La nostra Africa (2003)


Nel continente l’unica cosa che abbonda più della miseria è il talento, e la stagione della caccia non chiude mai

di Christian Giordano © 
Guerin Sportivo © n. 6, giugno 2003

Giusto un anno fa, la vittoria del Senegal, i “parenti poveri”, sui ricchi “cugini” campioni in carica dal passaporto francese, nel match inaugurale del Mondiale nippo-coreano, scatenava l’ennesima alluvione di banalità sul “calcio africano” e le sue “straordinarie potenzialità”.

E il pensiero correva subito a un altro debutto iridato, anch’esso chiuso col botto e sempre contro una rappresentativa africana, di una nazionale chiamata a difendere il titolo conquistato quattro anni prima. Era Argentina-Camerun, gara d’apertura di Italia ’90, la partita che forse più di altre viene indicata come spartiacque, la svolta epocale per il football del continente, da allora finalmente considerato, a dispetto del debito pubblico dei suoi Stati, un movimento da primo mondo calcistico.

Milano, 8 giugno. A San Siro, terminata quella che, più che una cerimonia d’apertura, è parsa un mega-spottone delle passarelle milanesi, e non solo per la durata (la più breve del suo genere), va in scena una partita che sulla carta pare senza storia e che invece, sull’erba, la Storia la riscrive.

Maradona, tirato a lucido, è tornato un figurino, (quasi) come ai tempi di Messico ’86. «Se Diego si sentirà bene, l’Argentina sarà nuovamente campione del mondo» dichiara alla vigilia del torneo Carlos Bilardo, il Ct della Selección. Figuriamoci se i presuntuosi argentini temono una squadra forte atleticamente e veloce finché si vuole che però – stereotipo impone – gioca come quando si ha dieci anni, dribblando e scorrazzando liberi come puledri nella prateria. A parte forse lo stesso Bilardo, nessuno, almeno fino alle 18.01, l’ora esatta del calcio d’inizio, pare ricordare che nel Camerun militano reduci della campagna di Spagna ’82, che vide gli africani subito eliminati ma imbattuti.

Premesso che le partite inaugurali sfuggono a qualsiasi logica, e quindi a ogni pronostico obbligato, stavolta la grande sorpresa pare più figlia della forza (in tutti i sensi) degli outsider che della pochezza dei favoriti. I sudamericani, privi di idee e di velocità, soffrono il calcio moderno degli africani, bravi sul piano tecnico e insolitamente disciplinati su quello tattico. Bilardo ci mette del suo schierando un prudentissimo 4-5-1 il cui unico riferimento offensivo, il centravanti Balbo, è facile preda dalla difesa gialloverde, da sempre il fiore all’occhiello dei Lions Indomptables.

Proprio alla punta allora all’Udinese, titolare sulla scia degli 11 gol in 28 partite al primo anno in Italia, capita l’unica occasione blanquiceleste, neanche a dirlo su servizio smarcante del Pibe de oro, ma Balbo, solo davanti a N’Kono, spreca malamente. Nella ripresa Bilardo prova il tutto per tutto mandando in campo l’imprendibile Caniggia, che si posiziona sulla destra, nella zona di Ebwelle, e che gli africani fermano con le buone ma più spesso con le cattive. Specie con Massing, che nel falciarlo ci rimette una scarpa.

Maradona, comunque lontano parente del dio del calcio ammirato in Messico, viene scientificamente maltrattato da N’Dipi e dal solito Massing, espulso a danni fatti (89’) dal francese Vautrot, che alla mezz’ora della ripresa ha riservato identica sorte ad André, il meno celebre dei fratelli Biyik.

Cinque minuti dopo, al 66’, punizione dalla sinistra respinta da Balbo, arretrato fin nella propria area a dar manforte alla difesa, Makanaky prolunga la parabola, François Omam-Biyik prende l’elicottero, resta in aria un’eternità e colpisce di testa un pallone altissimo. Pumpido compie la papera della vita e la palla gli rotola alle spalle: 1-0 Camerun. François Omam-Biyik esulta sollevando la maglia sul petto nudo, gesto allora spontaneo ma incolpevole antesignano di certi eccessi esibiti dagli “spogliarellisti” di oggi.

Sugli spalti, il boato che ne segue indica, più dei tanti cori anti-maradoniani, da che parte stanno i settantamila del “Meazza”. Finirà così, con i campioni uscenti che abbandonano a testa bassa il campo mentre i camerunesi, vittoriosi in nove contro undici, non riescono a contenere la loro più che giustificata euforia.

A Yaoundé, la capitale, nove persone muoiono per infarto. A bocce ferme, le federazioni africane vedono avvicinarsi la possibilità di avere una terza rappresentativa alla fase finale. L’allora presidente della FIFA, JoãoHavelange, che prima del torneo aveva anche annunciato di voler «vedere molti cartellini rossi», sul tema si era detto possibilista, ma prima ci volevano i risultati. Eccoli, due “rossi” in 90’ e un successo che, appunto, farà epoca.

Peccato che spesso, tessendo le lodi di Super Aquile (Nigeria) e Leoni, Indomabili (Camerun) o “di Teranga” (Senegal), dalla pelle scura o scurissima, non ci si accorga di inciampare in una sorta di involontario razzismo alla rovescia, quello di considerare, improvvisamente, “superiore” una razza fino a ieri ritenuta, per la stessa aberrazione mentale, “inferiore”. A conferma che il razzismo è, sempre, complesso segreto di inferiorità, mascherato da un distorto senso di superiorità.

Forte il calcio africano lo è sempre stato, ma veniva chiamato con altri nomi, quelli delle colonie per le quali calciatori di origini africane giocavano. A migliorare erano semmai le nazionali dell’Africa, semplicemente perché cresceva il numero di loro giocatori ingaggiati nelle nazioni calcisticamente più evolute, ammesso e non concesso che poi si fossero salvati dalla caccia ai “passaporti facili” e alle ancor più facili naturalizzazioni. Basti pensare alle punte d’ebano che oggi innervano nazionali storicamente bianche come il latte quali Belgio, Germania e Polonia e che rispondono ai nomi di Mbo Mpenza Mouscron, Gerald Asamoah e Emmanuel Olisadebe.

Ma se qualcuno ha visto nel Senegal vittorioso sulla Francia «la grande rivincita della serie B senegalese contro la serie A senegalese travestita di Bleu», quella vittoria del Camerun (prima africana a raggiungere i quarti in un Mondiale) significò, più di ogni altra cosa, che il calcio d'Africa era finalmente competitivo ai massimi livelli. Erano passati appena sedici anni da Jugoslavia-Zaire 9-0 del ’74, ma sembrava un secolo.

Con Argentina-Camerun del 1990 non cominciava una “nuova èra”, semmai ne finiva una assurda. Quella che vietava a Camerun, Nigeria, Senegal, Sudafrica e Tunisia, le cinque africane ammesse alla fase finale degli ultimi Mondiali, di battersi alla pari con i loro fratelli di sangue ingaggiati da “legioni straniere” chiamate Francia, Inghilterra, Olanda, Portogallo e via colonizzando.

A chi straparla di inesistenti superiorità o di “calcio di un futuro che non arriva mai” va ricordato il vero male del calcio africano: al di là dell’indisciplina tattica, della carenza di strutture, insomma delle scarse risorse economiche, il problema grosso è la corruzione, che da inesauribile serbatoio di talenti trasforma la grande madre Africa in grande serbatoio di voti. Che siano per dittatorelli locali, signori della guerra o signorotti della FIFA, fa poca differenza.

Nel calcio, come nella vita, non è questione di pelle, ma di stomaco. E finché è vuoto fa meno paura.
Christian Giordano ©
Guerin Sportivo ©


Il tabellino
Milano (San Siro), 8 giugno 1990, ore 18
Argentina-Camerun 0-1 (0-0)
Argentina: (4-5-1) 1 Pumpido - 19 Ruggeri (8 Caniggia dal 46’), 20 Simón, 11 Fabbri, 17 Sensini (6 Calderón) - 13 Lorenzo, 4 Basualdo, 2 Batista, 10 Maradona (cap.), 7 Burruchaga - 3 Balbo. A disposizione: Goycoechea, Olarticoechea, Serrizuela. Ct: Bilardo.
Camerun: (5-4-1) 1 N’Kono - 14 Tataw (cap.), 4 Massing, 6 Kunde, 17 N’Dip, 5 Ebwelle - 8 M’Bouh, 20 Makanaky (9 Milla dall’82’), 2 A. Kana-Biyik, 10 M’Fede (15 Libiih dal 66’) - 7 F. Omam-Biyik. A disposizione: Songo’O, Pagal, Maboang. Ct: Nepomniaschiy.
Rete: F. Omam-Biyik al 66’.
Arbitro: Vautrot (Francia).
Guardalinee: Mauro (USA) e Listkiewicz (Polonia).
Ammoniti: N’Dip (C), Sensini (A) e M’Bouh (C).
Espulsi: 61’ A. Kana-Biyik (C) e 89’ Massing (C).
Spettatori: 73.780 paganti per un incasso di L. 5.798.555.000.

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