un nichilismo da quattro soldi da riversare - con rabbia - sul mondo digitale o quello reale, e sui protagonisti (inermi) in pelle e ossa.

Succede, se si cavalcano onde emotive rincorrendo l'indignazione a comando: il televoto dunque, a mo' di misura etica permanente del Mondo Nuovo.

Se sull'argomento trattato, qualsiasi esso sia (!), mancano l'impegno analitico e dialettico, spariscono le basi dell'informazione che, attraverso la storia e l'analisi (approfondita, ermeneutica), dovrebbe invece suggerire elementi di lettura.

Per farla breve, e la pedivella è un manifesto programmatico di una situazione molto più complessa, una scrittura povera di contenuti, pensata (?) unicamente per il tempo presente, non sopravviverà allo scorrere (implacabile) degli avvenimenti: il suo destino è quello della spazzatura differenziata, in quella gigantesca discarica all'aria aperta che è internet.

I pugni, gli sputi, i gavettoni, eclissano l'inchiesta Wada sui prodotti a restrizione d'uso, i farmaci comuni da banco e la zona grigia, su ciò che non è (ancora?) considerabile dopante o banale soccorso medico. E distraggono dalle questioni politiche sul tavolo: mai il Tour è parso così farraginoso e travolto dagli eventi (e dalla scemenza).

Christian Prudhomme, che rimane un manager affidabile, è sembrato in affanno e in imbarazzo nei momenti più incontrollabili: alle prese con un macchinario che è cresciuto - economicamente e mediaticamente - fino ad apparire ingestibile.

La saldatura, tutta francese, con l'ambizioso David Lappartient ha prodotto troppi vuoti di sceneggiatura. I conflitti d'interessi, partendo dall'arrivo di tappa a Sarzeau, il comune dove il presidente UCI è sindaco, si sprecano.

L'ultima decisione federale, ovvero una limitazione temporale alle partenze delle grandi corse a tappe fuori dai confini nazionali, pare scritta per impedire alla concorrenza - cioè al Giro d'Italia - una replica del successo (anche finanziario) della tre giorni in Terra Santa. 

Ribadiamo che il ciclismo pro' dovrebbe autogestirsi, creando una struttura esterna ai ventagli di federazioni novecentesche che si basano sullo scambio di voti (e di favori).

E' stato un Tour che ha valorizzato il Giro 2018, il cui livello tecnico - al pari del precedente - è stato altissimo. Solo l'impresa - clamorosa - di Chris Froome nel pomeriggio del Colle delle Finestre, una delle più grandi dell'evo moderno, aveva negato il bis rosa a Tom Dumoulin; che è ormai, per standard di rendimento e qualità complessive, indurainesche, dalle parti del keniano bianco come miglior tappista del plotone.

Non accadeva dal '94, Epolandia alta, che due campioni fossero sul podio finale sia al Giro sia al Tour: quella volta, quando la conclusione del Giro (più classica...) fu a Milano, i due corridori si chiamavano Miguel Indurain e Marco Pantani.

I controlli dei wattaggi segnalano le cifre usuali degli ultimi anni, sottolineando la (contro) performance a l'Alpe d'Huez, in una frazione durissima, dove i quattro che si sono giocati il successo (Thomas, Dumoulin, il sopravvalutato - dai padroni di casa... - Romain Bardet e Froome), hanno fatto registrare un cronometro che non rientra nemmeno nei primi cento delle ascese ogni tempo della salita. 

Nel World Tour di oggidì, più omologato e meno folle, i fuorigiri prolungati - che negli anni della legalizzazione coatta dell'epo erano la norma.. - si pagano.

E' successo a maggio all'eccezionale Simon Yates di Sappada, oltre i propri limiti pure nella crono trentina, così al Tour per Primoz Roglic tra la Croix Neuve di Mende e i Pirenei.

Lo sloveno, che appena cinque anni orsono correva da amatore la Charly Gaul, ha un potenziale - ancora inesplorato - da dominatore; idem con patate per l'annunciatissimo Egan Bernal, matricola especial che promette (o minaccia) una successione casalinga al regno di Froomey.

Sempre in quota verde, aspettando che un altro olandese molli il ciclocross, il figlio (e nipote) d'arte Mathieu van der Poel, segnaliamo la firma con la Quick Step Floors (dopo un duello col solito Team Sky...) del fenomenale belga Remco Evenepoel. 

Diciotto anni, con una pressione addosso niente male, ma che fa comprendere l'evoluzione del sistema: l'Italia del dopo Vincenzo Nibali, inadeguata e carente, sconta la mancanza cronica di strutture e progettualità. 

E' la seconda vittoria di un (ex) pistard alla Grande Boucle, nel decennio dell'approccio multidisciplinare.

L'ignoranza, che è forza, dalle nostre parti suggerisce battute da bar su un inseguitore, uno della Madison, che veste la maglia gialla sui Campi Elisi.

Non capiremo mai più, nei giorni della chiusura di Montichiari, l'unico velodromo indoor tricolore, che la pista - e la mountain bike e il ciclocross... - possono essere una palestra straordinaria per gli stradisti. Al di là degli allori, olimpici e mondiali, che regalano le discipline e a dispetto della stagione (d'oro) che sta vivendo Elia Viviani. Come se un certo Fausto Coppi, l'inventore del ciclismo moderno, non fosse mai esistito. Tabula rasa.

Una delle prime immagini del Tour 2018 è stato l'incidente di Lawson Craddock, dopo pochi chilometri dal Grand Départ nella Vandea. Il sangue che colava dal viso, il numero tredici sulla schiena, e una frattura alla scapola della spalla sinistra: da lanterna rossa della classifica, la nostra maglia nera, ha resistito fino a Parigi.

A quattro ore e mezza dal gallese volante ma ancora in gara; per Kevin Sprouse, il dottore della Education First Drapac, l'incognita era la presa (salda) del manubrio.

Il resto - che non era mancia - lo hanno messo la determinazione di Lawson, un po' di paracetamolo e una buona causa. Per ricostruire il velodromo di Houston, danneggiato dall'uragano Harvey, Craddock ha aperto una sottoscrizione in dollari. Il texano ne versava cento a ogni frazione conclusa. Il risultato sono stati 225 mila dollari raccolti: l'Alkel, dove Craddock cominciò con la bicicletta a dieci anni, si potrà riaprire agli appassionati e ai ragazzi.

Viene da sorridere, guardando questi fachiri, matti, e pensando agli agonisti da divano che sentenziano, idealizzando un passato che non hanno visto e che è esistito solo nelle favole.

Il Nibali con una costola fratturata che si rialza e insegue, Philippe Gilbert che sparisce (per un attimo) in una fossa dopo il muretto, Peter Sagan con la schiena grattata dall'asfalto, la lingua fuori di Froome.

Un mestiere da bestie, epico, bellissimo e crudele quanto fuori di testa: l'enfasi prezzolata, per descriverli, è addirittura un esercizio dannoso.
SIMONE BASSO

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