L’età dell’Auro
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Pensieri su ciclismo e televisione dopo l’addio di Bulbarelli al microfono. Fra divagazioni e infatuazioni, passando per la difficoltà di raccontare uno sport che non permette lo schiacciamento sul presente
Pensieri su ciclismo e televisione dopo l’addio di Bulbarelli al microfono. Fra divagazioni e infatuazioni, passando per la difficoltà di raccontare uno sport che non permette lo schiacciamento sul presente
di Simone Basso
in esclusiva per Indiscreto, 13 gennaio 2010
“Il mezzo è il messaggio”.
(Marshall McLuhan)
Nel villaggio globale dello sport, il ventunesimo secolo è quello dell’esposizione bulimica, esagerata. Infatti, come qualsiasi attività umana, ormai accade solo ciò che viene televissuto; l’idea onirica delle imprese sportive raccontate dagli inviati o dai film fotografici è un reperto (o referto) del Novecento. Diventa quindi fondamentale, per vendere meglio il catalogo, il quinto potere coinvolto nell’operazione: la fruizione dello spettacolo agonistico viene rinnovata non per migliorare lo sguardo diretto di chi presenzia all’evento, bensì per consentire più telegenicità allo stesso. Poiché l’occhio che conta è quello della telecamera, ciò che accade su un campo o su un circuito è "assolutamente relativo": lo sport si è trasformato in un programma d’intrattenimento televisivo molto redditizio, affiancabile a un telefilm o a un reality. E’ un meccanismo di fruizione che coinvolge tutti; la sindrome del megaschermo distoglie anche l’attenzione del fruitore sul posto: in un caso huxleyano di percezione alterata, il testimone preferisce osservare le immagini filtrate piuttosto che gli atleti a qualche metro.
E’ così ovunque, dalla partita NBA all’arrivo di una classica dello sci alpino, con il pubblico che al momento opportuno gira la testa verso il monolite a colori; quasi a chiedere conforto dell’esistenza del momento vissuto. Nel 2006 Dio Foot, l’ultima religione praticata realmente sul pianeta Terra, ha consacrato questa tendenza irrinunciabile: le blatteriadi furono decise dalla sala regia della televisione tedesca, estrapolando un frammento (la testata di Zidane) sfuggito agli occhi, umanissimi, dell’arbitro. L’immagine quindi è (oggi, domani, dopodomani) il mondo reale anche dello sport: la contraddizione più evidente è regolata dall’esigenza di fornire un commento a questa forma totalizzante di “spettacolo integrato”.
Lo spunto diretto arriva dal cambio della guardia, in funzione ciclistica, davanti al microfono RAI. Come direbbero in America, Exit: Bulbarelli; Enter: Pancani. La gestione dell’Auro del dopo-De Zan, paragonabile alla successione impossibile a Luigi XIV, potremmo definirla controversa: un’eredita pesante e quasi sgradevole, giunta tra l’altro nel periodo più arduo (mediaticamente) per il ciclismo. Difficile proseguire con i voli pindarici e gli slanci omerici, se si è travolti da una quotidianità degna di un noir di Simenon. Il problema di Yoghi, affiancato dall’ex professionista Bubu, sono stati i tempi, i suoi: in uno sport con fasi lunghissime, ieratiche, non ha quasi mai saputo riempire il vuoto dell’attesa. Perché il privilegio del ciclismo è proprio questo: non consente lo schiacciamento sul presente, necessario in altre esibizioni muscolari. C’è spazio per respirare e apprezzare; in una dimensione umanistica concreta, e se la pedivella è un libro da leggere e sfogliare con calma, gli altri sport sono SMS… E’ una scusa meravigliosa per visitare il mondo e la sua bellezza contraddittoria; lo spunto è ovunque, da una cattedrale gotica all’approccio di una montagna; dall’entrata in una foresta alla visione di un golfo marittimo.
All’Auro, che comunque si applicava, mancavano anche i tempi tecnici della competizione: l’ultimo esempio, freschissimo, al Giro di Lombardia 2009. Quando, nel momento della rasoiata decisiva di Gilbert, si era distratto in un discorso fuori tema: il senso della corsa (a otto chilometri del traguardo…) non dovrebbe essere un privilegio esclusivo di Philippe Fondriest e Ducati Sanchez. L’imperdonabile infatuazione texana o lo sgradevole rendiconto della contabilità antid****g fanno parte dei gusti, dissennati il giusto vista la taglia di camicia, del soggetto; anche se rimarranno negli annali il suo silenzio omertoso di fronte al dottor Ferrari, intervista telefonica del 2002, e l’arrabbiatura verso la De Stefano, che dichiarò la verità inconfessabile nel dì della vergogna di Lons-le-Saunier. La Sandrocchia, uterina e coraggiosa, pronunciò l’epitaffio del Miracolato: “Lance Armstrong non è un campione”.
Le bulbarellate però non nascondono dei meriti, come l’aver interrotto le imbarazzanti sequenze di assessori e capitani di industria intervistati del suo predecessore; sketch fantozziani che si concludevano con l’immancabile invito al De Zan per una cena: l’Adriano talvolta completava la magata, condividendo l’angolino del tavolo con una Valerie Still venticinquenne… Lo stile vocale dell’Auro, vagamente radiofonico, si era distanziato abbastanza dallo stereotipo imperante; pur non essendo un Albertini o un Rosi, il suo pareva quasi sempre un soliloquio gentile con l’ascoltatore.
Antitetico rispetto all’entusiasmo simulato dei suoi colleghi, alla Meda, con quelle urla belluine che sembrano la recita di una signorina stufa del sodding con il fidanzato. Questi Galeazzi dimagriti sono insopportabili, rendono ancora meno potabili le visioni disinteressate (quindi poco fesse) di una partita o di una gara; realizzano il disastro di un assalto cafone alla tranquillità di una casa esposta, ignara, a un televisore acceso. Si spera che il Bulbarelli, nella nuova veste di responsabile dello Sport RAI, non si dimentichi degli spazi dovuti a nonno ciclismo e ai cosiddetti sport minori; magari evitando il Muppet Show di certe differite, con la colonna sonora involontaria delle transenne rimosse durante la telecronaca…
La risposta, come cantò Robert Zimmermann, soffierà nel vento: nel frattempo ci accontenteremmo di un po' più di silenzio, partecipe e sdrammatizzante, per apprezzare meglio quei gesti. Anni fa, ad una Parigi-Roubaix, assistemmo ad una diretta priva di officianti causa sciopero sindacale: quindi zeppa di suoni, voci, rumori della strada. L’esperienza, dal punto di vista acustico, fu bellissima e il boato del Velodromo che accolse Museeuw infangato fu un’emozione pazzesca: quel pomeriggio (muto) trascorso con i ballerini delle pietre ci ricordò che, a volte, lo sport non ha bisogno delle parole.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
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