Martinello: «Oggi il ciclismo ha bisogno di maestri veri»



Silvio Martinello: «Basta con quei criminali che abbindolano i giovani e più controlli a sorpresa»

di Stefano Edel
Il Mattino di Padova, 21 gennaio 2013

Il “professore”, come lo definì il compianto Candido Cannavò sulla Gazzetta dello Sport dopo l’impresa di Atlanta 1996, è un distinto signore che ha appena compiuto (due giorni fa) 50 anni, gestisce un avviato Fitness Beauty Center  (Atletico) a Tencarola di Selvazzano e collabora con la Rai, fornendo il suo apporto tecnico in occasione dei grandi eventi delle due ruote, come Giro d’Italia, Tour de France, Mondiali e le “classiche” internazionali di maggior caratura. 

Eppure Silvio Martinello, ritiratosi nel 2003, allora quarantenne, dalle scene del ciclismo, dopo 18 anni di attività agonistica, sembra non aver patito l’usura del tempo: volto da eterno ragazzo, spirito giovanile, papà di tre figli, uno dei quali ha ereditato la passione per la bicicletta e corre da dilettante per un team austriaco, è attivo come non mai, sempre a contatto con quel mondo che gli appartiene come una seconda pelle e da cui probabilmente non si staccherà più. 

È una delle bandiere dello sport padovano, campione olimpico e sei volte iridato (compreso il mondiale militare), tutti titoli conquistati in pista, dove è stato a lungo il numero uno. E dove non è ancora spuntato, purtroppo, il suo erede. 

Martinello, ha tagliato il traguardo del mezzo secolo di vita. Fermandosi un attimo a riflettere su ciò che è stato e su ciò che poteva essere, che cosa le viene subito in mente? 

«I tempi in cui ero ragazzino, parlo di 14-15 anni, quando mi sono avvicinato a questo sport. Prima giocavo a calcio, attaccante della Polisportiva Tencarola. Quell’anno arrivò un allenatore che non mi vedeva e contemporaneamente venne ad abitare vicino a casa mia Gerardo Lucchini, purtroppo mancato tre mesi fa, un toscano che gareggiava per la Cicli Morello, dal nome del titolare di un negozio di via Sorio. Fui così attratto dalla sua bici che convinsi mio padre Luciano (oggi 77 anni, ndr) a regalarmene una. Ricordo che la pagò 140 mila lire ed era usata. Gerardo mi portò con sé alla Cicli Morello e così il sabato giocavo a calcio, quando mi andava bene, e la domenica correvo sulle due ruote con gli esordienti. Solo che non combinavo nulla, né da una parte né dall’altra. Ero esile, alla fine scelsi di fare il ciclista. Papà si sacrificava, mi portava in giro, ma risultati zero. Capivo il suo stato d’animo, manco un piazzamento di prestigio! E un bel giorno, non potendomi accompagnare, andai a Tavo con il genitore di un mio compagno di squadra. Mi diedero la coppa come corridore più sfortunato, ultimo fra tutti i partecipanti. Tornai a casa e mamma Marcella, visto che finalmente avevo preso qualcosa d’importante, mi ricoprì di elogi volendo sapere come mi fossi piazzato. Dato che i giornali riportavano sempre i primi 10 di ogni categoria nell’ordine d’arrivo, risposi: “undicesimo”. Era una bugia, ovvio. Resistei due giorni, poi confessai la verità. Ma quello fu il mio primo premio. Ecco l’immagine più nitida che affiora dai ricordi». 

Come andò successivamente? 

«Ero convinto di me stesso e delle mie qualità. Capii che nel gruppo potevo starci, e iniziai di fatto nel 1979 come allievo. Primo successo a Merlara, volata a due, e da quel momento non mi fermai più, altri quattro primi posti nelle successive quattro domeniche, e uno di questi podi fu nella Coppa OM, una classica del calendario della mia categoria. Quel giorno, passando davanti al bar “dai Veneziani” a Tencarola, dove sapevo si trovavano i miei amici, scattai proprio davanti a loro, lasciando il gruppetto di 7-8 fuggitivi che erano in testa, e arrivai solitario al traguardo. La gara era organizzata dalla Padovani, e Olimpio Rigoni mi portò da suo papà Severino, un grande personaggio. Mi presero negli juniores, che seguiva Olimpio, mentre il papà aveva la squadra di dilettanti. Ricordo benissimo che, quando si trattò di versare il premio di valorizzazione per i punteggi che avevo acquisito da allievo alla Cicli Morello, Rigoni senior sbottò: “Un milione e 80 mila lire per questo qui?!”. Una reazione che fece arrabbiare mio padre: “Severino – gli disse – "questo qui" è pur sempre una persona!”. Alla fine pagò e mi portò a Chiesanuova, dove c’era la Galtarossa: lì si trovava la sede della Padovani e mi diede una bici usata, così come divise e calzoncini. Divenni il suo pupillo, vissi due anni straordinari con lui. Alla fine del 1983 ci fu il distacco, molto traumatico a dire il vero, ma la Padovani non contava su sponsor e io avevo abbandonato il liceo classico (studiava al Tito Livio, ndr) per dedicarmi anima e corpo al ciclismo. Accettai l’offerta della Bonlube Gulf, per la quale gareggiai due anni, e poi passai al professionismo nel 1986». 

Diciotto anni sulle strade e nei velodromi del mondo, gioie e delusioni, ma anche un bagaglio tecnico eccellente da esibire. Qual è l’immagine più bella a cui si è legato? 

«La medaglia d’oro di Atlanta. Avevo partecipato ai Giochi di Los Angeles, nel 1984, con il quartetto dell’inseguimento a squadre. Finimmo quarti, una delusione, anche perché, per il boicottaggio dei Paesi dell’Est, era un’Olimpiade per noi abbordabile. Venti minuti dopo quella finale persa per il bronzo, mi toccava la gara a punti. Immaginatevi con che stato d’animo mi presentai al via. Andò male anche lì. L’anno dopo, ai Mondiali di Bassano del Grappa, con tutti gli altri squadroni presenti, vincemmo l’oro, e l’amarezza per ciò che avrei potuto fare in America si accentuò. Pensai di non avere più una simile possibilità, invece nel 1996 l’occasione si ripresentò e la colsi al balzo. Una vittoria che cercai con grande determinazione, dopo che l’anno prima, a Bogotá, mi ero laureato campione del mondo. Ero il favorito, disputai la gara perfetta e fu lì che Cannavò mi affibiò l’appellativo di “professore”. Ci avevo messo tutto: tattica, intelligenza, spunto veloce, resistenza e capacità di cogliere i momenti giusti. Addirittura nel finale riuscii a godermi gli ultimi 15-20 giri quasi come se fossi in passerella, talmente avevo dominato in lungo e in largo». 

C’è anche un rammarico, immaginiamo. 

«Sì, se possiamo definirlo tale. Ho vinto tappe alla Vuelta e al Giro, ma non al Tour de France, e questo mi manca. Sono salito sul podio con diversi secondi e terzi posti, mai primo». 

Il rapporto con la famiglia? 

«Fondamentale. Sia con i miei genitori (è il maggiore di tre fratelli, ndr), sia quando me la sono costruita io. Ho avuto la fortuna di trovare una donna che mi ha assecondato in tutto e che ha allevato i nostri tre figli con grande amore. Una donna matura, intelligente, che mi ha dato tantissimo. E che ora lavora con me, al Centro fitness che abbiamo aperto, e alla quale si affianca Stefania Martini, che ci dà una grossa mano nella responsabilità della gestione della struttura». 

Parliamo dei figli. «Nicolò ha 23 anni, studia Economia all’Università e corre come dilettante. È un passista scalatore, tutto l’opposto di suo padre, ci mette grandissimo impegno ed è molto determinato. Non è semplice per lui comunque, viene sempre accostato a me. In ogni caso, questa è la stagione decisiva: o sfonda oppure è bene che pensi ad altro. Luca, 21 anni, è iscritto a Lettere e Filosofia: ha smesso con il calcio due anni fa, un peccato perché aveva classe da vendere, ma poca voglia di sacrificarsi. Francesca, 20 anni, è un talento dell’equitazione. Dei tre lo spirito agonistico e la voglia di arrivare più forti sono i suoi. Ha un futuro in questo settore, andrà a lavorare lì». 

Atletico e la collaborazione con la Rai. È sempre super impegnato. 

«Ad un certo punto ho dovuto prendere una decisione sul mio futuro. La palestra era un’idea sviluppatasi nel 1997: è diventata concreta nel 1999. Qui lavorano 30 persone e viaggiamo sui 1.400 soci a stagione. Posso dire che, nonostante il momento economico difficile, riusciamo a stare in modo interessante sul mercato. Quanto alla Rai, il rapporto è nato nel 2003, appena smisi di correre (a febbraio). All’inizio mi venivano chieste 20-25 prestazioni sui luoghi delle varie gare, adesso siamo arrivati a 150 nel 2012. Mi piace tantissimo, ma richiede un notevole impegno. C’è stata una parentesi anche in Federazione, una grande palestra ma anche una grossa delusione. Davo fastidio evidentemente a qualcuno, non sono stato sfruttato come risorsa di questo sport ma considerato come uno che faceva ombra ad altri. Nonostante un contratto importante, un anno e mezzo dopo aver detto sì mi sono dimesso e non me ne pento affatto». 

Siamo alla fine, ma non possiamo non parlare di Armstrong e della piaga del doping. Quando se ne uscirà, sempreché se ne possa uscire? 
«È chiaro che il ciclone-Armstrong porterà ancora fango in un ambiente che da decenni deve fare i conti con il doping. Ma oggi mi concentrerei sul fatto che il ciclismo è un’altra cosa rispetto ai nostri tempi. Nel sistema attuale c’è un aspetto che stona, i controlli vengono gestiti solo dai vertici dell’UCI (Unione Ciclistica Internazionale). C’è un uso strumentale del passaporto biologico a proposito dei prelievi eseguiti dopo le gare. L’unico deterrente, a mio modo di vedere, sono i test a sorpresa. L’altra cosa che non va è l’attività giovanile. Esistono dei criminali in giro che, non appena si passa da dilettanti a professionisti, instillano nei ragazzi idee sbagliate, cioè che solo barando si può arrivare in alto. Manca un vero sistema di controllo: il dilettante di oggi è il professionista di domani. Servono maestri di vita e di valori, non alchimisti in chimica. Credo di essere stato chiaro».

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