L’eredità di Raschi



gazzetta.it, 3 gennaio 2009

Buttata lì. Come una sfida, una scommessa, un sogno. Come una cosa che andava fatta. Come un debito. Dopo il “Ronda di notte”, ci voleva un “Ronda di giorno”. “Ronda di notte” era una raccolta di antichi pezzi scritti da Bruno Raschi. Li chiamiamo così, gli articoli: pezzi. E pezzo dopo pezzo, incastrati, ne veniva fuori un Giro, un Tour, un ciclismo, il ciclismo degli anni Sessanta, garibaldino, il ciclismo degli anni Settanta, farmaceutico, il ciclismo dei primi anni Ottanta, chimico.

Ma sono quelle cose che si dicono quasi senza pensarci. Un libro è un libro. Un libro di Bruno Raschi è ancora di più. Perché Raschi non voleva scrivere libri, aveva pudore e rispetto, sosteneva che un giornale dura un giorno, anche meno, invece un libro dura tutta la vita, e se commetti un errore – un errore di valutazione – ne rimani colpevole per sempre.

Di solito le sfide si lanciano ma non si raccolgono, i sogni non si traducono in baci o libri, i debiti si rimandano. Stavolta no. Giuseppe Castelnovi, detto Bepi, detto Castel, sarebbe stato un passista-scalatore se, invece che sulla tastiera di una macchina per scrivere, avesse pedalato su un’Atala o su una Bianchi. Ha affrontato i saliscendi dell’archivio della Gazzetta dello Sport, ha ripercorso tremila (circa) pezzi di Raschi, ne ha scelti una sessantina, li ha inquadrati storicamente, insomma ha creato la sua “Ronda di giorno”. Così poi toccava a me: scrivere una storia di Raschi, chi era, che cosa faceva, come parlava e come scriveva. Me la caverò in tre o quattro cartelle, ho pensato, rimandando l’impegno fino al momento in cui l’urgenza faceva scattare e salire l’adrenalina. Cioè fuori tempo massimo. Cioè dopo la scadenza concessa dall’editore.

Raschi ha lavorato in Gazzetta dal 1959 al 1983. L’ho visto, sentito e conosciuto in tv: al Processo alla tappa era la spalla di Sergio Zavoli, era la voce della Gazzetta, era opinionista e critico, era – con vent’anni di anticipo – il giornalista televisivo. Giacca e cravatta, sempre. Impermeabile, spesso. Una bella voce impostata, corroborata da sigarette e caffè, e da un certo lirismo dannunziano. Non s’inceppava mai. Di più: mai un’incertezza.

Ho cominciato a telefonare a giornalisti e corridori. Chi gli aveva lavorato vicino, insieme, accanto, sotto. E chi lo aveva conosciuto sulla strada, sulla stessa strada, anche se lui la viveva su quattro ruote e i suoi protagonisti a due. Un ricordo, una testimonianza, un incontro, un aneddoto, una curiosità: non chiedevo altro. Immediatamente mi sono accorto che avrei avuto bisogno non di tre o quattro cartelle ma di trenta o quaranta, e non di due o tre giorni ma di due o tre settimane. Poi, per non fare danni, di mio non ho messo nulla. Mi sono limitato a riportare i virgolettati, e incastrarli, abbinarli, alternarli. Come se fossero tutti lì, i giornalisti e i corridori, e soprattutto gli autisti – che in un certo senso sono, allo stesso tempo, giornalisti e corridori – a raccontare. Cose così.

“Macchina per scrivere. Foglio bianco, cartella prestampata, sopra la scritta ‘La Gazzetta dello Sport’. Si accendeva la sigaretta, americana: e tirava, come se l’inizio del pezzo fosse lì, in quello sbriciolamento di foglie di tabacco che lui mandava in fumo. Poi attaccava” (Carletto Pierelli, autista).

“Non era una macchina per scrivere, era una pianola. La sua pianola. Raschi non batteva ma componeva, non scriveva ma suonava. Spazio 1, il minimo indispensabile perché una riga non andasse sull’altra, il massimo possibile per risparmiare i fogli. Finito, senza neanche leggere, rileggere, correggere, senza farsi assalire da quei mille dubbi o ripensamenti che tormentano tutti i giornalisti ‘normali’, dettava” (Franco Rubis, grafico). 

“In piazza Cavour la Gazzetta occupava un piano di un vecchio edificio. C’era un lunghissimo, enorme corridoio, su cui si aprivano le porte delle varie redazioni e di certi uffici. In orario post-chiusura, soprattutto di domenica, il corridoio si trasformava in un campo da calcio e s’ingaggiavano accanite partitelle, antesignane del calcio a 5. Patapim-patapam. Finché Raschi si affacciava alla sua porta e, con aria sconsolata, ci ammoniva: ‘Vi prego’” (Franco Arturi, giornalista).

“Tappa del Giro d’Italia, lunga e assolata, dalla Puglia alla Basilicata. C’ero anch’io, quel giorno, sulla macchina con Torriani e Raschi. Torriani si era appisolato e Raschi architettò uno scherzo. In fuga c’era Domingo Perurena, campione spagnolo, maglia con tre fasce gialla rossa e nera, e senza pubblicità, senza sponsor. Raschi scosse Torriani, fingendosi allarmato: ‘Chi è questo cicloturista in mezzo alla corsa?’. E Torriani, svegliato di soprassalto, si proiettò fuori dal tettuccio, prese il fischietto e ci soffiò dentro, poi si sbracciò e urlò: ‘Via, via, via!’. Perurena lo guardò allibito” (Carmine Castellano, direttore di corsa del Giro dopo l’era di Vincenzo Torriani). 

“Di Raschi, della sua onestà, ricordo un episodio alle Tre Cime di Lavaredo. Centinaia di alpini si erano distribuiti lungo le rampe finali per godersi una giornata da tregenda. Il terreno era melma, scrosci d’acqua, nubi cupe e gonfie. Presi da un empito, non so se più compassionevole o alcolico, cominciarono a passarsi da sellino a sellino i corridori stremati e fu uno scempio sportivo. Al Processo, nonostante che Gimondi quel giorno si fosse garantito la vittoria finale, chiesi che la tappa venisse annullata. Torriani con le mani nei capelli, la giuria divisa, un nazionalismo molto tollerante che qua e là montava: ebbi con me, subito, Raschi, uomo-simbolo della Gazzetta dello Sport, cioè del giornale organizzatore. Era leale – direbbe un’epigrafe d’altri tempi – fino al sacrificio” (Sergio Zavoli, giornalista).

Il libro s’intitola “Bella è la sera”, è stato pubblicato dalla EditVallardi, costa 15 euro.


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