IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Scalatori esotici: Luis "Lucho" Herrera


Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

Il ciclismo colombiano fu la propaggine più esotica di uno sport in piena espansione. 

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Il moro Luis Herrera fu l’ambasciatore incontrastato di quella scena, nonostante la folle concorrenza interna: periodo di esperimenti virtuosi che videro anche i pro’ del vecchio continente misurarsi con le corse impossibili di quei luoghi, il Giro di Colombia e il Clásico Rcn. 

El Jardinerito, pelle e occhi da indios, entrò nella leggenda quasi subito: nel 1984, all’Alpe d’Huez, divenne il primo sudamericano, nonché l’unico dilettante, ad aggiudicarsi una tappa del Tour. 

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Convinto con i mezzi più antichi e sicuri (le corse non si vincono e si perdono: si comprano o si vendono), divenne alleato di Bernard Hinault nella cavalcata che ipotecò il Tour '85 per il bretone. 

Il dì dopo, con già in saccoccia la tappa di Avoriaz, scortò senza troppa fatica la vittoria del compagno di squadra, connazionale e rivale Fabio Parra. 

Nella tappa da Autrans a Saint-Étienne fu entusiasmante: su l’Oeillon saltò a uno a uno tutta la concorrenza (LeMond, Delgado, Millar) scherzandoli, cadde nella discesa dello Chaubouret, si rimise in sella e – sanguinante – trionfò. 

Il tappone pirenaico di Luz Ardiden lo vide rispettoso (fin troppo) delle prebende del facoltoso Bernard Tapie: lasciò andar via Pedro Delgado e Pello Ruiz Cabestany e, quando fece sul serio, arrivò a pochi secondi dall’ex strillone di Segovia. 

La mattina della semitappa che portò in cima all’Aubisque esagerò con la fedeltà al Tasso, trainandolo alla propria ruota nei momenti di difficoltà. Poi, richiamato all’ordine per limitare la pantomima, si produsse in una progressione che lo riportò nel gruppetto degli inseguitori di Stephen Roche. 

Quel Lucho fu davvero realismo fantastico, uno dei Buendía trasportato su bicicletta, e le altre sue imprese lo confermarono: nel 1987 vinse la Vuelta, volando a Lagos de Covadonga e con tutti gli astri che tifarono per l’asso di Fusagasugá. 

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Il giorno della Vuelta fu un momento storico: la Settima strada, la principale arteria di Bogotá, si bloccò per gli improvvisati caroselli di una moltitudine in festa. L’allora presidente colombiano Virgilio Barco, alla tivù, lo esaltò come un eroe; destino allegro di un uomo timido che scatenò la passione popolare di una nazione. 

Le radio colombiane dei radiocronisti vocianti, che trasmettevano in diretta mentre là era notte fonda, divennero un elemento fondante di quel panorama, che visse anche di un grande duello autoctono: quello di Herrera con Parra. 

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Lucho si fece ammirare anche in Italia quando, sul finire degli Ottanta, ricomparvero le salite vere: al Giro 1989 si vestì di verde, nel senso di capintesta del Gpm, spianando le Tre Cime di Lavaredo in una giornata infernale e il Monte Generoso nel tic tac solitario. 

Il finalino fu ancora al Giro, nel 1992, quando sul Terminillo beffò Cipputi Roberto Conti con l’autorizzazione del latifondista gentile di quella èra, Miguel Indurain. 

Finì la carriera proprio quell’anno, ricoperto di gloria come il colonnello Aureliano Buendía, scettico di un plotone che vide sempre più culi grossi affiancarlo sulle cime: sposata nel 1991 una ex reginetta di bellezza di Miss Colombia, Judith Xiques Villa, in un Paese che in suo onore gli ha costruito un monumento, ebbe anche il dubbio privilegio – nel 2000 – di ventiquattr’ore di vacanza forzata come “ospite” delle FARC. 

El señor Lucho, venti chili sopra rispetto la figurina che sbaragliò le montagne europee, oggi fabbrica pesciolini d’oro nel suo laboratorio e attende con tranquillità la solitudine della nostalgia.

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