Benji Wilson - A Big Ben hanno detto stop
LOST SOULS - Storie e miti del basket di strada
«Let’s pop him». Facciamolo saltare.
Un attimo, tre vite. Buttate via per sempre. E per che cosa? Per leggi di strada per le quali chi nulla ha, nulla rispetta. Se non, forse, la reputazione.
Per farsene una, nella distorta e distorcente mentalità del ghetto, a volte basta imporre al prossimo di cederti il passo. A Benjamin “Benji” Wilson invece era bastato diventare, in due anni (e con 18 centimetri in più), la star della Neal F. Simeon Vocational High School.
Da junior, quel «Magic Johnson con tante altre cose, tra cui difesa e tiro in sospensione», specie se eseguito dall’angolo, aveva trascinato i Wolverines di coach Bob Hambric al titolo statale dell’Illinois. Superate Chicago Robeson (44-42) nel Super-Sectional al Pavillion di University of Illinois-Chicago e via via, alla Assembly Hall di Champaign, Rock Island (48-44) nei quarti e la West di Aurora (67-58) in semifinale, Wilson & C. batterono in finale (53-47) la Township di Evanston. Era il 24 marzo 1984, sei giorni dopo il suo 17esimo compleanno. L'ultimo.
Martedì 20 novembre, vigilia dell’apertura della nuova stagione, verso le 13, durante la pausa pranzo, Benji stava passeggiando con la sua ragazza, Jetun Rush, da dieci settimane madre del loro Brandon, e un altro studente. Di solito Wilson mangiava in mensa con Hambric. All’ultimo momento peròil coach aveva avuto un impegno, forse dovuto alla sfida-rivincita con Evanston per il Thanksgiving Tournament in programma a Rockford dall’indomani, e così Ben e Jetun si erano dati appuntamento per mangiare insieme in un negozio a pochi passi dalla Simeon, situata nel South Side di Chicago, tra la South Vincennes Avenue e la 82nd Street.
Per un altro dei maledetti casi orditi dal destino, i tre erano usciti dal negozio nel momento sbagliato. Poco prima, due adolescenti di una gang della zona, il 16enne Billy Moore e il 15enne Omar Dixon, freshmen nella vicina Calumet HS, erano stati lì in cerca di loro amici che poi non avevano trovato. I due poi erano rimasti nei paraggi della scuola e ostruivano il passaggio davanti all’uscita del negozio. Stando ai testimoni Ben, facendosi largo per passare, avrebbe pronunciato uno «Excuse me» che evidentemente i due avevano gradito punto. Soprattutto Moore, che, senza spostarsi, gli aveva rivolto un poco amichevole «What’d you say, man?», cos’è che hai detto? Alle parole ripetute da Wilson, l'altro, Dixon, secondo un'altra versione, aveva esortato il compare con un inequivocabile «Let’s shoot this punk», spariamo a questo coglione.
Moore intanto aveva estratto la su calibro .22. «Che vuoi fare, spararmi?», lo aveva sfidato Benji. Dixon allora aveva chiesto a Wilson dei soldi e gli era andato incontro per frugargli in tasca, Ben lo aveva spinto via e a quel punto Moore aveva esploso contro Wilson tre colpi di pistola. Due dei quali avevano raggiunto il fegato e l’aorta.
Benji non s'era ritrovato a terra «in un lago di sangue», come erroneamente avrebbero poi scritto in tanti, specie di qua dell'Atlantico, con troppa fantasia da Top Crime de’ noantri. Anche perché proiettili di quel calibro provocano fori relativamente piccoli. L’emorragia interna peròera parsa subito gravissima, anche se lì per lì non al punto tale da fargli perdere conoscenza. Ben era stato fatto appoggiare lì vicino, su di una staccionata. «I got shot. They shot me», m'hanno sparato, le prime parole di Benji che ancora oggi risuonano nella mente di Hambric, il suo coach, che dal suo ufficio si era precipitato in strada. E che da allora si sarebbe chiuso nel più totale mutismo riguardo non soltanto la tragedia che gli aveva portato via il suo miglior giocatore più forte, ma persino il college (Illinos) che Ben aveva già scelto.
Una tragedia forse evitabile se i soccorritori, trattandosi della stellina locale, fossero stati meno indecisi sul come muovere, e caricare sull’ambulanza, peraltro arrivata con un ritardo risultato poi fatale, quell’anima lunga 2.02 metri per 80 chili.
Ricoverato al St. Bernard Hospital, Benji morirà, dopo 17 ore di agonia e cinque di intervento chirurgico, alle sei del mattino del 21 novembre. Era il 669-esimo omicidio avvenuto a Chicago dall’inizio dell'anno. Il 1984. Non si fosse trattato di Benji, la star della Simeon High con un futuro già scritto nei pro', nemmeno avrebbe fatto notizia. Nelle redazioni, e forse non solo lì, un morto è sempre un morto, e cento sono statistica.
Con Wilson perònon se ne andava soltanto il migliore prospetto d’America per la classe 1985 secondo The Sporting News Yearbook. Con il dominatore, quell’estate, del Nike All-Star camp scompariva una delle prime ali piccole nel corpo di un’ala grande, un lungo che trattava e passava la palla come una guardia, per di più capace di segnare e difendere anche dentro l’area.
Come non bastasse, Ben aveva la forza fisica e mentale per superare anche avversari più grossi e più atletici di lui, e l'attitudine per far migliorare i propri compagni. «Giocasse oggi finirebbe dritto nei pro’. Era uno in gamba. Andava a rimbalzo, ti portava dentro, tirava da fuori, gran passatore» ha detto di lui Jimmy Collins, che nel 1984 era assistente di Lou Henson alla University of Illinois-Chicago. Con DePaul e Indiana l'altro college che fino all'ultimo era rimasto in corsa per reclutare Wilson.
Non stupisce che per averlo ci fosse la fila. Alla lettera. Al Scott, 59 anni, per una vita coach di football e athletic director alla Simeon HS, sostiene di non aver mai visto gravitare attorno a un “suo” atleta tanti assistenti allenatori, agenti e maneggioni. «Arrivavano da ogni ateneo – ricorda – e li incontrammo tutti. A un certo punto pensai che il ragazzo potesse andare in totale confusione. La più grande classe di reclutamento (nel football) l’ho avuta nel 1979: su 15 diplomati, 12 sono andati in Division 1. A essere fenomenale però era il modo in cui i reclutatori andavano dietro quel ragazzo. Una cosa mai vista. Si mettevano in fila. Lo volevano tutti».
Nove anni dopo, nel 1995, Jetun si è trasferita a New York con il nuovo compagno e con Brandon, futura guardia di 1,91 nella locale Long Island Lutheran HS con addosso l’inevitabile numero 25 sulla canotta. In seguito anche la mamma di Ben, Mary Wilson, figura che avuto grande influenza sul figlio, si è trasferita ma a sud del Mississippi, dove poi è deceduta.
Era stata soprattutto lei a voler intentare, nel maggio 1985, una causa da 10 milioni di dollari (chiusa nel marzo ’92) contro medici e paramedici che si erano occupati del soccorso di Ben. Il tribunale li giudicò colpevoli di «negligenza», l'ospedale invece se la cavò. Mary si batté anche perché, dichiarò al quotidiano Chicago Tribune, «nessun altro venga mai più portato in una struttura priva delle necessarie attrezzature per interventi chirurgici a cuore aperto, e resti là steso per due ore a morire dissanguato».
Il funerale fu un evento fu un evento. A celebrarlo arrivò da Atlanta il reverendo battista Jesse Jackson, leader afroamericano sempre attento all'immagine e ai bagni di folla che proprio quell'anno, come nel 1988, andò vicino alla candidatura per le elezioni presidenziali. Per Wilson, sepolto con i colori e la casacca numero 25 della Simeon, Jackson spese parole cariche di retorica ma che fecero presa per impedire una guerriglia urbana fra gang rivali.
Già a novembre Moore e Dixon furono giudicati colpevoli di omicidio e tentata rapina. Il primo si beccò 40 anni di reclusione, il secondo 30. Nel caso di Dixon, il cui nonno era la leggenda del blues Willie Dixon, gli avvocati difensori lamentarono «una sentenza esemplare dovuta allo status di celebrità della vittima», precisando però che «Omar Dixon non è un simbolo, è una persona». La difesa era ricorsa in appello ma nell’ottobre 1989 la Cook County Criminal Court confermò la sentenza di primo grado.
Quell’anno venne inaugurata la palestra dedicata a Wilson, onore mai toccato a nessun altro grande giocatore di Chicago. Nemmeno a quelli adottivi, come Kevin Garnett, che in memoria di Benji e pur non avendolo mai conosciuto, si era scritto sulle scarpe da gioco le iniziali «BW». O come l’amico per la vita Nick Anderson, che scegliendo il 25 gli ha dedicato la carriera. Scelta imitata da un altro chicagoano come Derrick Rose, altro ex Simeon, che nel finale della sua sfortunata carriera lascerà per il 25 di Ben (indossato con Knicks e T'Wolves) l'amato numero 1 sfoggiato ai Bulls da più giovane MVP nella storia della NBA e poi ai Cavs.
Anche il fratello di Ben, Jeffery, di sei anni più piccolo, aveva provato a giocare a basket, prima di diventare commentatore tv e ammettere «di non essere riuscito a gestire la pressione di essere una stella» come Ben. Alla cui vita, insieme con gli altri familiari, Jeff ha dedicato un libro, To Benji With Love. Una storia cosìda film non poteva non sedurre il piccolo e grande schermo: Benji: The True Story of a Dream Cut Short, diretto da Coodie and Chike, è un documentario della serie 30x30 di ESPN ed stato presentato nel 2012 al Tribeca/ESPN Sports Film Festival.
Al cimitero di Oak Wood, periferia di Chatham, il sobborgo chicagoano dove Ben era cresciuto e aveva frequentato la Martha Ruggles Elementary School, il pellegrinaggio di chi lo ha visto giocare o ne ha anche solo sentito tramandare il mito continua ancora oggi. Troppo presto a Big Ben il destino ha detto stop. E siamo ancora qui a chiederci perché.
Benjamin “Benji” Wilson
Nato: 18 marzo 1967 a Chicago (Illinois); deceduto a Chicago il 21 novembre 1984
Ruolo: ala piccola
Statura: 2,02 x 80 kg
High School: Neal F. Simeon Vocational HS (Chicago), oggi
College: -
Pro: -
Riconoscimenti: titolo statale high school Illinois 1984
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