Gianni Torriani, nel nome del patron


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA PER RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Gianni è il maggiore dei tre figli di Vincenzo Torriani. Per il centenario della nascita dello storico patron del Giro, gli ha dedicato una biografia, L’ultimo patron – Vincenzo Torriani, una vita per il Giro, scritto come intervista immaginaria. Per presentarla l’ho invitato in studio a Sky Sport 24 e poi ci siamo fermati per una breve chiacchierata. Non poteva mancare un ritratto, per quanto fatalmente di parte, del papà suo e del Giro – in particolare quello dell’87 – ma anche un rapido viaggio in mezzo secolo di ciclismo italiano e di storia del nostro Paese. 

Redazione di Sky sport 
Milano Rogoredo, Milano, 19 gennaio 2018 

- Gianni Torriani, siamo qui per parlare non solo de L’ultimo patron, il libro che hai scritto su tuo padre Vincenzo, storico patron del Giro d’Italia, ma anche di un’edizione della corsa rosa, quella del 1987, molto particolare per la tua famiglia. Quali sono i tuoi ricordi di quel Giro? 

«Quello dell’87, il 70° Giro d’Italia, è stato un Giro molto particolare, capitato in un anno per la nostra famiglia molto duro, molto difficile. Perché proprio pochi giorni prima della partenza del Giro, da Sanremo, accadde uno spaventoso incidente d’auto a mia sorella Milly, mio cognato e la nipotina. Grazie a dio, riuscirono a sopravvivere. Solo mio cognato ebbe le conseguenze più dure perché rimase più di due mesi in coma, mentre miracolosamente quasi illese restarono mia sorella e la piccolina, Chiara, di due anni. Quell’incidente segnò molto mio papà, tenuto conto che accadde quindici giorni prima della partenza del Giro d’Italia. Queste furono le premesse. Poi, per quanto riguarda la partenza, papà ci teneva molto che avvenisse da Sanremo. Anche perché per la prima volta, frutto di una sua invenzione, si provò la cronodiscesa dal Poggio a Sanremo». 

- Ebbe anche molte critiche per quella scelta così rivoluzionaria, vero? 

«Sì. Ebbe molte critiche ma credo non siano state giuste. Mio papà, come organizzatore, non ha mai rifiutato di correre dei rischi, però non è mai andato a cercare l’azzardo. La differenza è questa». 

- Era quindi sempre un rischio calcolato? 

«Esattamente. Una discesa di otto chilometri, poi meticolosamente curata dal punto di vista tecnico con tutte le attenzioni del caso, si prestava a questa impresa per evidenziare una caratteristica peculiare di tanti corridori: essere bravi in discesa». 

- Non solo: forse è stata anche decisiva per innescare un certo tipo di dinamiche in quel Giro poi vinto da Stephen Roche. Poi però non è stata più proposta. Perché? 

«Credo abbiano pesato di più le problematiche legate al rischio, all’incolumità dei corridori, che la ricerca di una soluzione tecnica praticabile». 

- Dicevi prima che per la vostra famiglia fu un anno molto difficile: per quali altri motivi oltre allo spaventoso incidente d’auto? 

«Fu molto difficile perché, dopo qualche mese dalla fine del Giro, purtroppo morì mia mamma Elena, a seguito di un tumore al seno. E anche questo fece parte purtroppo delle angosce di papà durante quel Giro d’Italia, perché son cose che uno si porta nel cuore e che non può dimenticare. Per lui l’87 fu un anno pesante dal punto di vista familiare». 

- Vincenzo riuscì comunque a gestire anche quel Giro. Faceva la spola tra corsa e famiglia? Come avete vissuto quei mesi così difficili? 

«Furono mesi molto difficili. La tecnologia in uso allora era il telefono a fili. Non c’era altro. Mio papà è sempre stato in contatto ma purtroppo non poteva abbandonare la sua creatura, che era il Giro d’Italia. E quindi dal punto di vista dei contatti erano solo legati al telefono». 

- Il Giro ’87, per Vincenzo, fu difficile anche per altri aspetti, legati per esempio all’ordine pubblico, e ci arriveremo. Prima però se ti dico “Sappada”, che cosa ti viene in mente? 

«Eh, mi viene in mente la lotta tra Roche e Visentini. E quindi da questo punto di vista è stato un Giro particolarmente segnato da quel dualismo, che purtroppo è andato anche oltre il puro agonismo, coinvolgendo anche in maniera abbastanza importante pubblico, giornalisti. Tenuto conto che i due facevano parte della stessa squadra, è chiaro che questo dualismo segnò…». 

- Non solo: Visentini era maglia rosa, aveva vinto il Giro l’anno prima e, dopo la vittoriosa cronometro di San Marino, sembrava in pieno controllo della corsa… 

«Però il Giro è fatto anche di queste cose. È la strada che definisce i ruoli. Credo quindi che Roche non abbia rubato niente. Forse, se uno lo vuole accusare di qualcosa, è magari di non aver saputo accettare il ruolo di secondo; ma probabilmente si sentiva talmente bene che ha voluto giocare le sue carte fino in fondo». 

- Quindi per te non fu un tradimento ma una scelta di corsa, di ambizione, insomma di ciclismo? Perché poi Roche quell’anno vinse anche il Tour e il mondiale. 

«Non mi sento, con tutti i miei limiti, di parlare di tradimento. Perché credo che un corridore, un campione, quando gareggia, cerca di dare il massimo. E quindi non si può pensare a una cosa di questo tipo». 

- Prima parlavamo di Giro «difficile» anche dal punto di vista organizzativo e dell’ordine pubblico. Cronisti e inviati italiani furono abbastanza partigiani e all’epoca montò una campagna mediatica abbastanza violenta. Si parlò appunto di tradimento, o presunto tale, e Roche – dopo la tappa di Sappada – fu accolto molto male dalla parte più becera del tifo. Gli tiravano contro di tutto, pezzi di carne per fargli capire che lo avrebbero fatto a brandelli, gli sputavano addosso del vino rosso misto a riso… Vincenzo lì che misure prese per tutelare il corridore, che poi a ogni fine tappa era sempre scortato dai carabinieri? 

«Si presero tutte le misure possibili. Ciò che accadde, è chiaro, fu sintomo d’inciviltà, di maleducazione, esecrabile in assoluto. Però proprio di fronte a questi episodi, è chiaro che chi organizza cerca di assumere tutte le possibili soluzioni per proteggere l’atleta, quindi credo sia stato fatto di tutto perché la corsa potesse avere una sua regolarità. Di questo sono certo». 

- Vincenzo è passato alla storia anche come il grande “rivoluzionario” del Giro. Era però anche molto sensibile, ovviamente, ai campioni italiani. Quando in auge c’era il giovane Baronchelli, uno scalatore puro, disegnava Giri molto duri; poi optò per Giri più “morbidi”, e con tanti abbuoni, forse persino sproporzionati rispetto all’economia della corsa, per favorire i cosiddetti “Sceriffi” del gruppo: Moser e Saronni. E anche su certe sue decisioni di corsa non mancarono le polemiche. Penso per esempio all’annullamento dello Stelvio nell’edizione dell’84… 

«Fu annullata la tappa delle Tre Cime di Lavaredo [al Giro del 1967, nda]. Io ho in mente quella di Gimondi, annullata per le spinte e fu una cosa abbastanza scandalosa». 

- Ricorderai, sempre al Giro ’84, anche l’elicottero della Rai la cui scia, s’insinuò, favorì Moser nella crono conclusiva di Verona. Fignon non l’ha mai mandata giù. Vincenzo come visse quegli episodi? 

«Non posso rispondere per mio padre. Però, da organizzatore, la cosa cui lui teneva di fondo era la correttezza della corsa. Tutto il resto credo siano fantasie». 

- Oltre alla correttezza della corsa, è prioritaria la sicurezza dei corridori. Un aspetto, questo, spesso trascurato nelle analisi-post sull’operato di Torriani. 

«Oltre alla sicurezza, devo – con estrema sincerità – dire questo: che vincesse un italiano o uno straniero a lui non interessava. Chiaro, se vinceva un italiano, faceva più piacere, però l’importante era che il vincitore fosse il degno vincitore del Giro. Questo è l’obiettivo dell’organizzatore. Per dire, il risultato cui lui era più legato: nel libro L’ultimo patron c’è una bellissima foto che ritrae papà in mezzo a Andrew Hampsten e Dimitri Konyshev, quindi il primo americano vincitore del Giro, nel 1988 a Vittorio Veneto, e nella stessa situazione il vincitore del Giro d’Italia dilettanti». 

- Uno statunitense e un sovietico, per di più a fine Guerra Fredda: il Muro di Berlino sarebbe caduto di lì a un anno… 

«E quindi lui in mezzo a questi due campioni, sul palco, proprio come simbolo di ciò che il ciclismo poteva essere, e il “valore” del Giro in quel senso». 

- Oggi sarebbe improponibile un Torriani così impermeabile a influenze esterne, sia politiche sia economico-finanziarie. Basti pensare a quante e quali peripezie dovette attraversare per portare il Giro a Venezia, con quel ponte fatto di barche nella crono di San Marco… 

«Sarebbe impossibile. Assolutamente». 

- Oggi c’è tanta, forse troppa, “economia & finanza” dietro e dentro un grande evento come il Giro. Vincenzo ha mai dovuto subire forti pressioni, o garantire grossi incentivi, per portare al Giro un grande campione? Magari con relative polemiche, com’è accaduto al direttore Mauro Vegni nel 2018, per i presunti due milioni di euro con cui la Rcs avrebbe convinto Chris Froome a partecipare alla corsa rosa? 

«Mio padre ha sempre avuto un filo diretto con i direttori della Gazzetta, soprattutto con Gino Palumbo e Candido Cannavò. Come responsabile unico della manifestazione – e da qui anche il discorso del patron – lui aveva carta bianca, come organizzatore, per avere alla partenza del Giro i campioni. E quindi, da questo punto di vista, ha sempre cercato di portare in corsa i migliori. Questo era l’obiettivo che si prefiggeva e che, credo, in qualche modo sia riuscito ad ottenere, portando in alto anche il livello del Giro d’Italia». 

- Per raggiungerlo, quell’obiettivo, ha dovuto anche usare – legittimamente, intendiamoci – quel tipo di strategia? Cioè: all’epoca Bernard Hinault o altri campioni al Giro sarebbero venuti comunque? 

«Per fare un esempio, Hinault è venuto in rappresentanza, e con la maglia, della Renault. Non avendo seguìto, io non ho motivi per… Però è chiaro che la Renault Italia si sarà fatta carico dell’ingaggio del campione». 

- Questa era un’altra grande forza di Vincenzo? Riuscire a coinvolgere i grandi sponsor? 

«E questa è la cosa più incredibile, perché parliamo di quarant’anni fa e quindi di tempi ben diversi. Però oltre al carisma, che indubbiamente mio papà aveva, la sua grande forza era avere una miriade di contatti umani “personali” che gli consentivano di arrivare a bomba. E quindi: ho bisogno per il problema dell’arrivo, parla col sindaco; ho bisogno… parla col presidente del Consiglio; ho bisogno… parla col prefetto. Cioè: lui andava direttamente da chi poteva dargli le autorizzazioni per ottenere certe cose. Mio papà era un uomo che non amava la burocrazia. E quindi in un mondo come quello attuale, nel quale determinati passaggi sono necessari, io non me lo vedo… No…». 

- In quanto a burocrazia, però, eravamo pur sempre in Italia. E quindi come faceva ad arrivare direttamente a quelle cariche così importanti? 

«Telefonava. Aveva saputo acquisire una rete di contatti che era la sua forza personale, per cui se telefonava al sindaco di Canicattì, il sindaco di Canicattì rispondeva. [Mio papà] non era filtrato, alzava il telefono e rispondevano non dico sull’attenti ma quasi…». 

- È vero che, specie all’inizio, quando ricevette l’incarico da Armando Cougnet, di ciclismo lui non era così appassionato? 

«Assolutamente vero. La sua prima corsa organizzata, quando ancora si occupava dell’Azione Cattolica, era il Palio di Sant’Ambrogio, maratona a piedi. Però fu lì, in quel contesto, che fu notato – credo – per le sue capacità organizzative. Cougnet lo chiamò a collaborare, lui iniziò ad affiancarlo nel ’46 poi, dall’anno successivo, entrò a pieno titolo». 

- Le sue qualità di organizzatore erano innate, le aveva proprio nel dna? 

«Sì. E poi indubbiamente il Giro diventò la sua creatura. E quindi, a quel punto lì, fu non dico amore a prima vista ma quasi». 

- Di quell’amore avete un po’ pagato voi lo scotto, in famiglia? Mi riferisco alle sue assenze, alla lontananza… 

«“Pagato” forse è un po’ troppo, però eravamo anche noi presi, trascinati. Io, quando ancora andavo a scuola, sognavo sempre… aspettavo l’ultima settimana, perché l’ultima settimana riuscivo a seguire qualche tappa. E il mio sogno era quello d’infilarmi nella sua auto, di seguire [con lui] una tappa. Qualche volta mi è riuscito. Mi ricordo, indimenticabile, il Giro della “Cavalcata dei Monti Pallidi”[1], adesso non ricordo più l’anno [era il 1962, nda], però quel su e giù, salite e discese, sono emozioni che uno si porta dentro per tutta la vita». 

- Invece dal punto di vista affettivo? A casa vi sarà mancato, perché era sempre via… 

«Papà aveva delle fasi. Il mese prima della partenza del Giro eravamo quasi non dico sull’intrattabile ma su quei livelli. Perché erano proprio come i mesi precedenti le doglie del parto e quindi da questo punto di vista bisognava anche molto pazientare. Poi, una volta che il Giro partiva, mia mamma gli predisponeva i bagagli, gli “abiti di scena” a seconda delle varie situazioni eccetera. Partiva il Giro ed era come un liberarsi, no? E quindi a quel punto lì mia mamma si rilassava. È chiaro che tutti noi avevamo l’appuntamento fisso televisivo che non perdevamo mai. Poi quando c’era l’occasione, agli arrivi, la famiglia si è sempre riunita. E in qualche altra occasione, quando si poteva, si poteva anche seguire qualche tappa». 

- Con tua mamma sempre a fare da collante di tutta la famiglia. 

«Mia mamma sì, però sempre molto discreta, mai in primo piano». 

- Tornando al Giro ’87, che ricordi hai, anche solo da spettatore esterno di quel duello tra Roche e Visentini? 

«I ricordi che ho sono quelli di un Giro combattuto. Visentini era il campione italiano e avendo vinto il Giro precedente c’era quindi un’attenzione particolare, sperando che potesse ripetersi, no? Però nello stesso tempo mi ricordo che mi spiaceva molto vedere certe reazioni nei confronti di Roche, perché non le ritenevo giuste. Credo che la vittoria del Giro di quell’anno sia stata meritata. Mi ricordo che proprio relativamente al Giro dell’87, il caporedattore di allora della Gazzetta, Giuseppe Castelnovi, da me interpellato, una volta finito il Giro sentì [il direttore] Gino Palumbo e mi disse: “Guarda che il direttore m’ha detto di non usare la parola “Stefano” perché la userà lui nel titolo che metterà domani sulla Gazzetta. Perché è importante? Perché d’ora in poi noi lo chiameremo Stefano anziché Stephen”. Questo per dare a un campione probabilmente bistrattato un affetto che probabilmente non aveva avuto e che la Gazzetta, con questo significato, intendeva testimoniargli». 

- E con i diesse delle varie squadre Vincenzo che rapporti aveva? Per esempio con Davide Boifava, per citarne uno rimasto in carovana per decenni, prima come corridore poi come diesse e infine come team manager? 

«Con Boifava non ti so rispondere. Però lui con tutti i direttori sportivi aveva un ottimo rapporto. Capiva che erano i referenti indispensabili nei rapporti con i corridori. Rapporti cui ha sempre tenuto, questo è importante, nei confronti sia dei corridori sia dei direttori sportivi; lui voleva avere un’equidistanza, cioè il numero uno o l’ultimo arrivato dovevano avere lo stesso tipo di trattamento. Questo è importante sottolinearlo perché rientra nell’dna dell’organizzatore. Questa è una cosa che ci tengo a dire». 

- Dal tuo punto di vista, perché Visentini poi si è così disamorato dell’ambiente nel quale invece tuo papà Vincenzo ha vissuto in pratica mezzo secolo? 

«Eh, questo bisognerebbe chiederglielo a lui. Non so rispondere. Probabilmente questa sconfitta gli è rimasta dentro, fin troppo. E poi non dimentichiamo che lui in famiglia aveva un’attività imprenditoriale ben avviata cui ovviamente magari ha poi dedicato poi tutto se stesso». 

- Qual è il Giro che a Vincenzo ha dato più soddisfazione? E quale invece non dico che l’abbia deluso ma che magari gli ha riservato più preoccupazioni che gioie? 

«Al di là di Venezia [nel 1978] che indubbiamente è una “tappa” fondamentale, il Giro partito nel ’73 da Verviers [in Belgio] per lui è stato un punto fermo nella sua carriera di organizzatore. Perché il suo sogno è sempre stato quello del Giro d’Europa». 

- Quindi l’edizione del ’73 è stata una prima bozza di quell’idea rimasta poi sulla carta? 

«Nel ’73 la partenza da Verviers, raggiungendo quelle località in cui si fece il primo accordo a livello europeo di Maastricht eccetera, per lui fu una pietra miliare di un suo sogno che poi non si è avverato. L’ho scritto nel libro: lui avrebbe voluto addirittura fare un Giro d’Europa mettendo insieme Tour, Vuelta, Giro d’Italia, Giro di Svizzera; e riuscire quindi a trovare una formula di questo tipo che, se mi passi l’espressione, si collega molto alla Champions League del calcio. Delle cose che non è riuscito a realizzare, una fu lì lì per essere realizzata: la famosa cronometro Berlino Ovest-Berlino Est». 

- E che invece riuscì al Tour proprio nell’87, anche se “solo” a Berlino Ovest… 

«Lui cercò di realizzarla due anni prima della caduta del Muro di Berlino. Le cose sembravano sul punto di poter essere fattibili, intervenne anche l’allora presidente del Consiglio, [Giulio] Andreotti, però ci fu qualcosa a livello diplomatico che all’ultimo momento non la rese possibile». 

- Come mai invece ci riuscì il Tour, e proprio nel 1987, quindi due anni prima della Caduta del Muro, con la Grand Départ da Berlino, seppure solo nella parte Ovest? Potenza del milione di sterline versato dagli organizzatori? 

«Questo non te lo so dire. Io so solo che per lui fu un po’ un dispiacere perché ci teneva tantissimo. Anche se poi l’anno dopo, il 1988, per il Giro con il trionfo di Hampsten, il Gavia, fu un anno decisamente importante». 

- E lì, col Gavia, Vincenzo rischiò molto. La sicurezza e l’incolumità dei corridori furono messe a repentaglio; forse gli servì da lezione per l’anno successivo… 

«In questo caso varrebbe la pena leggere quel pezzo che Bartali scrisse allora, credo, sull’Avvenire, e nel quale, da corridore, dice: sì, è vero, le condizioni erano abbastanza proibitive però non si può pensare di far correre una gara sapendo, sin dalla partenza, quali sono le condizioni, con magliette di nylon e non avere i guanti di protezione. Diciamo che i corridori furono mandati un po’ allo sbaraglio, quindi…». 

- Gli americani della 7-Eleven-Hoonved, la squadra di Andrew Hampsten, la mattina stessa, alla partenza, ebbero l’accortezza di svuotare i negozi di abbigliamento invernale e quindi furono i meno impreparati alla tempesta prevista e poi puntualmente arrivata… 

«È probabile che sia andata così però la tregenda, o comunque la parte relativa al clima, è sempre stato un elemento di connotazione delle tappe significative del Giro d’Italia. Chiaramente con tutte le sue sofferenze. Però credo che non si sia mai travalicato il limite. In qualche occasione la corsa fu bloccata, come sul Bondone e quant’altro, anche perché lì i limiti si erano raggiunti. Però credo che il livello di rischio sia sempre stato una delle componenti che mio papà mai ha sottovalutato. Anche la prima volta del Gavia, nel 1960: l’allora direttore Ambrosini era contrario, lui a tutti i costi volle farlo. Però lui fece una polizza con una compagnia di assicurazioni, perché quel giorno lì chi poteva andare sulla salita del Gavia? Solo le auto del seguito, quelle autorizzate, giudici, direttori sportivi eccetera. Se per caso qualcuno di non autorizzato si fosse trovato sul percorso, e quella macchina si fosse fermata, o avesse creato dei problemi, lui aveva l’autorizzazione di farla scendere, o di spostarla e metterla fuori, giù dalla sede stradale. E quindi, anche dal punto di vista assicurativo, aveva preso questa precauzione, cioè: se qualcuno mi blocca, quel giorno lì, aveva la possibilità di buttarla fuori. Non so se mi spiego… Certo, [sorride, nda] non ci fu bisogno, quella tappa è tuttora nella memoria della gente, come la cavalcata di Imerio Massignan, anche se poi quel Giro non fu lui a vincerlo. La tappa la vinse Gaul. Massignan forò due volte in discesa, ma il protagonista assoluto che rimane nella storia è lui, Imerio». 

- Un po’ come accadde nell’88: Hampsten vinse il Giro e Breukink la tappa del Gavia [con 8” sullo stesso Hampsten, secondo al traguardo e nuova maglia rosa, nda]… 

«Esatto. E senza guanti». [in realtà aveva quelli da corsa, a mezze dita, nda] 

- C’è stato un campione cui Vincenzo era rimasto più affezionato? 

«Il campione, lì non ho difficoltà. Al di là del suo rapporto di equidistanza con tutti i campioni, lui era estremamente in sintonia con due: Gino Bartali e Fiorenzo Magni». 

- Anche se con Magni, visti i caratteri fumantini, qualche scintilla… 

«Sì, sì. Però in realtà si stimavano tantissimo. Così con Alfredo Martini. Quando c’è quel rapporto di sintonia, e lo testimoniano anche le figlie di Fiorenzo, papà era capace di svegliare Magni alle cinque del mattino per chiedergli un parere: eh, scusa [ne imita la voce, nda] ti disturbo, ti ho svegliato? “Eeeeh, ti ho svegliato…” rispondeva l’altro, da buon toscano. Però non c’erano paraventi insomma. Con Gino Bartali invece il rapporto fu tale che coinvolse proprio l’aspetto umano, perché i valori in cui credevano li accomunavano moltissimo, l’esperienza di Bartali con l’Azione Cattolica…». 

- Tuo papà era molto cattolico? 

«Sì. E ha cercato nella propria vita di dare una testimonianza in questo senso. Il paradosso fu quando mio papà quasi rischiò di cambiar mestiere: quando, nel 1963, si presentò come candidato alle elezioni politiche nelle liste della Democrazia Cristiana. Fu convinto a presentarsi perché era apprezzato per le sue doti organizzative…». 

- …e certo anche per la sua popolarità… 

«E si presentò. Mi ricordo, avrò avuto dieci-dodici anni, non so, andavamo fuori dalle chiese a distribuire volantini “Votate Torriani” eccetera, però cosa successe? Che ai comizi mio papà era affiancato molto spesso da Gino Bartali, che gli dava manforte per questa candidatura. La faccio breve: quando c’è stato lo spoglio delle schede mio papà ha perso per pochissimo, credo quattrocento voti, e non entrò in Parlamento. Si seppe poi che molti di quei voti erano andati a Bartali. E quindi la gente che magari lo vedeva ai comizi insieme a Bartali, scriveva anche il nome Bartali. Quindi mio papà non fu eletto forse perché i voti erano andati a Bartali [ridacchia, nda]. Ma quella fu la sua salvezza, perché conoscendo il suo carattere, la sua personalità, non credo che lui potesse inserirsi in un sistema politico di quel tipo, con tutta quella burocrazia… E quindi è un bene che sia andata così». 

- I tempi sono troppo cambiati, ma vedi una linea di continuità, un fil rouge, da Torriani a Castellano fino a Vegni, una sorta di sua eredità tecnica? E infine c’è oggi un Torriani? Potrebbe esserlo Christian Prudhomme al Tour o non ha sufficiente carisma? 

«Se un filo c’è stato, è con Carmine Castellano, perché è stato mio papà a sceglierselo come braccio destro. E per qualche tempo ne ha proseguito lui l’opera. Però già all’epoca di Castellano erano cambiate le strutture, cioè quello che in qualche modo mio papà, da patron, quindi, della corsa, riassumeva nella sua persona – onori, oneri, responsabilità organizzative – dopo – come poi è accaduto anche nel resto della società – le competenze sono state suddivise. E quindi ognuno aveva un proprio ruolo da seguire, da portare avanti. È chiaro che anche oggi chi dirige il Giro deve avere il fiuto dell’organizzatore, però, obiettivamente, le condizioni sono cambiate». 

- Vincenzo amava circondarsi più di teste pensanti che di yes-men

«Sicuramente sì. Partiamo da un presupposto: l’ufficio organizzazione del Giro d’Italia, situato, nei tempi storici, in via Vitruvio a Milano, contava, durante il pre-Giro, di cinque persone. E quindi pensiamo…». 

- …a che cosa volesse dire all’epoca… 

«Poi, durante il Giro queste si “moltiplicavano”, per via dei collaboratori. Però la forza organizzativa stava proprio in quello che dicevi prima; non tanto nelle persone che in ufficio… Certo, quelle erano i fidati – mi ricordo, per dire, [Giuseppe] Figini, [Irene “Isa”] Vieceli, [Carletto] Sironi – quindi coloro che gestivano proprio l’ufficio e quindi persone di estrema fiducia, e poi i suoi contatti personali in tutta l’Italia. Questa era la ricchezza, la forza di mio papà. Perché se lui aveva bisogno di risolvere un problema in una località, chiamava quella persona, quella persona gli rispondeva subito al telefono, nonostante non ci fossero i cellulari… E quindi lui aveva questa capacità di contatti diretti su tutto il territorio e che erano la sua forza». 


NOTA:
[1] “La Cavalcata dei Monti Pallidi”: così viene ricordato il tappone dolomitico del 2 giugno 1962, la Belluno-Moena, che prevedeva Passo Duran, Forcella Staulanza, Passo Cereda e Passo Rolle. Un’improvvisa bufera di neve rese impervia la scalata del Rolle e Torriani anticipò il traguardo in vetta, dopo 160 km: primo Vincenzo Meco con 3’30” su Ercole Baldini e Imerio Massignan. La frase con cui il patron giustificò la propria decisione fa riferimento alla sua passione per l’opera: «Alla Cavalcata delle Valchirie ho sempre preferito l’Incompiuta».


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