LOST SOULS - "Black Jack" Ryan

LOST SOULS: Storie e miti del basket di strada

“Black Jack” o anche “Water”, perché così fluiva il suo jump shot: fresco, pulito e puro come acqua di fonte. L’ex dreamteamer Chris Mullin una volta descrisse Ryan come il miglior tiratore mai arrivato a giocare nella NBA. La tastiera al curaro del newyorkese Peter Vecsey, columnist del New York Post e altro fervente adepto, idem. A dirla tutta Jack Ryan da Brooklyn, classe 1961, una chance di arrivarci l’aveva avuta seppure quasi fuori tempo massimo. Nel 1990, quando i New Jersey Nets – e chi altri? – gli offrirono un provino. Finì come non poteva altrimenti, tagliato, anche se da penultimo: quando devi imbottigliarla, l’acqua di fonte cessa di essere tale.

A sgorgare, assieme al suo leggendario ballhandling, aveva cominciato all’East 5th St. Park di Brooklyn. Da senior alla locale John Jay High School, Jack ebbe di media 26 punti per gara. Alla prima stagione al West 4th, ne infilò 44 in faccia al brooklyniano Phil Sellers (1.92 x ), un ’53 uscito da Rutgers nel 1976 e pescato al draft dai Detroit Pistons NBA per la sua unica stagione NBA (44 gare di regular season e una di playoff). Il direttore del torneo, Kenny Graham, fece una eccezione al numero minimo di gare che dovevano essere disputate e nominò Ryan per l’all-star game della competizione.

«La prima volta che Jack e io giocammo in squadra assieme – ha scritto Bobbito Garcia, ex idolo dei playground riciclatosi giornalista di basket, meglio se di strada – fece 17/17 dal campo, tutti dalla distanza, prima di sbagliare quello sulla sirena con un sottomano da smarcato. Una volta gli passai il pallone in un contropiede, Jack staccò, fece rimbalzare un paio di volta la palla sulla fronte del difensore, si arrampicò in aria e segnò in layup». Forse non la sapeva nemmeno Ryan, ma per era appena nata la sua seconda carriera. Quella vera. Oggi, Ryan si fa chiamare Hoop Wizard, come la sua impresa e il suo sito, e oltre a giocare nei Court Jesters, nell’intervallo delle partite NBA intrattiene il pubblico con i mini spettacoli del Project Playground Basketball. Oppure viene ingaggiato per far divertire i bambini nelle feste di compleanno, da lui animate con giochi di prestigio e numeri da circo. Con in mano (o ai piedi) uno o più palloni di basket da far girare su se stessi o scorrere a canestro, ma senza farsi imbottigliare dal doverne infilare uno in più degli avversari. Nessuna tristezza, please: Jack sembra nato per questo. A suo modo e nel suo mondo, è una “celebrity” – che suona sempre un po’ meglio dell’italico VIP – e come tale sa muoversi tra i suoi pari, spesso ospiti dei suoi one man shows. 

«In 35 anni di basket – ha detto Pete Coakley, suo coach alla John Jay HS di Brooklyn – Jack è stato il miglior giocatore di high school che abbia mai avuto – e uno dei migliori che abbia mai visto – ma pure la delusione più grossa. Era pieno di talento, ma anche totalmente fuori di testa. Alla fine, riusciva a deludere chiunque cercasse di aiutarlo all’epoca. Come tanti altri giocatori di talento ma con troppo ego o zero disciplina, eri sicuro che si sarebbe perso o che un giorno avresti letto che gli avevano sparato o che era stato arrestato per questioni di droga e che sarebbe marcito in galera».

Invece, come spiega Ira Berkow in “A Hard Case From the Streets Makes Good”, articolo del New York Times del 3 dicembre 2003, per una volta è vero: quello di Ryan è un raro caso cui la strada, praticamente casa sua, gli ha fatto bene. L’ex ragazzo prodigio scivolato al Brooklyn College da grande promessa a “troublemaking showboat” (piantagrane da balera, con annesso gioco di parole: su quei battelli fluviali a vapore si danno spettacoli teatrali, ndr), ha trovato nello street basketball, la perdizione cestistica, la propria redenzione. 

La prima volta che Rick Carlisle lo vide ne rimase folgorato. Accadde proprio al New Jersey Nets Free Agent Rookie Camp del 1990. L’ex compagno di bevute di Larry Bird ai tempi dei Boston Celtics, era diventato l’assistente di coach Bill Fitch nella disastrata franchigia per sempre parente povera dei New York Knicks.

«Ci era stato raccomandato – ricorda Carlisle – e anche se come giocatore di college non aveva autentiche credenziali, gli demmo una chance Si presentò che era già vecchio, quasi 29enne, alto non più di 1.82 e col classico look del piacione californiano. Bianco, abbronzatissimo, capelli lunghi biondicci, baffoni, sorriso a trentadue denti, un po’ sovrappeso, non proprio in forma. Fitch e io ci guardammo l’un l’altro come a dire “Oh?” Poi lo vedemmo in campo. Non era come ci aspettavamo. Da dove era spuntato? Quel ragazzo sapeva giocare». 


Ma non nella NBA. In quelli che sarebbero potuti essere i suoi anni più produttivi nel basket, per sbarcare il lunario trasportava centinaia di chili di pesce con un carretto a mano al Fulton Fish Market di Lower Manhattan. 

Solo in seguito si accorse di poterci campare, con tutti quei giochetti che sapeva fare con una palla a spicchi. All’inizio come primo bianco degli Harlem Wizards poi con uno stile tutto suo come Hoop Wizard. A un certo punto sembrava aver gettato via, insieme con il talento, persino la propria vita. «Stava per finire in mezzo alla strada», ricorda la sua fidanzata, Jennifer DiMaggio.

Invece, a 42 anni, si è ripreso la vita. Comincia a portare le sue magie con una palla da basket dappertutto: alle feste di beneficenza, ai clinic estivi, negli intervalli delle partite di high school, di college, della NBA e della WNBA, anche al Madison Square Garden. E la gente, non solo in più piccoli, è ben contenta di pagare per vederlo far ruotare su se stessi fino a otto palloni insieme o infilare 20 (venti!) tiri da tre consecutivamente.

Oggi agli eventi sportivi giovanili Ryan, fisico ancora scolpito, aspetto sano, appare come un modello positivo. Appare nelle campagne pubblicitarie del latte, e il suo ammiccante sorriso invita a fare le scelte giuste: stare lontani dalla droga, proseguire gli studi, giocare di squadra in campo e fuori. «Sono queste le lezioni che ho imparato sulla mia pelle, e nella maniera più dura», ama ripetere. 

La rivista cestistica Slam lo ha inserito tra le prime 50 street-ball legends newyorkesi con tipini quali Julius Erving, Connie Hawkins e Earl Manigault. Insomma la pasta, come le origini, era la stessa.

Ryan era cresciuto a Brooklyn nel quartiere Windsor Terrace, area ad alta concentrazione di irlandesi, e lì aveva conosciuto i fratelli Mullin: Chris, futuro All-Star della NBA (12 stagioni con Golden State, 3 con gli Indiana Pacers e l’ultima di nuovo ai Warriors), e Terence, anch’egli con trascorsi universitari, seppure meno fortunati, al St. John's.

Il basket era lo sport di casa nel quartiere, e già a 5 anni Jack sapeva far ruotare su un dito il pallone. Sembrava un predestinato. «Ma non prendeva niente sul serio e non lavorava sul suo gioco – dice l’attore Jimmy Burke, amico di lunga data con cui ancora gioca nelle partitelle – Gli veniva tutto facile». Troppo.

«Il liceo, Jack era davvero forte come dicono – si accoda Eric Eisenberg, per una vita coach alla Tilden High School di Brooklyn – Valeva quanto uno Stephon Marbury, ma per circa cinque minuti. Perché Jack non si è mai curato troppo del restare in forma».

Coakley, allenatore di Ryan alla John Jay, cercò di fargli ottenere una borsa di studio per il college. «Parecchi atenei erano interessati a lui, almeno fino a quando non venivano a conoscenza dei suoi voti – racconta il coach – Ohio University decise di rischiare ma insistette che il ragazzo doveva prima iscriversi a uno junior college per mettersi a posto con i voti. Ryan andò al Lorain County Community College di Elyria, Ohio, ma ben presto fu sbattuto fuori squadra per essersi presentato ubriaco all’allenamento un sabato mattina. Così tornò a Brooklyn, ai playground, al mercato del pesce.


Suo padre, John Ryan Sr., scaricatore portuale, ne era disgustato. «Tutto questo un giorno ti si rivolterà contro», furono le parole del padre che Jack ha ancora marchiate a fuoco nella memoria. La madre di Jack, Susan, provò a essere conciliante, ma anche lei era disperata. Il fratello maggiore, Randy, che aveva fatto carriera come trader a Wall Street, non nascondeva alla pecora nera della famiglia la propria delusione. E aveva ragione.

Al Mount Hood Community College di Gresham, Oregon, Ryan sprecò anche la seconda chance. La squadra era fantastica, e Ryan ne era la produttiva point guard. Morale: «gli altri quattro titolari finirono tutti in Division I – ricorda Ryan – tranne me».

Seton Hall espresse serio interesse, e Ryan tornò all’est. Buona la terza? Seh… «Jack aveva ancora una reputazione – dice Mike Brown, futuro head coach al John Jay College di New York, ripensando ai tempi in cui a Seton Hall faceva l’assistente di P.J. Carlesimo – Un bagaglio troppo pesante».

Ryan allora tentò al Brooklyn College, dove nelle prime tre diede spettacolo. Ammonito dal coach di non giocare per la platea, fece spallucce e continuò, e finì fuori squadra.

Nel 1988, durante una pausa pranzo, Peter Vecsey lo vide giocare in una partitella allo YMHA sulla East 14th Street di Manhattan. Folgorato, la prima firma del NY Post chiamò Fitch e si accordò perché Ryan ottenesse un provino al rookie camp dei Nets.

«Jack ci piaceva – ammette Carlisle, parlando per sé e per Fitch, il suo capo di allora – e volevamo mandarlo nella CBA per affinarne le qualità e farlo entrare in forma».

Ma Ryan non ci arrivò mai. Al camp s’infortunò a un ginocchio: tre operazioni. Due anni dopo, ci riprovò da free agent: «Jack, hai 29 anni, sei troppo vecchio». 

Ryan conviveva part time con DiMaggio, una insegnante ex ala per due volte all-American della Pace University. «Jack rientrava a casa sbronzo alle 3 del mattino – ricorda – Lo lasciai. Tornò ad abitare nel suo appartamento, l’affitto glielo pagava la madre. A 35 anni».

Tempo due anni e Todd Davis, presidente degli Harlem Wizards, venne a sapere di Ryan. Forse avrebbero potuto rendersi utili a vicenda. «Ero così pervaso dalla voglia di giocare bene e di farlo con tutti quei giochetti che mi venivano richiesti – racconta Jack – che lavorai giorno e notte. Per la prima volta nella vita, ero riuscito a disciplinarmi. Forse ero cresciuto, finalmente».

«Andò alla grande con noi – spiega Davis – Ma qualche altro giocatore non gradiva. Alcuni pensavano che solo un nero dovesse fare le cose che Jack faceva».

Ryan avvertì di essere di troppo e presto si mise in proprio. Cominciò a farsi chiamare Hoop Wizard e aprì un sito web, HoopWizard.com. Un successone. Come per incanto, DiMaggio lo riprese con sé, arrivò un figlio, e da allora Ryan non ha mai fatto rimpiangere ai fans i soldi spesi per il biglietto. 

Dopo un suo show, lo avvicinò una suora: «Sei fantastico, il tuo è un dono di Dio: rendi felici i bambini». Ryan lì per lì fu colto alla sprovvista, poi telefonò subito alla madre per raccontarglielo. «Era così fiera – conclude Ryan – E quando mamma morì, mia sorella Suzanne, durante l’elogio funebre, ne parlò. Qualcuno aveva gli occhi pieni di lacrime. Nessuno, e non solo nella mia famiglia, me compreso, avrebbe mai immaginato che sarei arrivato a tanto». Ne era era passata di Acqua sotto i ponti, e ora non rischiava più di andarci a vivere. Aveva moglie, un figlio e qualcosa in cui credere. Jack Ryan era cresciuto, finalmente.
Christian Giordano ©

BIO
Nome: Jack Ryan (Black Jack, Water, Hoop Wizard)
Nato: Brooklyn (NY, USA), 1962
Ruolo: point guard
High school: John Jay HS (Brooklyn) – 26 PPG da senior
College: Lorain County Community College (Elyria, Ohio); Mount Hood Community College (Gresham, Oregon); Brooklyn College (Brooklyn , NY)
NBA: tryout ai New Jersey Nets (1988, 1990)


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