FOOTBALL PORTRAITS - Sir Carletto, leader silenzioso (2007)
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Con la Supercoppa Europea, l’allenatore campione d’Europa comincia la settima stagione consecutiva sulla panchina rossonera. «Vorrei essere il Ferguson del Milan», dove arrivò nel 1987. Non ditegli che lo è già
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Guerin Sportivo © (2007)
Miguel Muñoz, Giovanni Trapattoni, Johan Cruijff, Frank Rijkaard. E Carlo Ancelotti. Sono gli unici ad aver vinto la Coppa dei Campioni/Champions League sia da giocatori sia da allenatori. Già questo basterebbe a descriverne carriera e status. Che assurgono a leggendari se, come è riuscito al tecnico milanista, fai il bis rovesciando in capolavoro la stagione più difficile: quella senza preparazione per via dei preliminari di coppa, con la penalizzazione di 8 punti in campionato, la rosa falcidiata dagli infortuni (Ambrosini, Kaladze, Maldini, Nesta) e priva di Shevchenko, le esternazioni di Costacurta, i tormentoni Oddo-Ronaldo, le disquisizioni tattiche col pupillo Seedorf (a Livorno l’acme, nel Trofeo Berlusconi 2007 il fresco bis), le scorie-post-mondiale, le ansie da rivincita nella finale europea col Liverpool dopo la beffa di Istanbul 2005.
Ce ne accorgeremo tra dieci, vent’anni riguardando la semifinale di ritorno della gloriosa campagna europea 2006-07: Milan-Manchester United 3-0. La Tempesta Perfetta, per il diluvio che si abbatté sul Meazza e per l’uragano rossonero che spazzò via i Red Devils. Una partita preparata così bene, sul piano mentale prima ancora che tattico, che resterà per sempre il climax dell’interregno ancelottiano.
Eppure è un’altra l’immagine che meglio descrive il Carletto persona e allenatore. Old Trafford di Manchester, 28 maggio 2003, epilogo della sua prima Champions League: dopo l’ultimo rigore, quello segnato da Shevchenko contro la Juventus, esulta in corsa senza quasi riuscire a tirare fuori le mani dalle tasche di un vestito troppo ingessato per contenerne la sacrosanta euforia. Ancora oggi quei frame restano un flash rigenerante. Una sensazione da “giustizia è fatta”, dopo il fango spalatogli addosso ai tempi bianconeri. Quando la fetta più becera della Torino juventina lo accolse a colpi di spray sui muri: «maiale». La colpa? Il passato giallorossonero.
Da allora Ancelotti non è più una specie di Eriksson de noantri, un Perdente di successo, ma un allenatore con la maiuscola, sergente di burro col carisma di chi è stato campione. Sul campo, non alla lavagna o col megafono. Un nocchiero di buon senso, riuscito nell’impresa più difficile: schierare la squadra ad “albero di Natale”, con un centravanti più Kaká e Seedorf mezzapunta, e far credere al Presidentissimo di avergliela data vinta col diktat delle due punte fisse come da mission aziendale.
Proprio l’approccio solo apparentemente pacioso e accomodante (ma “Sheva”, Kaladze, Gilardino e l’ex designatore Stefano Tedeschi ne conoscono anche gli spigoli più puntuti), oggi riconosciuto punto di forza, è stato a lungo il presunto difetto che certa stampa più gli rinfacciava. Non potendolo attaccare sul piano tecnico-tattico né, tantomeno, su quello comportamentale, ne colpivano le umane debolezze. L’incapacità di trattenersi a tavola o di smettere di fumare (promessa mai mantenuta del dopo-Atene), quasi che le guance rubizze e la sigaretta non avessero pari dignità della mascella volitiva bisiaca o del sigaro alla viareggina. Persino il tono soft e il sopracciglio – sempre lo stesso – esageratamente inarcato di fronte a provocazioni troppo basse per chinarsi a raccoglierle. Troppo buono, dicevano. Seh. «Con un altro allenatore, non so come sarebbe finita questa strana stagione», chiosava Gattuso, per Ancelotti «l’anima di questo Milan» a Champions League ancora madida di sudore. La stessa cui il club era stato ammesso «con riserva» dalla Uefa.
Quel carattere Carlo sostiene di averlo preso dalla sua terra (ha una villa a 30 km da Piacenza), che non lascerebbe neanche per il Barcellona o il Real Madrid. Nato a Reggiolo (Reggio Emilia) il 10 giugno 1959, il figlio di Giuseppe, agricoltore, e di Cecilia, casalinga, studia per due anni al tecnico di Modena, poi dai Salesiani a Parma (ci andrà anche il suo primogenito, prima di trasferirsi a Milano). A calcio comincia a giocare nelle giovanili del Parma. Nel 1976-77 debutta in prima squadra, in Serie C. Al terzo campionato, centra da protagonista la promozione siglando, al “Menti” di Vicenza, una doppietta nel vittorioso (3-1) spareggio con la Triestina; non una sorpresa per uno che in 55 presenze ha bollato 13 volte.
In estate il tecnico Nils Liedholm brucia l’Inter e lo porta alla Roma. In nerazzurro il promettente interno aveva disputato il primo tempo di un amichevole di fine stagione proprio contro i giallorossi. Ma l’allora presidente interista Ivanoe Fraizzoli non vuole spendere i 500 milioni di lire per la comproprietà e così Ancelotti - per un miliardo - vestirà di giallorosso. Per «otto anni meravigliosi», come li ha definiti Carletto lo scorso 26 luglio, alla festa per l’ottantesimo compleanno della “Maggica”.
Il 16 settembre 1979 debutta in Serie A: Roma-Milan 0-0. Quando si dice il destino. Dopo lo storico scudetto ’83, 4 coppe Italia, 171 gare (e 12 gol) in campionato, e due gravissimi infortuni alle ginocchia (1981 e 1983), a fine 1986-87 se ne va da neo-capitano. Lo vuole il Milan, sulla cui panchina il suo mentore Liedholm è stato sostituito da Arrigo Sacchi.
All’epoca il centrocampista italiano forse più completo (dopo Marco Tardelli), porta in dote un fisico possente, geometrie e interdizione, non disgiunte da qualità tecniche di prim’ordine e da una botta da fuori che non perdona. Per referenze chiedere al portiere Buyo: Milan-Real Madrid 5-0, semifinale di ritrono della prima di due Coppa dei Campioni consecutive portate a casa dallo squadrone allenato dal Profeta di Fusignano. Ancelotti apre le danze con un terrificante destro dalla distanza. È lento, dicono, ma sa far correre la palla, che non suda. Un allenatore in campo, se l’espressione non fosse svuotata dall’abuso.
In nazionale debutta in Uruguay il 6 gennaio, nella I edizione della Copa de oro. Allo stadio del Centenario di Montevideo, nell’1-1 contro l’Olanda ci mette 7 minuti per andare in gol. L’unico di un’avventura fatta di 26 gettoni, due Mondiali e un Europeo e poca fortuna. Gli infortuni alle ginocchia (nell’81 a Roma contro la Fiorentina; nell’83 a Torino contro la Juventus) gli impediscono di partecipare al successo mondiale di Spagna 82. A Messico 86 i duemila metri di altitudine gli sono fatali nei test atletici, e Bearzot lo manda in tribuna a beneficio del debuttante settepolmoni De Napoli. A Italia 90, con Vicini Ct, gioca “solo” tre partite (compresa la finale di Bari per il terzo posto, 2-1 all’Inghilterra) per via di uno stiramento al quadricipite destro. A Euro 88, da campione d’Italia, nelle 4 gare disputate si conferma uno dei migliori centrali del continente.
Col Milan vince anche due Coppe Intercontinentali e altrettante Supercoppe Europee, più la Supercoppa di Lega prima di ritirarsi, 33enne, nel 1992, dopo il suo terzo scudetto, il secondo in rossonero. Nell’ultima partita a “San Siro” segna due reti nel 4-0 al Verona. Con una doppietta si era fatto conoscere, con un’altra si congeda. Il cerchio si chiude.
Nel 1992 il Ct Sacchi lo vuole in azzurro per fargli da secondo, il piazzamento a Usa 94 della più brutta nazionale italiana di sempre. La “prima in finale senza il libero”, il vanto dell’Ayatollah romagnolo. “La prima senza attaccanti di ruolo”, lo “j’accuse” bearzottiano. Dopo tre anni, Ancelotti vuol camminare con le proprie gambe. Alla Reggiana, appena scesa in B a forza di esoneri: Pippo Marchioro, Enzo Ferrari, Cesare Vitale. Partenza disastrosa, ma il presidente Loris Fantinel non lo esonera. E a fine torneo (chiuso al quarto posto, davanti alla Salernitana, con 16 vittorie, 13 pareggi e 9 sconfitte) sarà promozione grazie soprattutto all’esperto portiere Marco Ballotta, al difensore Angelo Gregucci, al giovane Pietro Strada e all’attaccante russo Igor Simutenkov. In quella squadra trovano il gol in 13, quello di Strada del 2 giugno vale la vittoria a Verona e la A. Al vertice della società, con Franco Dal Cin socio di maggioranza per conto della famiglia Fantinel, c’è Luciano Ferrarini. In panca, Mircea Lucescu.
Ancelotti ne trova lo stesso una di A, ma al Parma. In due anni, un secondo posto (che allora vale la qualificazione ai preliminari di Champions League) e un quinto (utile per la Coppa UEFA). Ma anche qualche problemino coi numeri dieci. In Emilia, oltre al nuovo tecnico, arrivano il giovane Crespo, Chiesa e Zé Maria, se ne vanno Stoichkov, Couto, Inzaghi I e Di Chiara. A Zola chiede di fare l’esterno, e quello vola al Chelsea. A Baggio risponde “no, grazie”, e quello va a Bologna, segna 22 gol (record in carriera) e si ritaglia un posto a Francia 98.
Nel febbraio 1999 subentra a Marcello Lippi alla guida della Juventus, dove conquista la quinta piazza, la Coppa Intertoto e, nei due anni successivi, altrettanti secondi posti (dietro la Lazio nel 2000, la Roma nel 2001) che gridano vendetta. Specie l’ultimo, “deciso” a Perugia da un Collina in versione Noè. Lo stile-Juve se n’è andato da un pezzo, e viene messo alla porta. E certo non per le battaglie sull’ingaggio, condotte dalla moglie Luisa: «Mio marito va pagato per quel che vale». Provetta tennista e pilota di elicottero, la signora Ancelotti è diventata tale nel 1983, a Roma. Al marito, che nella capitale si è diplomato perito eletrronico, ha dato Katia, ventitreenne cantante, e Davide, 18enne neoaggregato alla Primavera rossonera allenata da Filippo Galli, compagno di squadra di papà nel grande Milan sacchiano.
Nella grande famiglia con sede in via Turati, Ancelotti rientra nel novembre 2001, per rimettere insieme i cocci prodotti dall’Imperatore Fatih Terim. Chiude al quarto posto, buono per i preliminari di Champions League. Tradizionale riserva di caccia della società, e da sempre priorità assoluta della gestione Berlusconi-Galliani. Il resto è Storia: terzo in campionato, primo in Europa e in Coppa Italia (contro la Roma) nel 2003. Supercoppa europea contro il Porto e scudetto l’anno dopo (ma flop a dicembre contro il Boca Juniors nell’Intercontinentale). Poi la Supercoppa italiana contro la Lazio, il secondo posto in A e lo choc del 25 maggio contro il Liverpool allo stadio Atatürk di Istanbul: avanti 3-0 all’intervallo, sconfitta ai rigori dopo il 3-3 buscato in 6’. E la magica serata del 23 maggio 2007 all’Olimpico di Atene, 2-0 ai Reds e lui issato in trionfo. Otto giorni dopo, il rinnovo fino al 2010. Il regalo più bello dopo la festa a sorpresa organizzatagli per i 48 anni da Luisa al ristorante Tre Torri:, con la sorella Angela (sposata, un figlio), gli amici e i colleghi di una vita: i collaboratori (da undici anni) Daniele Tognaccini e Giovanni Mauri, Oscar Basini (cuoco di innumerevoli trasferte), il fido “secondo” Mauro Tassotti, il preparatore dei portieri William Vecchi (di cui non condivide un giudizio), Gigi La Sala, Vittorio Mentana (fratello del nerazzurro Enrico e direttore della Comunicazione del Milan), Ernesto Bronzetti (mediatore cui deve Ronaldo), il pianista ufficiale Diego Mancino. Il brano preferito da Carlo? Amico di Renato Zero, del cui repertorio il mister, “sorcino” della prima ora, è buon interprete. Lo è stato anche di due pellicole, memorabile il cameo in cui nell’84 recita il se stesso calciatore romanista nel B-movie cult “L’allenatore nel pallone”. Intenditore di film gialli e d’azione, che per ovvi motivi guarda più a casa che al cinema, adora Il cacciatore.
Scollinata quota 300, Ancelotti è in discesa verso il record di panchine rossonere: Nereo Rocco è a 459, Gipo Viani a 376. «Mi piacerebbe essere il Ferguson (vent’anni al Man Utd, ndr) del Milan», ha detto Sir Carletto, che vi arrivò nel 1987. Non diteglielo che lo è già.
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