LA VUELTA DE FRANCIA PER JULIAN ALAPHILIPPE



di SIMONE BASSO
Sportecultura.com, sabato 14 dicembre 2019

Col Velo d’Or assegnato a Julian Alaphilippe, il 2019 del ciclismo su strada è diventato materiale da almanacco.

Premio meritato per il (giovane) ras della Loira che, lungo cinque mesi, ha unito la primavera dei classicomani (Strade Bianche, Milano-Sanremo e Freccia-Vallone) con l’estate dei tappisti (il quinto posto – da eroe nazionale – al Tour de France).


Julian Alaphilippe vince la Freccia Vallone 2008 staccando Alejandro Valverde.

Quando a metà ottobre ASO ha presentato alla sua maniera, ovvero in pompa magna, la Grande Boucle 2020, il pensiero (stupendo?) è andato subito al capitano della Deceuninck-Quick Step.

La Vuelta de Francia, un tentativo estremo, l’ennesimo, di far vincere il Tour a un francesino (includiamo anche Thibaut Pinot e Romain Bardet nell’elenco) o a un corridore da due settimane e mezzo: le (due) cose, in questo caso, combaciano.

Niente pavé, una sola cronometro atipica di 36 chilometri – che si conclude sull’erta di La Planche des Belles Filles – il sabadì dell’epilogo, solo una (!) vetta oltre i 2000 metri d’altitudine (il Col de la Loze...) e solo una tappa (su ventuno...) oltre i 200 chilometri. Una corsa gialla nervosa, zeppa di salite(lle) e televisiva: il (grande) ciclismo fatto coincidere con il garagismo bonsai della Vuelta settembrina. Formato-smartphone.

L’ASO, che dispone del movimento come fosse di sua proprietà, immaginario e (tanti) dindi, impone questa tendenza nell’evo più fortunato del ciclismo moderno recente: durante il passaggio di testimone tra la generazione (importantissima..) di Philippe Gilbert, Chris Froome, Vincenzo Nibali e le nuove (straordinarie: Egan Bernal, Mathieu van der Poel, Remco Evenepoel, Tadej Pogačar) leve, con in mezzo Peter Sagan, Tom Dumoulin, Primož Roglič.

L’assenza di molte montagne leggendarie e la quasi abiura alle cronometro: una cifra stilistica procteriana, carente di cultura tecnica e che tende allo stereotipo.

Si rincorre il pubblico generalista che non comprende il senso e la bellezza estetica dell’esercizio contro il tempo, quella che i Giuseppe Ambrosini del tempo definivano la prova della verità, o l’importanza del muro psicofisico dei duecento chilometri percorsi.

La mancia è rappresentata dal gorilla del Crodino sulla schiena del buon Alaphilippe: convinto e costretto a investire su un programma incentrato sulla Festa di Luglio.

Per provare a fare Laurent Fignon (...), in un periodo molto più cyberpunk di questo, Laurent Jalabert – l’ultimo vero Grande di Francia prima di Ala – buttò alle ortiche un paio di anni, all’apice della carriera, rincorrendo il sogno della maglia gialla a Parigi.


Maria Canins e Bernard Hinault premiati ai Campi Elisi: 
è l’ultima vittoria di un corridore francese al Tour de France 1985.

Il rischio, considerando il lignaggio degli avversari (quest’anno, al Tour, non c’erano Froome, Dumoulin e Roglič...), è che il 2019 rimanga una primula rossa e che il migliore corridore da classiche vallonate rinunci alle sue (vere) potenzialità.

Le leggende metropolitane poi, sulla Grande Boucle dei tempi moderni, si sprecano. Chi sostiene dell’eccessivo peso delle cronometro negli anni Dieci, svirgola l’argomento.

Nel 1982, Bernard Hinault realizzò la sua prima doppietta Giro-Tour: la seconda, con la maglia di La Vie Claire, nell’85, coincise con l’ultima vittoria indigena nella corsa più importante al mondo.

La quarta gialla arrivò, mostrando i primi segnali di declino rispetto al triennio d’oro 1979-81, con una gestione da patron della realtà agonistica. 

Lo Sceriffo bretone si avvalse di un tracciato disegnato sulle sue caratteristiche: a dispetto di frazioni più corte rispetto al solito, il totale di quella edizione fu di 3507 chilometri, Felix Lévitan (il deus ex machina del tempo) offrì 214 chilometri a cronometro, dei quali ben 145 (!) individuali. Quell’edizione ebbe una percentuale del 6,1% di strada percorsa contro l’orologio...

Quando si sostiene, magari nei bar sport televisivi di Stato, che negli anni Novanta le cronometro fossero preponderanti si guarda il dito, non la luna.

Nel 1992, un disegno (inedito: partiva dalla Spagna, toccando sette nazioni europee) dell’èra-Jean-Marie Leblanc che omaggiava il Trattato di Maastricht, il (primo) doublé di Miguel Indurain giunse su 3978 chilometri di svolgimento. Dieci tappe oltre i duecento chilometri; a crono 200,5 (137 di esercizio solitario) che rappresentavano il 5% del totale.

Anche nell’epoca oscura del Darth Vader texano, 2002, i chilometri contro il tempo erano molti, 167,5 (109 individuali), ma non quelli del passato (prossimo), su 3278 km che erano il 5,1% della contesa.

E il discorso è ancora meno a fuoco nell’èra del Team Sky (ora Ineos): addirittura l’anomalo 2012 di Bradley Wiggins, cronoman di lusso, vide solo il 2,9% con le lancette (101,4 su 3496,9 chilometri).

Froome (e Nibali) vincono, vincevano, poiché più completi in ogni aspetto (potenza, recupero, resistenza organica, capacità tattiche e tecniche, squadra) nel confronto coi rivali: la cronometro rivela(va) e conferma(va) la (superiore) cilindrata del ciclista (campione).

Ai posteri, e agli ascolti tivù e al traffico sui social, la sentenza sul Tour 2020: che tanto sarà salvato dai corridori stessi.

L’arroganza dell'ASO si sublima pure nell’annuncio de La Course by Le Tour che tornerà a disputarsi sui Campi Elisi: le esibizioni dell’ultimo triennio, sul Colle dell’Izoard, a Le Grand-Bornand e a Pau, erano state troppo avvincenti e spettacolari...

Meglio (...) chiudere le donne nel recinto di una kermesse-cartolina: la ricerca spasmodica dell’argent non suggerisce di guardare al di là di un presente continuo.
SIMONE BASSO

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