IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Phil dei fiori


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Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

Inconsapevole profeta del Nuovo Mondo, Phil Anderson fu il precursore della globalizzazione ciclistica. 

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Australiano nato in Inghilterra, francese di stipendio e belga di residenza: come direbbe il principe Antonio De Curtis, un uomo di mondo. 

Atleticamente un carro armato, potentissimo sul passo e competitivo sulle salite, entrò nella mitologia del pedale al primo Tour che disputò: nel 1981, alla quinta frazione (un tappone pirenaico atipico per la sua collocazione temporale), riuscì a rimanere con Hinault e agguantò una leadership inedita, primo capoclassifica non europeo in settantotto anni di romanzo. 

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Visse pure un’esistenza on the road intensa, con due matrimoni (la prima sposa, Ann, l’incontrò alla Coors Classic 1978) e una relazione “scandalosa” con Shelley Versus, prima massaggiatrice di un team professionistico. 

La bionda del Connecticut, con il suo Phil, sfidò i luoghi comuni e l’arretratezza culturale di un ambiente maschilista e vagamente misogino. La masseuse e il “canguro”, al contrario degli altri colleghi di madrelingua inglese, non si trovarono mai a proprio agio nelle Fiandre. «Il Belgio non ci piace... Non ci sentiamo a casa, è come stare in albergo. E poi la gente che abita vicino ci guarda come se fossimo extraterrestri». 

Il 1985, seconda stagione nella Panasonic, fu fondamentale: a inizio anno vinse il Giro del Mediterraneo, la Settimana Catalana e Harelbeke. 

Alla Ronde – nella tempesta – partecipò al putsch organizzato da Peter Post su un Muro, un classico di quel ciclismo predatorio. In fila indiana, bastò un compagno cascatore per scatenarlo insieme a Eric Vanderaerden. L’unico che capì la solfa per tempo, un maestro come Hennie Kuiper, li seguì nella fuga che si decise con uno scontato due contro uno: a Ninove, primo Eric, secondo Phil. 

Il Van, alla Gand-Wevelgem, provò a restituire il favore ma la volata finale – confusa e infelice – consegnò lo stesso referto di tre giorni prima. 

L’Aussie si consolò prima all’Henninger Turm, poi al Dauphiné Libéré e infine al Giro di Svizzera: dominato da cannibale, staccando gli scalatori sui monti e con un colpo di pedale memorabile. 

Il quinto posto al Tour, con quelle premesse, sembrò quasi una delusione e fu il prologo a un inverno complicato. 

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Anderson si ritrovò ricoverato a San Diego con un malanno inspiegabile, a un passo dall’appendere la bici al chiodo, poi a Gand (dal dottor Veys) scoprì l’arcano: un’infezione intestinale mai curata gli aveva provocato, con l’iperattività, un reumatismo dorsale dolorosissimo. Il corridore da grandi giri finì lì, ma l’australiano tornò come veltro da classiche.

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Corsaro assaltatore, passò all’olandese TVM dopo aver rifiutato l’italiana Carrera che aveva posto l’aut aut sull’amata Shelley.

Continuò a sfuggirgli il Fiandre (secondo nel 1988 dietro Planckaert) ma trionfò un po’ ovunque: in Romandia, Danimarca, Svezia, Sicilia, Gran Bretagna, Irlanda. 

Al Giro 1989, nella Sondrio-Meda, si ritrovò in avanscoperta con Argentin, Bugno e Fondriest: li infilzò come polli, giocando sulle loro campanilistiche rivalità come un gatto con i topi. 

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Oggi, è un ricco contadino, che sorveglia (come un personaggio di una novella di Cormac McCarthy) i suoi possedimenti a Jamieson, frutto di due vite trascorse da vagabondo del pedale.


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