IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Apologia del gregario


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Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

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Hanno visi magnifici, lombrosiani, con la pelle bruciata dal sole; quell’abbronzatura da forzati che nulla ha a che vedere con la spiaggia, ed è la stessa degli operai che riasfaltano le strade o dei muratori. 

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Nel 1985, dopo quasi vent’anni di servizio e raggiunte le quaranta primavere, terminò la carriera il Migliore della razza: Wladimiro Panizza, da Fagnano Olona, attraversò indenne almeno quattro generazioni di campioni. Partì con Franco Balmamion e Vittorio Adorni e fece in tempo a osservare da vicino le prime pedalate di Gianni Bugno e Claudio Chiappucci. 

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Cagnaccio da salita, fu la spalla insostituibile del Saronni in fase ascensionale: nell’80, già trentacinquenne, fu in maglia rosa per sei giorni, rivale donchisciottesco di Bernard Hinault. Quel secondo posto finale, come il quarto nel mondiale di Sallanches, furono meritatissimi Oscar alla carriera. 

I ronzini più dotati si specializzarono nell’assistenza infinita al ras di turno: Palmiro Masciarelli, uno col motore da vincente, fu l’ombra ristoratrice dello Sceriffo Moser; fece talmente bene il proprio lavoro da divenire una parte essenziale del panorama agonistico. 

Fu così per tanti altri Cipputi del pedale: Marino Amadori, pretoriano del cittì azzurro Alfredo Martini nelle estati iridate, Luciano Loro, Alfredo Chinetti. Leonardo Mazzantini, altro cameriere di lusso del Franz, Stefano Giuliani, Ennio Vanotti

Nel 1986, a comporre una staffetta involontaria con Miro, sbarcò Roberto Conti: il faentino, che attraverserà come Panizza diverse ere geologiche della pedivella, imporrà la sua presenza – ieratica – sulle vette di mezza Europa. Brontolo, scalatore diesel, ci regalò per anni il profilo del manovale. Durissimo a morire quando la fatica s’impossessava della corsa e generoso fino all’autolesionismo, fantozziano in discesa e in imbarazzo costante in pianura. 

Nel gruppo-Boifava, che nel settore specifico crebbe molti fuoriclasse, s’imposero all’attenzione rouleur come Bruno Leali (tecnicamente il più forte del lotto) e Massimo Ghirotto: con loro la classe operaia andò almeno in purgatorio.

Davide Cassani, da Solarolo, percorse da testimone privilegiato tutto lo scibile del decennio. Era nella nazionale “cadetta” al Giro delle Regioni 1981, il dì della mostruosa Arezzo-San Marino di Soukhoroutčhenkov, e fu uno dei corsari della Termolan Galli di Bruno Reverberi che osò, contro le (addomesticate) abitudini dell’epoca, il blitz nella frazione di Vasto al Giro 1983. E c’era nel 1987, in una situazione a dir poco scomoda, nella Carrera di Roberto Visentini e Stephen Roche che al Giro deflagrò, verso Sappada, dopo il golpe dell’irlandese.

In azzurro, uno dei registi in corsa di Martini, scortò diversi campioni verso la maglia arcobaleno. Una volta, a Stoccarda, nel 1991, pensò per un momento a un sogno tutto suo, nemmeno impossibile da realizzare. 

Tornò poi coéquipier di lusso, con la licenza di vincere (tre Giri dell’Emilia, un Mediterraneo e un paio di tappe al Giro), prima di diventare un eccellente telecronista e poi – finalmente – cittì azzurro.

Lo stesso destino, quello del commentatore tivù, condiviso con quel casinista di Riccardo Magrini. In sella, il montecatinese fece lo sgobbone al servizio dei vari Bernt Harry Johansson e Lucien Van Impe.

Al Tour 1983 ci fu il momento di gloria: vinse con un colpo di mano, da finisseur, la tappa che terminò all’Ile d’Oleron. Erano appunto tempi di vacche magre, a luglio, in Francia, per il nostro movimento, e quell’attimo fu speciale. 

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Principe dei gregari fu comunque Giancarlo Perini, che entrò nella storia quando (in Spagna) tirò la volata del clamoroso bis iridato a Gianni Bugno. Una beffa, se si pensa ai rapporti tempestosi tra la Carrera e la Gatorade. 

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Un mestiere, quello del sottoposto, il più ingrato di una professione complicata. 

Il ricordo, tra i mille, va a Emilio Ravasio che scortando Urs Freuler in rosa cadde e finì in coma. Morì qualche settimana dopo, il 28 maggio 1986, e se ne andò in un silenzio monastico, saturo di dolore. 

Bisognerebbe sempre far notare, ai moralisti che demonizzano questo passatempo superomista, i pericoli di un lavoro atipico, bellissimo e spietato. E raccontare di Carlo Tonon che nell’84, intruppato negli ultimi di una tappa alpina del Tour, da La Plagne a Morzine, fu travolto da un cicloturista distratto: non solo non tornò più sulla bici, ma nemmeno riemerse nella vita di tutti i giorni dalla pozza della depressione. 

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Sulla strada ruvida, che ti regala quella sensazione di libertà negata da stadi e palasport, sfilano soprattutto loro: quelli con un quarto d’ora di ritardo, che applaudiamo come fossero nostri figli.


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