IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Gli Scapigliati: van der Velde


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Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books ©

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Johan van der Velde da Rijsbergen, nato il 12 dicembre 1956, aveva tutte le carte in regola per essere un fuoriclasse: il fisico longilineo e la capacità, rara, di eccellere in ogni settore. 

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L’onnipotente Peter Post, a ragione, pensò d’avere in squadra il futuro fenomeno del ciclismo internazionale. 

Erano gli anni dei tulipani da esportazione, degli eredi di Jan Janssen: duri a morire, sempre presenti a Tour e classiche (Joop Zoetemelk e lo stesso Kuiper) e pirati delle strade nordeuropee à la Jan Raas e Gerrie Knetemann. 

Una scuola di talenti disposti a tutto per passare il traguardo prima degli altri, con una borsa di trucchi alcune volte oltre l’indecenza (chiedetelo al Battaglin di Valkenburg ’79). 

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Per tornare al Van, rese ancor più memorabile il noviziato, portando a casa anche i Giri di Gran Bretagna e Olanda: facile ricordarsi le lodi spericolate della stampa arancione, quando due anni dopo concluse in maglia bianca (dodicesimo assoluto) una Grande Boucle tutta oranje, prezioso scudiero dello Zoetemelk finalmente vincitore. 

Quella sfilata dei Paesi Bassi a Parigi (undici vittorie di tappa e con il bonus di Kuiper secondo in classifica) fu anticipata dalla muscolare esibizione di Giovanni al Delfinato: all’ottava frazione, nei pressi di Grenoble, con ai bordi della strada la neve, improvvisò un esercizio di fuga che sbancò la corsa. 

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Nell’81 portò a casa la Liegi-Bastogne-Liegi dopo una corsa perfetta, terminata sotto il diluvio. A ribadirne l’eterna incompiutezza, arrivò la positività al pisciatoio e la Doyenne andò all’elvetico Josef Fuchs. 

Eppure, tra una delusione e l’altra, mise insieme in pochi anni un bel carnet: due titoli nazionali, Zurigo, eccellenti prestazioni al Tour culminate con un promettente terzo posto nel 1982. 

L’anno dopo, in un’edizione durissima, s’immolò agli dèi con una caduta spaventosa. Un incidente che avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi della frattura a una spalla. 

La rottura con il padrino Peter Post, alla vigilia della diaspora dello squadrone che caratterizzò un decennio, significò la scelta bizzarra dello sbarco in Italia alla corte di Mauro Battaglini. 

Attratto da tanti soldi, in quel periodo fu uno dei pochi corridori di un certo livello che accettò le lusinghe del Bel paese, poco conveniente per un veltro delle sue caratteristiche. 

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In quel biennio raccolse una valanga di piazzamenti, buttandosi al colmo della disperazione anche nelle volate di gruppo, vinse (naturalmente per distacco) una splendida Coppa Bernocchi e fu testimone oculare al Giro ’84 di un fenomeno della natura quale il Laurent Fignon dell’anno orwelliano. 

Quel dì ad Arabba la sua fu un’impresa, perché resistette al francese fino all’ultima salita, esibendo un tenacissimo elastico di fronte alle ruote motrici del parigino. 

Il 1986 segnò un momentaneo ritorno all’ovile nell’allora Panasonic, e l’ormai eterna promessa – di un futuro visto solamente in cartolina – si ritagliò un paio di giornate memorabili nelle corse a tappe: andò a segno sia al Giro, a Pejo dopo la canonica sgroppata da solista e l’altrettanto abituale tempo da cani, sia al Tour, vestendosi di giallo a Villers-sur-Mer. 

L’approdo alla GiS del diesse Valdemaro Bartolozzi fu l’ennesimo capitolo della saga confusa dell’olandese. Esemplare la vittoria nella classifica a punti del Giro ’87: dopo una prima settimana sull’orlo del ritiro, trovò l’ispirazione giusta ai piedi delle Dolomiti e vinse, consecutivamente, a Sappada e a Canazei. 

Se la prima vittoria passò quasi in silenzio a causa della celeberrima faida interna alla Carrera (Stephen Roche figlio di buona donna che fregò Visentini), la cavalcata sui Monti Pallidi ci consegnò del nostro una delle immagini più esaltanti. Sulla Marmolada piantò in asso Marino Lejarreta e Robert Millar, macinando gli ultimi chilometri in uno stato di grazia regale. 

Ma fu al Giro 1988 che ci offrì, vestito di ciclamino, l’essenza della sua poco lucida follia: l’istantanea di una carriera spericolata, da campione pazzo. 

Scenario maestoso il Gavia, segni particolari una situazione climatica da tregenda: nevicò manco fosse pieno inverno. 

Lo stravagante lungocrinito impose alla ciurma un ritmo proibitivo e accoltellò tutti i migliori: Andy Hampsten, Erik Breukink, Urs Zimmermann, Franco Chioccioli, Jean-François Bernard, Pedro Delgado, Visentini. 

Se ne andò via domando lo sterrato e il tempo infame. Un paio di centimetri di neve sulla capa scoperta, maniche corte, senza guanti: sulla cima del mostro accennarono a fermare la corsa, ma il gigante della strada fece segno ai pigmei, intirizziti nella bufera, di togliersi di mezzo. 

In quel gesto l’irrazionalità e la follia del VdV, che senza nemmeno un giubbino e semicoperto di ghiaccio e acqua si lanciò in discesa. 

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A Bormio ci arrivò, quarantasei minuti e quarantanove secondi dopo il vincitore di tappa, il connazionale Erik Breukink: perse cinquanta minuti in quei momenti drammatici, sorpassato da colleghi più saggi e altrettanto masochisti, imbacuccati dalla testa ai piedi. 

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