Oh, Boifava: mi dispiace
Ricordate Patrick Valcke, il meccanico di Roche? L'uomo che lo ha guidato nel famoso "golpe di Sappada" al Giro d'Italia 1987? Siamo andati a trovarlo a casa sua, in Francia. Ci ha svelato incredibili retroscena e ci ha spiegato lo stretto vincolo che lo unisce al campione del mondo. «Stephen voleva ritirarsi con la maglia rosa sulle spalle, l'ho convinto io a rinunciare. Visentini ha distrutto una grande squadra. È lui il responsabile. E io non vorrei essere nei panni di Davide»
di FILIPPO NANNI
Bicisport n. 12, dicembre 1987
Patrick Valcke è a tavola con due corridori francesi (Brune e Duclos-Lassalle) e Cecile Odine, una ragazza della nazionale. Il ristorante è quello di un albergo di Wasquehal, a due passi da Lille. L’odore della carne alla brace è intenso e stimolante. Siamo arrivati nella tana dell’ineffabile meccanico (dal prossimo anno direttore sportivo) di Roche-pigliatutto. Deve raccontarci tutta la sua storia e soprattutto rivivere con noi alcuni momenti scottanti del Giro d’Italia. Patrick è gentilissimo. Ci sediamo al suo tavolo e insieme liquidiamo la formalità pranzo in meno di mezz’ora. Poi lo seguiamo nella stanza di Duclos-Lassalle, la numero due, a livello della strada. Sembra un motel americano. Lo spazio è ristretto, ma i due letti affiancati sono più che sufficienti per simulare un salotto. Patrick accende i suoi occhi furbi e comincia proprio dall’inizio.
«Sono nato a Lille, proprio qui vicino, il 3 gennaio 1959. Mio padre, Leon, era operaio e mamma Annie doveva darsi da fare per cercare di contribuire alle entrate della famiglia. Ho due sorelle e tre fratelli più piccoli di me e la mia infanzia non è stata quella di un bambino svezzato con le favole. In pratica non ho mai giocato. A 14 anni aiutavo mia madre a consegnare i giornali la mattina prima di andare a scuola e la sera mi allenavo in bicicletta. È stato mio nonno ad attaccarmi la passione per il ciclismo. Ho studiato fino a 18 anni e mi sono preso il diploma di ragioniere. Da quel momento è iniziata la mia vita autonoma. Ho lasciato casa dei miei e in società con mio cognato ho aperto un negozio di biciclette. Ma sapevo che non era il lavoro adatto a me. Io sono sempre stato un ragazzo pieno d’iniziativa, mi è sempre piaciuto organizzare e non mi sentivo adatto né a fare il ragioniere né ad occuparmi di un negozio. Comunque in quel periodo non me la passavo troppo bene economicamente e non potevo permettermi il lusso di scegliere. Finché un giorno venni a sapere che De Meuer stava cercando un meccanico per la Peugeot. Era il 1980. Lasciai il negozio in mano a mio cognato e mi buttai nella nuova avventura».
- Nel frattempo Patrick sposa Pascal (hanno due bambini, Geoffrey e Julien di 9 e 5 anni) e abbandona ogni velleità di correre in bicicletta.
«In realtà ho capito presto di non essere un super, ma non ho sofferto più di tanto. Ho aggirato l’ostacolo. Se non posso essere un campione, mi sono detto, voglio provare a diventare il migliore dei meccanici. Lo ammetto: la mediocrità proprio non mi interessa. Ho sempre puntato in alto».
- Valcke alla Peugeot incontra per la prima volta Stephen Roche.
«L’ho visto due minuti nell’officina della squadra e poi ci siamo frequentati al ritiro in una località vicino Nizza. Abbiamo trascorso venti giorni a contatto di gomito. Stephen era grasso, pesava 5 chili di troppo e non parlava una parola di francese. Ma ho capito presto che era un tipo cocciuto, che sapeva bene dove voleva arrivare. Quelli sono stati periodi duri per entrambi e forse per questo siamo diventati così amici. A quei tempi lui guadagnava [l’equivalente di] meno di un milione al mese e io settecentomila lire. Eravamo gli ultimi arrivati in una squadra che era piena di grandi nomi».
- Poi il passaggio alla La Redoute.
«Sì, in quei due anni abbiamo cementato la nostra amicizia. Io facevo anche i massaggi, cominciavo a seguirlo da vicino. La domenica eravamo spesso insieme con le mogli e i bambini».
- Nel 1986 il richiamo della Carrera vi porta in Italia.
«È stato Stephen a chiamarmi. Ero molto perplesso. Non conoscevo la lingua e avrei anche guadagnato di meno. Ho chiesto 5-6 giorni per decidere, ho parlato con mia moglie e poi ho accettato. Non sapevo che stava per iniziare un calvario. [Nel novembre 1985] Roche, infatti, cade alla Sei giorni di Parigi e cominciano i suoi guai al ginocchio.
Ci sono voluti sei mesi per capire che si trattava del menisco. Lo hanno visitato mille medici prima di arrivare a una conclusione definitiva. Visentini e Zimmermann intanto vincevano e Stephen fremeva. Era tanta la voglia di ricominciare che neanche osservava le indicazioni dei dottori e cercava di affrettare il recupero. Si sentiva debitore nei riguardi della Carrera, tanto da promettere al direttore sportivo Boifava che, se all’inizio della stagione si fosse reso conto di non andare, avrebbe accettato un ingaggio dimezzato».
- Il riscatto però è arrivato.
«Il Roche dominatore della stagione è nato lo scorso inverno. Ci siamo trovati soli io e lui, come due pellegrini. Ho capito che dovevo infondergli la grinta necessaria a cancellare i problemi fisici, e la determinazione per diventare un vincente. Gli ho fatto capite che non sempre si può esser troppo gentili con la gente, che se fosse andato male saremmo stati tagliati fuori tutti e due. Lo guardavo negli occhi e capivo che stava assimilando al meglio le mie parole. L’iniezione di grinta avrebbe dato i suoi frutti».
- L’esplosione arriva al Giro.
«Una corsa nata male in casa Carrera. Si sapeva benissimo che sarebbe finita in una rissa. Visentini e Roche non potevano coesistere alle condizioni imposte da Roberto. Lui a Sanremo aveva già dichiarato che non sarebbe andato al Tour, ma avrebbe trascorso quel periodo al lago, a casa sua. Pretendeva che Stephen gli facesse da gregario al Giro e poi affrontasse “da solo” il Giro di Francia. Solo Visentini può fare certi ragionamenti. Io sono pronto a giurare sui miei figli che se Roberto avesse promesso a Stephen aiuto al Tour, Stephen sarebbe stato un fedele gregario al Giro».
- Invece…
«Invece si sono scannati, ma è evidente. È come se io alla Fagor prendessi Bernard e pretendessi di fare il Tour con Roche e Jean-François.
Mi troverei in mezzo proprio come è successo a Boifava. Davide è una persona corretta e ha sempre creduto in Stephen. Purtroppo per lui ha subito il condizionamento dell’ambiente. Abitano tutti intorno a lui, i corridori, la stessa Carrera sta vicino al lago [di Garda]. C’è un contatto quotidiano che non ti consente di prendere decisioni in completa autonomia. Se Davide al Giro si metteva contro Visentini gli si rivoltavano anche gli operai della Carrera. È stato lui la vera vittima al Giro, lo hanno fatto cornuto. Non sapeva da che parte stare. Per me era più semplice, avevo fatto una scelta».
- Dopo un inizio in maglia rosa, Roche la perde a San Marino…
«Ma è successo perché aveva male a una gamba. Non avrebbe mai ceduto in quel modo, se fosse stato bene. Sarebbe stato in grado di rimanere maglia rosa. Ma di questo passaggio di maglia in Italia si è parlato poco. Andava bene a tutti che la indossasse Visentini».
- A Sappada succede il finimondo.
«Quando Stephen è scattato non aveva intenzioni bellicose. Lui era andato dietro Bagot. Alla radio ho sentito che aveva più di un minuto di vantaggio e non stavo più nella pelle. Volevo andare davanti a coprirlo. Boifava si è accorto della mia frenesia e si è affiancato con la sua ammiraglia a quella mia e di Quintarelli. Mi ha chiamato e mi ha detto: “Se vuoi passare vai, ma di’ a Roche che se tira ancora un metro stasera fate la valigia”. Sono schizzato davanti e ho raggiunto Stephen che subito mi ha chiesto cosa ne pensassi di quella situazione. “Dietro tira tutta la Carrera – gli ho risposto – Se ti fermi adesso fai la figura del pirla. Se sei un uomo è il momento di dimostrarlo”. Quintarelli era disperato. “Siamo morti – gridava –, finiti, non è possibile” Ma in quel momento si è deciso il Giro a vantaggio di Stephen, come era giusto».
- I giorni seguenti però non devono essere stati facili per lei.
«Né per me né per Roche e Schepers. Ci radunavamo in camera loro e facevamo il punto della situazione. La sera più drammatica è stata naturalmente quella di Sappada. L’arrivo dei boss [i fratelli Imerio e Tito Tacchella, nda], la riunione, il proposito di spedirci a casa, la possibilità che Roche e Schepers non facessero il Tour. Anche con il personale della squadra i rapporti si erano fatti difficili, c’era molta freddezza nei nostri confronti. Per fortuna con Davo, [un massaggiatore] che ora ho portato alla Fagor, non ho mai avuto problemi. Sa, era il mio compagno di stanza».
- Roche intanto era nel mirino dei tifosi italiani.
«E aveva una grande paura. Di loro e di Visentini, che aveva fatto cadere volutamente Schepers. Stia a sentire, le posso garantire che, se Visentini avesse fatto qualcosa di simile a Stephen, non avrei esitato un istante a buttarlo giù con la macchina. Io non voglio far male a nessuno, ma non sopporto che altri lo facciano a me. Ho mantenuto buoni rapporti un po’ con tutti quelli della Carrera, ma Visentini proprio non lo posso vedere. Non ha testa né carattere. Avrei scommesso qualsiasi cifra con chiunque che sarebbe saltato al Giro. Stephen in corsa è mille volte più intelligente di lui. Comunque, tornando a quei giorni difficili dopo Sappada, Roche mi aveva detto due o tre volte di preparare la valigia, era intimorito, voleva andarsene. Io gli ho spiegato la situazione, gli ho fatto capire che proprio coloro che affermavano che il Giro avrebbero potuto vincerlo indifferentemente lui o Visentini gli avevano scatenato dietro la squadra. Se la Carrera non avesse tirato, Stephen avrebbe vinto a Sappada con un quarto d’ora [di vantaggio]. Alla fine sono riuscito a convincerlo che non era proprio il caso di abbandonare».
- Archiviato il Giro, è arrivata la maglia gialla.
«Al Tour ho riassunto i panni del meccanico. In Italia, me ne rendo perfettamente conto, sono andato oltre i miei compiti, ma sapevo che Stephen era il più forte e non potevo accettare che fosse schiacciato. Il Roche del Giro è stato il più grande della stagione, migliore di quello visto al Tour. In Francia è filato tutto liscio anche all’interno della squadra. Con persone come Bontempi non si può non andare d’accordo e poi la formazione era parecchio diversa. La grande sorpresa per me è stata il mondiale. Non pensavo proprio che Stephen riuscisse anche in quell’impresa. È vero, è stato molto astuto. Voi dite che abbia imparato bene le mie lezioni? Può darsi. Se un merito credo di avere è quello di avergli insegnato a essere “cattivo” in corsa. Quanto abbia inciso questo nell’esplosione di Stephen lo lascio decidere agli altri».
- Il prossimo anno avrà un’ammiraglia tutta per lei.
«Già da tempo ne parlavo con Stephen. Non è successo prima perché non mi sentivo pronto. Adesso lo sono. Non volevo un regalo, una concessione. Guadagnerò il doppio, ma la cifra è quella dei direttori sportivi comuni, niente di stratosferico. Avrei voluto in squadra Bontempi e Leali. Bruno ero quasi riuscito a prenderlo, ma non ho voluto insistere per non fare uno sgarbo alla Carrera, una grande squadra costruita con pazienza da Boifava e distrutta da Visentini. Hanno sbagliato a tenere lui invece di Roche. Roberto non vincerà mai un Tour. Ha classe, ma non ha la testa. Un po’, lo confesso, mi dispiace partire. Tutto sommato è stata una bella esperienza. Ma chissà, potrei tornare un giorno. Questo mestiere è così strano…».
- E lei si considera strano?
«Sono un lavoratore ambizioso che ha avuto la fortuna di partecipare alla grande annata di un suo corridore. Auguro a tanti colleghi di provare una soddisfazione così grande. Ma sia ben chiaro, Patrick Valcke può continuare a vivere anche distante dall’ombra di Roche».
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