IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Gli anni Novanta


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Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine - kindle, amazon.it – € 9,90

(...)

I prodromi dell’imminente trasformazione crebbero nel ventre degli Ottanta ed esplosero fragorosi già nel 1990. Dopo la Roubaix strappata al canadese Steve Bauer, il belga Eddy Planckaert spese parole di meraviglia per una grande medicina con un piccolo nome. 

La diffusione dell’eritropoietina, scoperta da belgi e olandesi e resa indispensabile dalla scuola italiana, fu parallela con la fine della generazione di Fignon e LeMond. 

Il Tour 1990 rappresentò lo spartiacque tra un’èra e l’altra: a contendere la maglia gialla al LeMond iridato, oltre alla classe dei nuovi rampanti (Gianni Bugno, Miguel Indurain ed Erik Breukink) anche l’emergere miracoloso di Claudio Chiappucci, Spartaco del nuovo evo. 

I vecchi eroi, alla stregua di Dorian Gray, soverchiati dal Robosport invecchiarono di colpo. 

Un’epopea straordinaria basata sul verosimile, il velocista a venticinque l’ora sul Tourmalet e lo scalatore ai cinquanta orari in una crono, che portò a una spettacolarizzazione cyberpunk della pedivella. 

Significò, per qualche anno, un boom economico e televisivo deflagrante la cui vetta fu rappresentata dalla sceneggiatura della Grande Boucle 1997. 

Popolarità a livelli calcistici, un Übermensch tedesco contro il Charly Gaul italiano, il generoso idolo transalpino e un coro di spagnoli, svizzeri, danesi, olandesi, belgi, americani, russi, australiani eccetera. 

La globalizzazione auspicio di Félix Lévitan fu finalmente realtà, beatificata dalla folla adorante sulla strada e davanti al tubo catodico. All’insegna di un agonismo esagerato, wattaggi inumani e un’esasperazione così perversa da affascinare. L’estremo fu regola e il mestiere divenne definitivamente atletica leggera pedalata: per l’ennesima volta il ciclismo fu avanguardia antropologica dello sport. 

I Novanta però furono paura e delirio anche per il resto del menù professionistico. Perché la dissonanza etica tra lo scibile sportivo e il suo apparato scenico si approfondì proprio in quel frangente.

(...)

Il nuovo ciclismo – quello degli anni Dieci – ha (ri)mutato pelle, rigenerandosi. Araba fenice, al solito, per assicurarsi un domani, ha anticipato tutti: con buona pace della cattiva stampa e degli ignoranti, che fissano il dito invece della luna. 

Così facendo, bruciando la falsa immaginetta del reality Armstronz, i Novanta e i relativi miasmi – compreso un fenomeno inquietante, italiano, come Pantanology – sono diventati retroguardia. Molto più consumati, lontani e vecchi, rispetto alle epoche precedenti. 

E il ciclismo ha ricominciato ad avere una sana nostalgia del futuro.

In un’èra dominata dalla massificazione, l’esempio stravolgente della bici, estranea allo schiacciamento ossessivo sul tempo presente degli altri rituali, riporta alla verità della strada il senso della rappresentazione sportiva. 

L’unico vero teatro naturale che racconta la realtà con l’ultima etica possibile, quella darwinista.


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