1961, Taccone e Massignan al Lombardia più duro di sempre

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Taccone e Massignan assieme a Fontoni sulla Colma di Sormano 

articolo di Luca Pulsoni tratto da Allez-operazione ciclismo

È un inverno gelido quello che accoglie il decennio d’oro. Gli anni del boom, dei blue jeans, dei Beatles e della Grande Inter di Helenio Herrera. Vincenzo Torriani saluta gli anni ’60 pensando alle sue amate creature, Milano-Sanremo, Giro d’Italia e Giro di Lombardia. Ognuna di queste porta via notti insonni, giornate trascorse a studiare, comprendere, scovare, escogitare. Come se tutto, all’improvviso, non bastasse più.

La Sanremo aspetta una vittoria italiana da sette anni. È divenuta preda ambita dei forti velocisti belgi. Il patron pensa ad un nuovo epilogo per liberare la Classicissima dall’egida della prevedibilità. Ecco, dunque, la trovata del secolo: poco prima di entrare nella città dei fiori, si sale verso la frazione del Poggio e poi giù in picchiata su via Roma. Quanto basta per rimescolare le carte. Nasce così il mitico Poggio. Ma il digiuno azzurro continua per altri nove anni.

Al Giro d’Italia Torriani osa molto di più. Il suo estro creativo gli aveva suggerito di presentare la Corsa Rosa del ’60 attraverso un’insolita sorvolata aerea lungo lo stivale. Mentre vola sulla Valcamonica, scorge un sentiero che si arrampica verso il cielo. Sembra un’ascesa spettrale, selvaggia, vergine. Di quelle che piacciono a lui. Scatta la scintilla. Poi il colpo di testa: il Passo Gavia sarà inserito nel percorso del Giro ’60.

L’appuntamento con la storia è fissato per l’8 giugno. Al mattino il cielo è la raffigurazione dell’inquietudine umana. Torriani è sveglio dall’alba. È nervoso, fuma, freme, palpita e scalpita. Non vuol perdere la sua ultima creatura: una mulattiera prestata al Giro di diciassette chilometri con punte sino al 16%. Un sentiero per capre che si inerpica ai 2618 metri di altitudine, fino a sfiorare il cielo con un dito. 

Gli alpini della Valcamonica sgomberano il Passo dalla neve fresca e morbida, permettendo il regolare passaggio della corsa. Torriani tira un sospiro di sollievo. E fa bene. Perché la prima scalata al Gavia rasenta il drammatico: biciclette piantate nel fango, corridori fermi, in piedi sui pedali, a lottare, imprecare, bestemmiare, sperare, pregare. Il primo a transitare in vetta è un 23-enne vicentino che di nome fa Imerio. 

Nella mitologia greca, quel nomignolo sta a significare "desiderio". Lungo le rampe del monte oscuro, il sultano Anquetil sprofonda assieme a tutta la sua maestosità; mentre Imerio vola. Verso la vittoria e la Maglia Rosa. Fino a quando la malasorte non si abbatte su di lui: tre forature nella discesa verso Bormio, e addio sogni di gloria. All’arrivo (secondo dietro Gaul) Imerio piange come un bambino. Non saranno le uniche lacrime nella carriera di Imerio, che di cognome fa Massignan.

Dopo Sanremo e Giro, arriva il Lombardia. Dalla primavera all’autunno. Angelo Testori, storico sindaco di Sormano, in provincia di Como, suggerisce all’amico Torriani una salita breve e terribile che da quelle parti chiamano "Colma" o, più semplicemente, Muro di Sormano. Il patron organizza un sopralluogo assieme al vecchio Eberardo Pavesi, Fiorenzo Magni e Imerio Massignan, per tutti ormai l’Angelo del Gavia. La stradina che sale nel bosco misura poco meno di due chilometri ad una pendenza media del 17% con punte che arrivano al 25%. Massignan la doma vestito in borghese e rimanendo sempre in piedi sui pedali. L’Avocat Pavesi sentenzia: «Ne vedremo molti mettere il piede a terra». E così sarà.

La prima volta della “Colma” alla Classica delle foglie morte è il 16 ottobre 1960. La folla impietosisce dinanzi alla fatica umana. È un tripudio di spinte e traini più o meno spudorati. Qualcuno, come Rik Van Looy, inforca la bici in spalla e prosegue a piedi. Imerio è l’unico a non mettere piede a terra, rifiutando ogni spintone dal pubblico. Vola in cima alla media di tredici orari in soli dieci minuti e nove secondi. Monta un 42×27 perché di meglio non c’è.

Imerio è l’estremo dell’incompiuto. Il traguardo del Vigorelli è troppo lontano dalla Colma, e così viene raggiunto da un drappello di sette corridori. In volata arriva ottavo. I suoi occhi lacrimano ancora. Dopo il Gavia, anche Sormano. Epica omerica, prosa antica, bellezza incantevole e fragile come un palazzo di cristallo. Imerio è simbolo di impresa e disfatta.

Nel 1961 Torriani rivoluziona la classica. Alfredo Binda lo definirà «il Lombardia più duro di sempre». Arrivo a Como, più vicino a Sormano. Non c’è il mitico Ghisallo bensì il “Superghisallo“. Dalla via che sale verso il Santuario, si prende, dopo quattro chilometri, la strada verso Piano Rancio. Non appena i corridori si affacciano sulla piccola Valle di Guello, la salita si fa infernale. I cumuli di polvere e ghiaia risalgono dai minuscoli borghi di Rovenza e Fra Filippo per far di nuovo capolino sul Santuario della Madonna del Ghisallo, Signora protettrice di tutti i ciclisti. 

Su quelle rampe dure ed inedite rimane da solo Aldo Moser seguito da Gastone Nencini. Sulla “Colma” la situazione cambia. Al comando si forma un terzetto composto dal solito Massignan, seguito dal compagno di squadra alla Legnano, Enzo Fontona, e da un giovane abruzzese al primo anno tra i professionisti. Viene da Avezzano, nel cuore della Marsica, ed ha già vinto una tappa all’ultimo Giro d’Italia. Corridore sanguigno, spontaneo, genuino. E ribelle. Contro un destino che lo voleva confinato in una terra di pastori circondata da un anfiteatro di montagne, nelle zone segnate dal tragico terremoto del 13 gennaio 1915. 

Una forza devastante che spazzò via tutto. Oltre 30 mila morti, quasi 11 mila soltanto ad Avezzano. Arrivarono le lacrime, le urla, il dolore, le preghiere. Poi venne la ricostruzione, poi ancora i bombardamenti degli Alleati. Subito dopo la rinascita, grazie alla forza trasmessa dagli antichi guerrieri Marsi che popolavano quei luoghi. È la storia, di drammi, cadute e risalite, della terra di Vito, Vito Taccone.

Taccone è uno dei figli di un’Italia povera e impoverita. Di una campagna umile e fiera. È un lupo che va a caccia del branco. Determinato, furioso: «Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina». Vito ha negli occhi la rabbia degli ultimi. È un fuoco che arde, contagia, travolge. L’amore per la bicicletta inizia quando, da ragazzino, lavora come garzone di un panettiere ad Avezzano. Le gare arrivano come forma di ribellione. Non aveva nulla se non la speranza di un futuro migliore. Al primo anno tra i pro’ arriva il successo al Giro: decima tappa da Bari a Potenza, 140 chilometri. In Maglia Rosa c’è il fiammingo Guillaume Van Tongerloo e in fuga vanno Taccone e il tedesco Hans Junkermann. Il gruppo lascia fare e i due arrivano al traguardo. In volata non c’è storia: l’abruzzese vince quasi per distacco. La Maglia Rosa passerà sulle spalle di Anquetil che, in seguito, la cederà ad Arnaldo Pambianco. Alla fine del Giro, invece, Taccone conquisterà la Maglia Verde di miglior scalatore. La sua favola continuerà anche al Lombardia. Predestinato.

Sulla Colma di Sormano Massignan non riesce a fare il vuoto. Vito scollina con quindici secondi di ritardo, Fontoni lo segue di poco. In discesa Taccone perde altro terreno. È stravolto dalle fatiche di “Superghisallo” e Sormano racchiuse in un fazzoletto di terra lombarda. Ma la sua rabbia è più forte del dolore. Il lupo morde sui pedali e inizia ad annusare la preda. La studia, la osserva, la ammira. Fino a quando non la azzanna. Imerio viene raggiunto quando mancano meno di dieci chilometri al traguardo di Como. Vito confessa di avere i crampi e manda il veneto a tirare. Sarà un bluff. È soltanto un modo per recuperare le energie spese nell’inseguimento. Furbescamente. L’arrivo è una sentenza: primo Vito, secondo Imerio. Il lupo, furbo e rabbioso, assapora il bottino. La preda piange ancora.

Dici Sormano e pensi alla Colma. E tornano in mente quei duelli di un ciclismo che non c’è più. Il Muro di oggi è un torrente di catrame che attraversa, silenzioso e cruento, il bosco che domina Sormano. La strada verso la Colma è una pergamena di nomi, storie, memorie, leggende. Ad accogliere i corridori una citazione di Gino Bartali: “Un passista non ha alternative. Deve arrivare ai piedi del muro con almeno dieci minuti di vantaggio così poi, se lo fa a piedi impiegando un quarto d’ora di più di quelli che lo faranno in bici, arriverà in cima con cinque o sei minuti di ritardo e potrà ancora sperare“.

E poi ancora Ginettaccio: “Davanti il 50 e il 42, dietro il 24, 17, 19, 23, 26 perché codesta gli è una salita da fare col 42×26 un si scappa; è durissimo il primo strappo che si dovrà fare quasi da fermo, perché viene dopo una curva a gomito. Saranno duri quei 2 chilometri abbondanti che ci sono da scalare in quanto presentano curve secche con impennate paurose. Sarà difficilissimo l’ultimo strappo“.

A ridosso del primo tornante l’asfalto sussurra i nomi di Taccone e Massignan. Le anime del Lombardia più duro di sempre. Imerio, detto “gambasecca” per via della gamba destra un centimetro e mezzo più corta della sinistra, è il figlio di una famiglia di coltivatori di vigne. Viene da un Veneto ferito e abbandonato. Una terra orfana della sua gente, fuggita altrove in cerca di quella fortuna svanita in mezzo alle colline che disegnano l’orizzonte. Vito nasce in un’Italia silenziosa, abbandonata, mai doma. Come lui. Umile, povero, genuino. In un incontro con Papa Giovanni XXIII diede del tu al Santo Padre: “Caro Papa, ma tu per chi tifi?“. “Gli diede del tu perché era la sua educazione – ricorda il figlio Cristiano – Non lo fece per mancare di rispetto ma perché era il suo modo di essere“.

Il Lombardia di Vito e Imerio è custodito lungo le rampe della Colma, infernale e spietata. Ma che sa raccontare storie bellissime. Di uomini, corridori, di vittorie e sconfitte. Storie di ciclismo. Storie di vita.

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