Sono stato una cavia felice



Il campione porta con sé un rimpianto: non aver corso con Coppi e Bartali. E per questo parla dei tempi eroici del ciclismo, dei guadagni, delle enormi fatiche. Ma anche del doping

di Gian Antonio Stella
Corriere dlla Sera / L'Europeo, 30 aprile 2009

Il pioniere tecnologico del ciclismo del Duemila se ne va con solo un rimpianto: non avere smesso vent’anni fa. Cioè non essere abbastanza vecchio per aver corso nel dopoguerra con i Bartali e i Coppi e i Magni: «Magari mi battevano tutti, per carità. Magari vincevo di meno, e in ogni caso tutto quello che ho fatto mi va benissimo. Ma il ciclismo che mi sarebbe piaciuto è quello lì. Eroico, duro, con le strade brutte e le soluzioni di forza. Insomma, quello dove non fai sei ore in bicicletta per poi arrivare imbottigliato nel gruppo. Perché qualche volta non c’è proprio senso». Noia? «Noia… oddio, non è che mi sia mai annoiato ad andare in bicicletta. Per carità. Però crede che non mi sia mai chiesto che senso c’era a correre? Me lo sono domandato più di una volta. Parti e pedali, quattro, cinque, sei ore. E sai già come va a finire: col gruppone compatto». 

In 19 anni di carriera, Francesco Moser, due maglie iridate (una su strada, due su pista), un Giro d’Italia, due record dell’ora (assoluti), oltre 200 vittorie in tutte le corse che contano (meno il Tour de France e il Giro delle Fiandre), di chilometri ne ha percorsi parecchi: «Fatti i conti, credo sui 600mila». Quindici volte il giro del mondo. Alla media di 30 all’ora, quasi due anni e mezzo di vita con le mani sul manubrio. 

Campione contadino, l’ultimo “eroe” del ciclismo è stato ben attento alla semina. Tanto era generoso in corsa, quanto si è rivelato prudente nello spendere i soldi guadagnati. Tirchio? «Ma no, assolutamente, non è che io sia avaro. Ma so che tanto in fretta li prendi, così in fretta li puoi perdere. Ho visto Freddy Maertens, l’altro giorno. Grasso, sfatto. Poveretto, quello lì non ha neanche l’acqua per lavarsi. Neanche la casa, ha. E sì che è uno che ai suoi tempi ha guadagnato bene, eh». 

Difficile che sia il destino di Moser. Lira su lira, “Cesco” ha comperato un po’ di campagna, ha fondato una fabbrica di biciclette (dove produce l’avveniristica ruota lenticolare, una sua creatura), costituito una società che confeziona e commercia abbigliamento sportivo, costruito una villa nel cuore di Palù di Giovo, il microscopico paesino sui monti di Trento dove è nato e dove ha fermamente deciso di rimanere vita natural durante. 

Una bella casa, quanto più possibile discreta. E neppure un reliquiario. Qualche coppa e un pugno di medaglie nella stanza di ingresso, poi basta: «Non è che gli piaccia tanto vivere sommerso di cimeli», spiega Carla, la moglie, che ha dato al campione due figli, Francesca e Carlo. «Abbiamo un sacco di premi, soprattutto targhe, chiusi in casse di legno. Stiamo pensando di organizzare un’asta di beneficenza». Unica concessione autocelebrativa, l’etichetta dello spumante (ottimo), metodo champenoise, prodotto dall’Azienda agricola Diego e Francesco Moser. Fondo rosa (come la maglia del vincitore del Giro), una ruota di bicicletta e un numero: 51; 51 furono i chilometri percorsi in un’ora durante quella magica notte a Città del Messico nell’inverno 1983-1984. La pubblicità è pubblicità. 

«Io non sono mai stato un divo. Non è nel mio carattere, non ne sarei stato capace, ma quando vinci così è: ti tiri dietro anche la fama e tutto il resto. Io ho cercato di fare meglio che potevo anche quello. Andare alle feste dei tifosi, alle rimpatriate, a ritirare premi… Sì, era pesante tante volte tornare a casa e ripartire subito. Ma questa è la vita. Me la sono scelta io, mica me l’hanno fatta fare gli altri. Mi sta bene tutto quello che è successo. Tutto. Se non ci fosse stato il ciclismo…». 

Se non ci fosse stato? 

«Sarei qui a fare il contadino. Quello era il mio destino. D’altra parte, è quello che ha sempre fatto mio papà Ignazio, fino a che è morto, quando io avevo 12 anni. Eravamo una famiglia povera. Dieci fratelli, sette maschi e tre femmine». 

Studi? 

«Ho fatto la terza media. Vuol sapere se mi pesa? Per niente: non era la mia vocazione. I miei volevano che studiassi, ma non mi piaceva proprio. A 13 anni ero sul trattore. Non avevo neanche la patente. Quando l’ho presa ormai avevo cominciato a correre». 

Un vizio di famiglia. 

«Siamo in quattro fratelli ad aver fatto i professionisti. Il primo anno, nel 1973, eravamo in tre insieme nella stessa squadra, io, Diego e Aldo. È il periodo in cui abbiamo un po’ trascurato la vigna. Io avevo cominciato tardi, a 18 anni, ma siccome mi ero messo subito a vincere mi aspettavano tutti come uno che doveva sfondare». 

Era uno sprecone all’inizio, no? 

«Uno sprecone… Quello era il mio modo di correre. D’altra parte, credo che la gente abbia cominciato a volermi bene anche per questo. Perché io ero uno che si buttava in avanti. Insomma, non sono mai stato uno sparagnino. Per questo mi dispiace di essere nato con 20 anni di ritardo. Il ciclismo di una volta forse mi avrebbe dato più soddisfazioni. Forse avrei vinto di meno, non so. Non c’è la controprova. Ma sicuramente mi sarebbe piaciuto di più. Prenda la Parigi-Roubaix. È rimasta una delle poche corse dure. E lì sono sempre andato bene». 

Senta Moser, non teme che qualcuno possa trovarci un pizzico di contraddizione? Prima invoca un ciclismo eroico e poi ricorre alla medicina, agli scienziati, ai caschetti aerodinamici, alle ruote lenticolari… 

«Certo, piacerebbe anche a me, se si potesse correre tranquilli. Ma siccome pretendono che tu sia al mille per cento ogni giorno per tutto l’anno… È logico che uno chieda aiuto a chi ne sa più di lui. Il problema, in un mondo che ti tiene sempre sotto pressione, è recuperare. Da che mondo è mondo la medicina sportiva cerca di trovare prodotti che aiutino a recuperare. Vitamine, zuccheri…». 

E il doping? C’è molto doping nel ciclismo d’oggi? 

«Certamente meno di una volta. Insomma, c’è sempre stato, mica per altro hanno introdotto i controlli. Ne abusavano tutti. E poi, che cosa vuol dire “drogato”? Ci sono medicine che ti danno all’ospedale, perché fanno bene. Eppure nessuno si sogna di dire che questi malati, se prendono il cortisone, per esempio, sono drogati, no? Prenda una corsa a tappe: se ti fermi un giorno non è che puoi recuperare. Chiudi e torni a casa. Se invece si potesse prendere qualcosa per superare quel momento di crisi…». 

Che cos’è, una proposta? Il suggerimento di un piccolo “doping legale”, magari sotto il controllo del direttore di corsa? 

«Ma mi guardo bene dal dire una cosa simile! Insomma, si darebbero malati tutti! No, voglio solo far notare che si fa presto a parlare, ma che la realtà è più complessa. Gira e rigira, tu sai che ci sono dei prodotti che non puoi prendere perché sono nella lista. Chiuso. L’importante è non restare positivi. Purché le analisi siano davvero infallibili». 

Non lo sono? 

«Ma va là. Non lo sono no!». 

Doping a parte, il ciclismo è sempre uno sport pulito? 

«Pulito… È uno sport professionistico. Può succedere che si stringano accordi, in corsa. Ma corse comperate no, mai sentito». 

Francesco Conconi (il medico fu processato per doping nel 2003: il tribunale lo assolse per il periodo successivo al 1995 e lo giudicò colpevole per gli anni precedenti, riconoscendo però che il reato era caduto in prescrizione, ndr)? 

«Questa storia di Conconi! Io sono riconoscente a Conconi e sono suo amico. Ma non è l’unico artefice di tutto. È merito di una équipe. Quando la Enervit mi propose di tentare di battere il record dell’ora sapevamo che era una cosa difficile, e ci dicemmo: qui bisogna fare le cose per bene. Così si costituì una squadra di esperti in diversi settori. Poi la collaborazione è continuata. Tutto qui». 

Non le è pesato fare da cavia? 

«Cavia… Non è la parola giusta. Sono stato io a scegliere questi collaboratori. A mano a mano che passano gli anni fai fatica a recuperare». 

Nell’ultimo record indoor, a Stoccarda, era rimasto solo lei a crederci, o no? 

«Be’, eravamo rimasti veramente in pochi». 

Il suo capolavoro? 

«Forse. Ma anche quel Giro d’Italia riacciuffato all’ultimo giorno…». 

La sconfitta più bruciante? 

«Penso quella ai mondiali di Nürburgring (nel 1978 contro Gerrie Knetemann, ndr). Lì ormai credevo di avercela fatta. Ma non ho rimpianti. Qualche altra volta magari posso aver vinto con meno merito. La vita è così. Se lavori i conti tornano». 

Ha guadagnato molto? 

«Rispetto ad altri campioni, di qualche sport più ricco, forse no. Ma mi va bene così». 

Il giorno che qualcuno non la riconoscerà più? Qualche ex divo ci fa una malattia… 

«Non so come reagirò. Per ora, quando capita che non mi riconoscano, mi fa piacere». 

Dica la verità: per uno come lei tornare a una vita normale è quasi un sollievo. 

«Sì, è anche una liberazione. Con gli anni una certa vita comincia a pesarti sempre di più. Anche se adesso dovrò affrontare altri problemi. La fabbrica di bici, la cantina… Insomma, ho parecchie cose da fare». 

Un pizzico di paura di invecchiare? 

«Chi, io? Non me ne è mai fregato niente».

Gian Antonio Stella
30 aprile 2009

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