Boyhood
Ben Arfa è tornato al gol, regalando la vittoria in Europa League al Rennes, dopo un anno e mezzo in cui non aveva mai visto il campo. In questo pezzo ne ripercorrevamo la storia difficile partendo dai primi passi a Clairefontaine.
Di ragazzini che firmano contratti, talento sprecato e fabbriche di infelici
Daniele Manusia,
l'Ultimo Uomo, 20 febbraio 2015
Così, a ventisette anni, Hatem Ben Arfa è rimasto senza squadra. La Federazione francese ha annullato il suo trasferimento di gennaio al Nizza, sulla base della regola FIFA che vieta a un calciatore di giocare con tre squadre diverse in una stessa stagione. Il che è vero, nel caso di Ben Arfa, solo se si tiene conto di una partita giocata con l’Under 21 del Newcastle (costretto dal club, dice lui) prima di essere prestato all’Hull City a settembre. Al momento non gli restano che due opzioni: stare fermo fino a giugno, trasferirsi in un campionato minore. Sembrava potesse andare al New York City FC ma a quanto pare l’allenatore, Jason Kreis, non lo ha voluto. Adesso si parla di Cina.
Ben Arfa era già stato presentato dal Nizza, i tifosi lo avevano accolto calorosamentee lui aveva ricambiato l’affetto dicendo che avrebbe scelto Nizza anche se alla sua porta avesse bussato il Real Madrid. Il Nizza ha fatto appello prima alla FIFA e poi al tribunale amministrativo e ci sono volute settimane prima che venisse presa una decisione definitiva. “Penso che possa permettersi di sopravvivere a qualche mese di disoccupazione”, ha detto il presidente della commissione di Lega, dopo essersi lamentato del fatto che Ben Arfa non ha presentato l’istanza di persona: “Forse perché non c’erano le telecamere”. Nel frattempo Steve Bruce, l’allenatore dell’Hull City che ha sostituito Ben Arfa dopo mezz’ora nella sua ultima partita ufficiale, senza neanche aspettare la fine del primo tempo, ha fatto di capire di non essersi pentito per aver bocciato il giocatore: “Il nostro portiere correva più di lui”. Ben Arfa disperato ha salutato la Costa Azzurra dicendo: “Pur di giocare sono disposto ad andare al Polo Nord”.
Hatem Ben Arfa è solo un altro talento sprecato, uno di quei calciatori con una carriera non all’altezza delle aspettative, ma è un caso di studio interessante per due ragioni. La prima è che è uno dei più dotati tra le migliaia (?) che il sistema calcio scarta quotidianamente per ottenere un Cristiano Ronaldo, un Messi, un Bale eccetera. Il talento gli ha garantito comunque una carriera decente ma ha anche fatto sì che per Ben Arfa fosse più facile deludere che sorprendere da quando ha firmato il suo primo contratto con il Lione, da quando cioè ha quindici anni. Nel suo caso (ma non solo il suo) il talento è un debito difficile da rimborsare. La seconda ragione è che Ben Arfa è stato uno dei protagonisti del documentario À la Clairefontaine, girato su una classe di calciatori adolescenti, grazie al quale abbiamo accesso ai suoi pensieri tra i dodici anni e i quindici anni, e a quelli dei suoi compagni.
L’INF (Institut National du Football) di Clairefontaine è una delle accademie nazionali in cui la Federazione francese forma giovani calciatori dopo lunghe selezioni. Per tre anni, dai tredici ai sedici, i ragazzi vivono in una reggia con piccole siepi geometriche circondata da una foresta a cinquanta chilometri da Parigi. Il documentario À la Clairefontaine ha come oggetto la leva calcistica del 1986 (Ben Arfa è più piccolo di un anno perché molto talentuoso) ed è stato girato dal 1999 al 2002. Sono in tutto sedici puntate di mezz’ora, andate in onda su Canal+ in un’unica stagione a riprese terminate. Io le ho viste su YouTube in pochi giorni, per cui ogni trasformazione fisica e caratteriale mi è sembrata violenta come quelle dei personaggi di Boyhood, il film di Richard Linklater che condensa in tre ore dodici anni di vita di un ragazzo texano.
L’INF è un’accademia statale e si differenzia da quelle delle squadre di club perché, in teoria, i ragazzi selezionati possono concentrarsi sul calcio in un ambiente protetto, con degli educatori che si preoccupano dei loro risultati scolastici (vanno in una scuola di zona, con studenti "normali") e cercano di metterli in guardia sui rischi di una carriera nel calcio. In pratica, però, i giocatori firmano comunque contratti con i club e vivono nel terrore del fallimento. In un’intervista al magazine Les Inrocks lo dice lo stesso Ben Arfa: “Dopo l’allenamento torni in camera e sei ancora in competizione. Tutti vogliono diventare il migliore. Mentalmente non ti riposi mai”.
All’INF di Clairefontaine i ragazzi hanno anche a disposizione i migliori allenatori. Il brasiliano Francisco Filho ad esempio ha aiutato a far crescere giocatori come Thierry Henry e in seguito ha fatto parte dello staff di Alex Ferguson. Quello che mi interessa qui, però, è il modo in cui l’istituzione tenta di influire sul piano morale, contrastare l’influenza opposta di scout e genitori.
L’eroe buono del documentario dovrebbe essere il direttore Claude Dusseau, con quarant’anni di calcio alle spalle, una folta barba bianca e l’aria tormentata come tutti gli eroi moderni. Durante una riunione con i genitori degli allievi del primo anno parla dei rischi che corrono i ragazzi quando firmano troppo presto con una squadra: smettono di studiare e si allenano anche meno bene, pensano di essere arrivati. Solo davanti alla camera si confessa, dice che è un mondo assurdo: “Non so se è colpa dei soldi, o dei sogni di gloria”. A uno dei ragazzi che ha firmato per primo dice che se continua ad allenarsi come sta facendo dovrà chiamare il club proprietario del suo cartellino e dirgli che non è all’altezza. A un altro che ha indossato una felpa diversa dagli altri per allenarsi dice che si vuole far notare dalle telecamere: “L’individualismo è il problema principale”.
Monsieur Dusseau si fa sempre più oscuro nel corso dei tre anni. Si lamenta della classe degli ’86, è deluso al punto da pensare che sono il peggior gruppo con cui abbia lavorato, e che magari è colpa sua che sta invecchiando. Il suo discorso finale è brutale, se si pensa che si sta rivolgendo a dei sedicenni. Per far loro capire i rischi dell’egoismo fa una strana minaccia: “Immaginate che un giorno vi troverete a fare l’autostop e nessuno si fermerà a caricarvi. Immaginatevelo”. Dice di non volerli salutare con amarezza e per questo regala loro le magliette da gara con i loro numeri. Poi però, prima di uscire dalla stanza, con amarezza aggiunge: “Cambiate, siete ancora in tempo. Se non date niente, non avrete niente. E il calcio è un mondo difficile. È una piccola giungla”. Uno degli allievi ci resta male: “Si è rivolto ai giocatori, non ai ragazzi che ha visto tutti i giorni per tre anni”.
Dalla parte opposta della barricata c’è lo scout del Saint-Etienne che viene in periferia di Parigi per parlare con i genitori di Ben Arfa e regalargli un poster firmato dai giocatori. I tre adulti più Hatem dodicenne sono seduti sui divani a fiori nel salotto piccolo, con dietro una carta da parati panna, Hatem ha una faccia davvero angelica, la madre deve averlo pettinato prima che arrivasse l’ospite. Lo scout invita la famiglia a Saint-Etienne per una partita e con una coppa di champagne in mano dice: “Bisogna lasciarlo crescere”. Poi brinda: “Al tuo successo”. Un altro ragazzo visita l’accademia del Nizza. Il dirigente che lo accompagna gli fa vedere le foto dei giocatori cresciuti lì e parla dei pregi del loro centro sportivo: “Tutte le camere hanno la televisione”.
Poi ci sono i genitori, che si vedono soprattutto quando c’è da firmare un contratto. Il giorno in cui il portiere Geoffrey (Jourdren) firma con il Montpellier gli adulti vicini a lui devono spiegargli cosa sono i bonus e che deve firmare tutte le 36 pagine. La madre a casa aveva insistito per fargli mangiare un piatto enorme di carne al sugo e durante la firma dice: “È come un matrimonio. Ma non per sposare la mamma. Capito, Geoffrey?” (Geoffrey ha preso alla lettera la madre: ancora oggi è il portiere titolare del Montpellier).
I genitori di Hatem (il padre, Kamel Ben Arfa, è stato nazionale tunisino) se lo mangiano con gli occhi mentre gioca nel campetto sotto casa e aspettano fino all’ultimo anno prima di scegliere un club. Nell’ufficio del presidente del Lione, Jean-Michel Aulas, leggono tutti insieme la bozza del contratto (c’è anche il famoso consigliere/giornalista sportivo/vicino di casa della famiglia Ben Arfa, Michel Ouazine, che il padre di Hatem aggredirà anni dopo davanti ai media accusandolo di avergli rubato suo figlio). Quando tutto è finito, Hatem raggiunge la madre davanti alla finestra presidenziale, con lo sguardo ai campi di allenamento del Lione la madre dice in arabo: “Che Dio ti protegga”.
Hatem a dodici anni era davvero minuscolo e con una voce da ragazzina si lamenta degli scout che lo trattavano come se fosse stato “un gioiello”. Dice: “Ho quindici club. Quindici club mi hanno cercato. Per me è indifferente, cerco di giocare il mio miglior calcio, e se viene viene”. Alla fine del primo anno è peggiorato nei test fisici. Salta di meno ed è anche meno resistente nelle corse. Dice: “Ci allenano per farci migliorare, non per farci peggiorare. Se peggioriamo non gli serviamo più”.
Comincia a crescere all’improvviso e in quel periodo si infortuna spesso ma i club continuano a corteggiarlo. Un giorno uno dei compagni fa finta di intervistarlo mentre un terzo fa finta di essere il cameraman. Hatem risponde con una faccia serissima, tenendo la mano sull’orecchio come se avesse l’auricolare. A tredici anni il suo discorso non è lontano dalle interviste dei professionisti: “I club mi cercano perché ho lavorato molto duramente. La mia famiglia mi ha sempre sostenuto, gioco da quando ero piccolo. Spero di firmare con una squadra tra poco. Per me il calcio è tutto”. I suoi compagni ridono, il finto intervistatore gli chiede: “Cosa farai se non diventi un calciatore?”. Lui senza mai ridere risponde: “Questo non lo so, è il destino. Cercherò con tutto il cuore di rendere felici i tifosi”.
Nella penultima puntata litiga con il futuro giocatore dell’Arsenal Abou Diaby. Sono a Barcellona per giocare un torneo, fino a un minuto prima erano sulle macchine a scontro insieme, poi dal nulla Diaby scherzando gli offende la madre, Ben Arfa rosica e chiama il padre di Abou figlio di puttana. Abou impazzisce, è così alto che potrebbe mettere un piatto sulla testa di Hatem per mangiare, quando lo guarda brutto dice cose da coatto adulto tipo: “Je vais te niquer ta race”, più o meno: ti rompo il culo a te e alla tua famiglia. I compagni intervengono chiudendo Hatem in balcone. Subito dopo, con la prima ombra di baffi, Hatem riflette: “È da quando sono piccolo che mi arrabbio velocemente. Adesso mi sono un po’ calmato, ma a volte mi dicono una cosa che qualcun altro prenderebbe bene, solo che io mi arrabbio subito. Non lo so perché, è la vita, sono nato così”.
Al momento della firma con il Lione, Hatem riflette sull’importanza di quella decisione: “È l’inizio della gloria. Se avrò successo è da qui che sarà partito tutto”. Sarebbe potuto andare all’estero (si parlava di Milan e Manchester United), ma in questo modo non si allontana troppo da Parigi: “Così resto vicino ai miei genitori. Sono due ore di treno. Se voglio rientrare solo per il weekend, posso. All’estero avrei vissuto male il cambiamento della cultura, della lingua. In Francia c’è la stessa cultura dappertutto. Qui se qualcuno mi fa una domanda posso rispondere in francese. Se me la fanno in inglese, italiano o spagnolo, be’ non credo che riuscirei a rispondere come in francese”.
Per evitare di ritenere Ben Arfa un caso unico è importante vedere alcune scene dei suoi compagni per capire che il problema non è lui.
Olivier (N’Siabamfumu) terzino destro grosso, veloce, tecnico, intelligente, che paragonano già a Lilian Thuram, descrive così il momento in cui firma per il Rennes: “Quando ho posato la penna sul contratto ero emozionatissimo, contentissimo. Mi dicevo: è la mia vita, il mio futuro che è in gioco”. Il dirigente del Rennes dice ai genitori di Olivier: “Non posso promettervi che tra 5 anni giocherà titolare in Coppa Uefa ma faremo il possibile”. Poi, direttamente a lui: “Allora, bella la vita eh?”.
La sera in collegio i ragazzi hanno poco da fare, organizzano feste senza ragazze oppure improvvisano a turno sulle basi di canzoni rap francesi. Helmi (Loussaief), uno di quelli che si vede di più, dice di rappare delle cose che conosce: di periferia, della droga, di Clairefontaine: “È così la vita. Ci sono quelli che hanno successo e quelli che no”. Helmi passa un periodo da infortunato e poi lo mettono in panchina. Lui ha paura: “Magari ero più forte prima di adesso, sono peggiorato negli ultimi due anni”.
Durante la cena di Natale si mettono la camicia e brindano: “Che tutti quanti trovino una squadra”. Poche scene dopo, però, Garra (Dembélé) si lamenta che i più bravi fanno gruppetto tra loro: “Ce ne sono che pensano solo a loro stessi…”. Garra ha firmato con un club al primo anno per togliersi il pensiero, ma è sempre in panchina e si preoccupa perché la squadra con cui ha firmato manda degli scout per controllare i suoi progressi, e quelli non possono vederlo: “M. Dusseau dice che ho grandi capacità ma non le valorizzo”.
Alla fine di ogni anno l’INF manda via i ragazzi non più all’altezza perché puoi essere tra i trenta migliori di Francia un anno e quello dopo aver già fallito. Bastien (Benoit) è il più basso del gruppo, con le maglie troppo grandi che quando gioca si gonfiano e sembra un palloncino, e lo escludono alla fine del secondo anno. In quel periodo proprio i suoi genitori stanno divorziando e va anche male a scuola. Al telefono è lui che chiede alla madre: “Hai dormito stanotte?” “No” “Vabbè, non fa niente, no?” “No, non fa niente. Ma ho troppi pensieri…”. Quando Bastien lascia Clairefontaine la voce off dice che tornerà a casa dalla madre ma che suo padre ha promesso che si occuperà della sua carriera. Qualche puntata dopo lo vediamo giocare con la squadra del posto, in una categoria senza pretese, ha la fascia da capitano, il numero 10. Dice che si sente più libero in campo, che va anche meglio a scuola. Sembra felice. E per contrasto fa sembrare gli altri dei condannati.
Le vite incasinate degli altri
Ben Arfa al momento è senza squadra, ma i suoi compagni non se la sono mai passata molto meglio di lui (a parte magari Geoffrey Jourdren, di cui però mi chiedo quanti lettori italiani abbiano mai sentito parlare). Farò pochi esempi.
A cominciare da Garra Dembélé, che a vent’anni (2006) è venuto a Roma per un provino con la Roma ed è stato accusato dello stupro di una turista americana, da cui poi sarà discolpato. Era a Roma perché l’Auxerre aveva rescisso il contratto per motivi disciplinari dopo un solo anno, dopo ha giocato in Danimarca, Grecia e Bulgaria. Al Levski Sofia ha avuto una stagione incredibile nel 2011, con 26 gol in 25 partite, e Alain Giresse lo ha convocato con la Nazionale del Mali. Dopo un’amichevole con la Costa d’Avorio, però, Garra ha smesso di rispondere alle chiamate di Giresse (che ha detto di aver provato a contattarlo in tutti i modi possibili) e sempre nel 2011 la polizia bulgara lo ha fermato due volte mentre guidava ubriaco, la seconda aveva una patente finta. Poi, in due stagioni al Friburgo ha segnato un solo gol e nel 2013 si è trasferito in Cina.
Uno di quelli che ai tempi di À la Clairefontaine non aveva problemi a giocare o a relazionarsi con i compagni era Habib Bellaïd. Lo vediamo esordire con la Nazionale francese Under-15 e tirare bigliettini romantici alle ragazze in classe. È arrivato fino all’Under-21 ed è diventato subito titolare con lo Strasburgo. Ha anche segnato alla Roma in Coppa Uefa, all’Olimpico, e su di lui si diceva ci fossero Roma e Real Madrid. Invece nel 2008 ha firmato con l’Eintracht Francoforte, che ha iniziato a darlo in prestito prima di venderlo al Sedan nella serie B francese. Ha giocato in Algeria, di cui ha vestito anche la maglia della Nazionale durante il Mondiale del 2010, senza mai scendere in campo però.
L’esempio più significativo è quello di Olivier N’Siabamfumu, quello che paragonavano a Thuram, che esordisce nella Nazionale Under-15 con la fascia da capitano al braccio e che nel 2005 vincerà l’Europeo Under-19 (in squadra con Diaby, Gourcuff, Cabaye, Kaboul e Moussa Sow). Lo scout del Rennes diceva di non potergli promettere che in 5 anni sarebbe stato titolare e dopo una sola stagione la società lo cede all’Ascoli (quell’anno in Serie A). Dopo due stagioni è andato in Grecia all’AEK, poi è tornato in Italia, vestendo le maglie di Crotone e Carrarese e la sola stagione in cui ha giocato più di 8 partite, prima di finire in Norvegia nel 2013, è stata quella passata a Colmar, in terza divisione francese.
La vita incasinata di Hatem
La scorsa estate è stato chiesto a Karim Benzema che cosa è successo alla “generazione ’87”, quella che ha vinto l’Europeo Under-17 nel 2004, di cui facevano parte anche Samir Nasri e Jeremy Menez (ma anche Kevin Constant, che ha segnato in finale dell’Europeo contro la Spagna). Benzema ha risposto facendo l’esempio più lampante: “Se Hatem avesse seguito la sua strada oggi giocherebbe con Messi nel Barcellona. Tecnicamente sono allo stesso livello”. Ben Arfa è stato votato miglior giovane giocatore francese nel 2008 (davanti a Miralem Pjanic) raccogliendo lo scettro proprio da Nasri, e in quel periodo Jean-Michel Aulas diceva: “Ben Arfa è Cristiano Ronaldo. In venti anni a Lione non ho mai visto un ragazzo dotato quanto lui con il pallone”. Successivamente il presidente del Lione ha rivisto le priorità del club e per evitare delusioni come quella di Ben Arfa ha addirittura cambiato la metodologia di selezione del settore giovanile: “Abbiamo ridefinito un profilo tipo che esclude i comportamenti egoisti. Ora guardiamo sopratutto al potenziale etico”.
Al Lione, fuori dal campo, Ben Arfa non andava d’accordo neanche con Benzema. Alain Perrin, l’allenatore, non lo nascondeva alla stampa: “Non sono grandi amici, ma niente gli impedisce di giocare insieme”. Ben Arfa è andato via dicendo che i pagamenti del Lione non arrivavano puntuali ma a quanto pare nel liberare il proprio armadietto aveva dimenticato un assegno da 90.000 € che ha trovato un inserviente. A Marsiglia ha litigato con Djibril Cissé dopo appena un mese e dopo quattro, quando Eric Gerets lo ha messo in panchina contro il PSG, si è rifiutato di entrare in campo nel secondo tempo. Gerets diceva che Hatem non capiva “che il talento da solo non basta per diventare un campione”. Deschamps, subentrato a Gerets, ha detto che Ben Arfa: “Mette gli allenatori nella merda” (e da allenatore della Nazionale lo ha tenuto a debita distanza). Pare anche che per convincere Jean-Claude Dassier, presidente dell’OM, a lasciarlo andare al Newcastle abbia messo il braccio sulla sua scrivania gettando tutto in terra, come nei film. Durante l’Europeo del 2012 ha litigato anche con Laurent Blanc che gli aveva detto di non rispondere al cellulare nello spogliatoio. “A volte si comportava da stupido”, ha detto Cris, l’ex difensore del Lione: “Quando ci parli lui dice sempre di aver capito e che terrà a mente i tuoi consigli. Il problema è che dieci minuti dopo, appena gli hai dato le spalle, fa il contrario di quello che gli hai appena detto”.
I pensieri di Hatem da adulto
Ben Arfa ha cercato un rapporto più sincero di quello dei suoi colleghi con il pubblico, forse perché non ha mai vissuto senza essere un calciatore, con un’idea autentica di intimità. Parlando del suo passato ha fatto autocritica a più riprese, a Les Inrock ha dichiarato: “Non avevo nessuna umiltà, parlavo troppo, avevo sempre qualcosa da dire. (…) Mi capita ancora di arrabbiarmi per delle sciocchezze, poco fa ad esempio il fotografo mi ha schizzato con l’acqua. Sul momento mi ha innervosito, ma non l’ho mostrato. Questa fiamma che brucia dentro di me resterà sempre parte di me, devo solo imparare a controllarla”.
Siccome è una persona sensibile ha cercato una risposta alle sue domande nei libri. Leggeva Aldous Huxley, Kant e Spinoza. In un’intervista video rilasciata a l’Equipe ha detto: “Mi hanno preso in giro. Ma ci ho provato a leggerlo. Che, non posso provarci? Ho provato a leggere Nietzsche, Kant, ho provato con Socrate eccetera. Anche se non ci sono riuscito. Cioè non è che non ci sono riuscito, è che era complicato. Ho provato a risolvere i miei problemi, non sapevo come e ho provato in tutti i modi”. Ha provato anche con la religione, avvicinandosi al sufismo grazie al rapper Abd al Malik salvo poi accusarlo di averlo plagiato. Alla rivista della comunità tunisina in Francia ha dichiarato: “In questa società materialista, gli uomini sono diventati lupi, la morale e la spiritualità non valgono più niente”.
In generale, però, Ben Arfa parla sempre dei problemi come se li avesse già superati. Per questo è difficile capire come è cambiato veramente. Parte della sua immaturità consiste proprio nel fingersi maturo: “Io ho un difetto, e sto cercando di lavorarci su, sono impaziente. E poi sono molto orgoglioso, non accetto l’autorità. Da quando sono ragazzo, anche a scuola con i professori, se sento che l’autorità è ingiusta con me mi ribello. Poi, a poco a poco ho imparato a sottomettermi”. Non ha una reale consapevolezza di sé e dei suoi errori, il tono è sincero ma le frasi che usa suonano come se ripetesse cose sentite da altri: “Non avevo rispetto, pensavo solo a me stesso. Pensavo di essere solo al mondo”, “Ero in conflitto con me stesso”, “Fin da piccolo ho preso una strada sbagliata e non avevo le basi”, “Ho tutto, i soldi e le paillettes ma niente di questo mi ha reso felice”, “Sono molto fragile. Troppo fragile. La minima cosa mi tocca, sono troppo fragile”.
Non ha neanche consapevolezza dei suoi limiti. Nel 2013 diceva: “La gente mi prenderà per pazzo ma io penso ancora di poter vincere il Pallone d’oro”. Ancora a l’Equipe, dopo che il Newcastle lo aveva già scaricato all’Hull City, ha detto di non aver ridotto le proprie ambizioni: “Oggi voglio anzitutto divertirmi in campo. Ma ho sempre gli stessi sogni, e credo che siano ancora alla portata. Ci credo con tutto me stesso”.
A l’Equipe ha parlato anche della responsabilità di Clairefontaine sulla sua formazione. Prima in modo vago: “Ho avuto un percorso difficile, ho iniziato a dodici anni… Ho avuto la fortuna di fare il calciatore, sono finito subito sotto i riflettori e non ero pronto”. Poi direttamente: “Ha falsato tutto quello che era intorno a me, la famiglia, gli amici, perché si sono intromessi i soldi, la mediatizzazione. Già ero paranoico, da quel momento appena qualcuno mi parlava mi dicevo che c’erano di mezzo i soldi, mi chiedevo che vorrà questo da me, e magari quello mi parlava così tanto per. Avevo tutti i difetti possibili e immaginabili. Ce li ho ancora, ma lavoro sempre per migliorarmi, sempre, sempre”.
In chiusura di quell’intervista dice che l’Hull City è la sua ultima possibilità. Hatem fa un paragone con Super Mario Bros: “È come quando hai cinque vite: all’inizio ti diverti, fai i salti, poi perdi una vita, due vite, tre vite, e adesso me ne resta solo una. Adesso quando mi trovo davanti al mostro devo riflettere dieci volte di più, devo fare davvero attenzione”. Oggi può suonare sinistro, ma a ottobre stava passando un buon momento e l’impressione è che Ben Arfa non prenda in seria considerazione l’ipotesi che il mostro stia per ucciderlo, che non riuscirà mai a passare il livello in cui è rimasto bloccato. D’altra parte, tutti hanno finito Super Mario Bros.
Cosa succederà quando Ben Arfa realizzerà che non può vincere il Pallone d’oro? Che non parteciperà mai a un Mondiale? Quando smetterà di essere un calciatore si sentirà un fallito per i restanti quaranta o cinquant’anni? Se Hatem fosse una persona cara, adesso che ha quattro mesi per riflettere (e sembra anche ingrassato), gli direi di smettere di giocare. Forse gli andava detto prima, dopo i primi milioni guadagnati, forse aveva ragione a non fidarsi di nessuno. Ma questa è la sua vita da quando ha dodici anni. Il vero problema di Ben Arfa, che non è solo un problema di Ben Arfa, è che non sa neanche com’è una vita fuori del calcio.
Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013).
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