Pallone d’oro, il grande bluff (2004)


Il più noto trofeo individuale compie mezzo secolo, ma non sempre è stato all’altezza della propria fama. Nel 2005, però, sarà difficile sbagliare. Se vincerà Ronaldinho, addirittura impossibile. Il trucco però è non prenderlo troppo sul serio

di Christian Giordano
Guerin Sportivo, dicembre 2004

«Comunque se ne parli, purché se ne parli».
Sopravvalutato, politicizzato, anacronistico, scelto da giudici corrotti o incompetenti, inutile. Povero Pallone d’oro: quante gliene hanno (abbiamo) dette, in mezzo secolo. Eppure, alla faccia delle imitazioni, anche quelle più credibili come il FIFA World Player of the Year (che dal 1991 esprime le preferenze dei Ct), continua a esistere e a far discutere. Tanto, forse troppo, certo spesso a sproposito.

Non rivela il Verbo sulla grandezza dell’Eletto, ma non esiste fuoriclasse che non ambisca a sollevarlo. Perché chi lo vince entra nella storia, dalla porta principale e passando alla cassa. E pazienza se nel percorso s’inciampa in un Belanov o in un Sammer. È un prezzo che si paga volentieri, perché i francesi, quando ci si mettono, sono come quella nota azienda casearia italiana: fanno le cose per bene. 

Ai più scettici è bene ricordare che all’inventiva e alla capacità organizzativa transalpine il calcio e più in generale lo sport devono uomini grandi come le proprie idee: Jules Rimet (Mondiali), Gabriel Hanot (Coppa dei Campioni), Henry Delaunay (Europei), per non parlare delle moderne olimpiadi, volute, fortissimamente volute dal barone Pierre de Coubertin, o del Tour de France, organizzato dal quotidiano sportivo L’Équipe del padre-patron Henri Desgrange. 

Eventi planetari resi ogni anno più forti dalla forza della tradizione. E come si ritiene sia la Grand Boucle a “fare” grandi i campioni del pedale, e non il viceversa, in tanti (non solo in Italia) ritengono sia la conquista del Pallone d’oro a consacrare i grandissimi del calcio.

Nel 1956, sulla scia della neonata Coppa dei Campioni, la redazione parigina del settimanale France Football vara un’idea meravigliosa: perché non assegnare, alla fine dell’anno solare un premio al giocatore europeo che più si è messo in evidenza in quei 12 mesi? 

L’intuizione si rivelerà vincente: un riconoscimento individuale per il più popolare degli sport di squadra. Era come dire: signori, fuoco alle polveri della discussione, del tifo, della partigianeria. E delle vendite, di copie e della pubblicità.

Anni 50

Quasi ovvio, col senno del poi, che l’albo d’oro sia subito pesantemente influenzato da quello della Coppa dei Campioni e quindi dal dominio del Real Madrid, campione nelle prime cinque edizioni. A sorpresa, però, il primo trofeo va al baronetto inglese Stanley Matthews, iperlongeva ala del Blackpool che per 3 punti brucia Alfredo Di Stéfano, l’uomo simbolo delle merengues e del calcio in blanco e nero dell’epoca. 

Doverosa annotazione: l’asso argentino, grazie ai buoni uffici di cui gode il club, è stato naturalizzato come spagnolo ed è grazie a quello status che potrà ambire a quel premio che non gli sfuggirà nel ’57 (davanti a un altro totem inglese, Billy Wright) e nel ’59 (sul francese Raymond Kopa, suo compagno fino a pochi mesi prima e vincitore l’anno precedente). 

L’eccezione del ’58 è figlia, oltre che del terzo successo madridista in Coppa dei Campioni, anche del mondiale svedese il cui capocannoniere è Just Fontaine, centravanti transalpino dello Stade Reims: 13 centri che assieme al terzo posto iridato gli valgono quello nella classifica del Pallone d’oro, dietro il bomber tedesco Helmut Rahn e davanti a John Charles, ariete gallese della Juventus.

Anni 60

Il decennio dei Sessanta si apre con la prima edizione degli Europei. A vincerli è l’URSS del portierissimo Lev Jascin (5°), ma il Pallone d’oro premia Luis Alberto Suárez, mente illuminata e illuminante arrivato all'Inter dal Barcellona campione di Spagna sul Real Madrid che al mito Alfredo Di Stéfano (4°) ha aggiunto la leggenda Férenc Puskás (2°); al terzo posto, il “solito” goleador tedesco: Uwe Seeler, icona dell'Amburgo. 

Nel ’61 uno dei punti-cardine del regolamento, quello del fair play, s’inchina al genio ribelle di (Enrique) Omar Sívori, altro argentino naturalizzato (italiano) che si aggiudica il trofeo che il passaporto originario gli avrebbe - per il regolamento dell'epoca - altrimenti negato. 

Sono in pochi a ricordarlo, ma “el Cabezón” non è solo il primo “italiano” a vincere il trofeo ma anche, l’anno precedente, il primo a essere votato: alla quinta edizione. E a stranezza si aggiunge stranezza se è vero che, una volta tanto, l’incidenza della Coppa dei Campioni è pressoché nulla, eccezion fatta per il secondo posto di Suárez, finalista sconfitto (2-3 dal Benfica) col Barça prima di passare, appunto, all’Inter. 

Il ’62 è anno mondiale, e non a caso l’aurea palla va al cecoslovacco Josef Masopust. Mediano del Dukla Praga e della nazionale seconda al mondiale in Cile, s’impone sul giovane fenomeno Eusébio, autore della doppietta che dà al Benfica la sua prima Coppa dei Campioni. 

Quella di un’italiana, il Milan, arriva l’anno dopo (2-1 ai portoghesi del mozambicano, 5°) e a Gianni Rivera vale il secondo posto dietro il monumento Jascin. Non male il piazzamento di un altro rossonero, il Trap, ottavo (!) con Bobby Charlton del Manchester United e il già interista Luis Suárez. 

Il ’64 è l’anno magico proprio di Suárez, campione d’Europa sia con la Spagna di Amancio Amaro (3°) sia con l’Inter. Eppure la giuria di France Football gli preferisce il talento dell'ennesimo "folle" genio del calcio, Denis Law del Man Utd. Il popolo herreriano si consola con le menzioni per Corso (7°), Facchetti e Mazzola (19-esimi). 

Gli stessi uomini della grande Inter euromondiale scalano la classifica anche l’anno dopo (Facchetti e Suarez sul podio, Mazzola 8°, Corso 15°) ma il trofeo lo vince Eusébio, battuto col Benfica nella finale continentale di San Siro dalla storica “papera” di Costa Pereira sul tiretto di Jair. 

Nel ’66 l’onda lunga dell’Inghilterra campione del mondo dura fino a dicembre: il Pallone d’oro va a capitan Bobby Charlton, davanti al top scorer Eusebio, alla rivelazione tedesca Beckenbauer (che ai tempi gioca a centrocampo) e a un altro inglese, Bobby Moore. Gli interisti Corso (11°) e Mazzola (14°) sono gli unici italiani presenti, non pervenuti i giocatori di real Madrid e Partizan, finaliste di Coppa dei Campioni. 

Nel ’67 vince Flórián Albert, playmaker ungherese del Ferencváros, che prevale su Bobby Charlton e il folletto Jimmy Johnstone, con Gemmell (6°) uno dei simboli del Celtic campione d’Europa a Lisbona sull’Inter di Mazzola e Facchetti. Gli unici italiani presi in considerazione oltre a Riva (13°) e Rivera (16°). 

Gli stessi azzurri, cui si aggiunge Domenghini (24°), compaiono nella graduatoria del ’68, anno in cui conquistano l’Europeo, l’unico del nostro calcio, a spese della grande Jugoslavia di Dzajic (3°). Il Pallone d’oro però va al fuoriclasse nordirlandese George Best, che regala al Manchester United di Charlton (2°) la prima Coppa dei Campioni dieci anni dopo la sciagura aerea di Monaco. 

In chiusura di decennio, finalmente, vince un italiano anche di nascita e non solo di passaporto: è il milanista Gianni Rivera, che nella finale di Coppa dei Campioni stende l’Ajax con assist illuminanti per l’oriundo brasiliano Sormani (15°) e il triplettista Prati (8°). Il podio è completato da Gigi Riva, l’altro azzurro presente, e Gerd Müller. La crema del gol continentale.

Anni 70

La finale mondiale col Brasile porta in classifica gli azzurri Riva (ancora 2°), Mazzola (8°), Rivera (10°), Domenghini (14°) e Facchetti (18°), ma al Pallone d’oro ci arriva Müller che del torneo iridato è tiratore scelto: 10 centri. 

La Coppa dei Campioni, vinta dal Feyenoord sul Celtic (assente in classifica), “incide” poco: Kindvall e van Hanegem (14-esimi) e Hasil (24°) spiegano che la forza di quella squadra era il collettivo. Nel ’71-73 in Coppa dei Campioni a dominare è l’Ajax di Cruijff, il primo a vincere il Pallone d’oro per tre volte, seppure non consecutive. 

Nel ’71 glielo contendono Mazzola (l’unico italiano nei primi dieci) e Best. L’anno dopo glielo sfilano Beckenbauer, Müller e Netzer, simboli della Germania campione d’Europa e prima nazione capace di monopolizzare il podio. In precedenza, al massimo si era arrivati a due della stessa nazionalità: gli inglesi Wright e Edwards (ex aequo con Kopa) nel ’57), i francesi Kopa e Fontaine nel ’58, gli spagnoli Suarez e Amaro nel ’64 e gli italiani Rivera e Riva nel ’69. 

Nel ’72, l’anno in cui i biancorossi di Amsterdam si assicurano il grande slam (compresi campionato e coppa d’Olanda e Intercontinentale), si contano cinque ajacidi: Cruijff (4°), Keizer (5°), Hulshoff (7°), Gerrie Mühren (11°) e Neeskens (14°). Gli italiani sono 3: Mazzola (15°), capitano dell’Inter finalista a Rotterdam, Chinaglia e Rivera (18esimi). 

Nel ’73, il Profeta del gol, nel frattempo passato al Barcellona, toglie a Zoff, imbattuto in azzurro dal 20 settembre 1972 (lo sarà sino al 19 giugno 1974), la Coppa dei Campioni in quel di Belgrado e la possibilità di diventare come Jascin: un portiere da Pallone d’oro. 

Nel ’74, Cruijff vendica la sconfitta mondiale anticipando sul podio Beckenbauer e Kazimierz Deyna, fari rispettivamente della Germania campione del mondo a Monaco e della Polonia più forte di sempre. Ovviamente presenti in massa, con sette tedeschi (oltre al Kaiser, Breitner, Muller, Vogts, Maier, Bonhof e Hoeness) e sei polacchi (Lato, Gadocha, Tomaszewski e Gorgon). L’unico italiano, si fa per dire, è l’oriundo Altafini (15°), campione del mondo col Brasile a Svezia 58. 

Il ’75 è l’anno dello Shevchenko dell’epoca, Oleg Blochin che trascina la Dinamo Kyiv alla Coppa delle Coppe e brucia Beckenbauer, campione d’Europa col Bayern, e Cruijff, che al primo tentativo regala al Barça il titolo nella Liga che i blaugrana inseguivano da 14 anni. L’Europeo sorprendentemente vinto ai rigori contro la Germania Ovest dalla Cecoslovacchia vale a Viktor, portiere del Dukla Praga, il terzo posto dietro il solito Beckenbauer (che col Bayern centra la terza Coppa dei Campioni consecutiva) e Rob Rensenbrink, ala sinistra olandese dell’Anderlecht è forse, in quel momento, il miglior giocatore del pianeta. 

Curiosa, per non dire stravagante, l’assenza fra gli altri cecoslovacchi votati (Ondrus, Masny, Pollak), l’assenza dei più celebri Nehoda e Panenka (l’inventore del rigore “a cucchiaio”), entrambi decisivi dal dischetto. 

Accessorio il contingente italiano, che schiera Causio (12°), Bettega (15°) e Zoff (26°), con i primi due presenti (13° il Barone, 4° “Penna Bianca”, assieme al viola Antognoni, 26°) anche la stagione dopo, quella dell’accoppiata scudetto-Coppa UEFA. 

Proprio nel ’77 comincia la supremazia inglese nel massimo trofeo continentale, cui però non seguirà un fedele riverbero nelle graduatorie del Pallone d’oro. La Coppa va al Liverpool di Keegan, ma il trofeo è del danese Allan Simonsen, prolifica aletta della rivelazione Borussia Mönchegladbach di Vogts (10°) e Bonhof (20°) battuta in finale all’Olimpico di Roma. 

Argentina 78 affolla il podio con i gol dell’austriaco Krankl e Rensenbrink, ma il gradino più alto è ancora di Keegan, nel frattempo passato all’Amburgo. Tutti juventini gli azzurri di Bearzot, tranne il vicentino Paolo Rossi (5°), peraltro bianconero prossimo venturo: Bettega (4°), Cabrini (13°) e Causio (21°). Da notare, tra i 7 olandesi votati (Krol, Haan, Willy van de Kerkhof e Neeskens), il 15° posto di Cruijff, grande assente alla Coppa del Mondo e prossimo al primo ritiro. 

Dopo la doppietta del Liverpool, la Coppa dei Campioni resta altri due anni in Inghilterra, ma al Nottingham Forest. Il gol che nel ’79 la sottrae al Malmö è di Trevor Francis, che a quel lampo deve il 7° posto, comunque lontano dal podio, dove subito sotto al confermato Keegan salgono Rummenigge e Krol. Dimezzata la rappresentanza italiana, rimasta con Paolo Rossi (6°), prestato al Perugia, e Franco Causio (21°). 

Anni 80

Per salire l’ultimo gradino “Kalle” deve vincere gli Europei, successo che arriva grazie al talento di Bernd Schuster (2°) e Hansi Müller, e alla forza fisica di Hrubesch (6°) e Kaltz (10°), che in nazionale si consolano per la sconfitta dell’Amburgo con il Forest di Anderson (16°), Francis e Shilton (27esimi). Da segnalare il 3° posto di Platini, promettente mezzapunta del Nancy, e nemmeno un voto per Keegan, campione uscente, finalista di Coppa Campioni e top scorer dell’Europeo. 

Rummenigge resta in sella nell’81, quando il podio torna a colorarsi di Germania come nel ’72: Breitner e Schuster sopravanzano Platini. 

Spagna 82 premia il capocannoniere mundial “Paolorossi”, l’uomo che ha fatto piangere il Brasile e primo di una nutrita colonia azzurra: Conti (5°), Zoff (8°), Antognoni (11°), Scirea (12°) e Tardelli (15°), che avrebbe meritato maggiore considerazione. Inesistenti le tracce dell’Aston Villa campione d’Europa sul Bayern di Rummenigge (4°) e Breitner (15°), i soli che in un mese e mezzo perdono due finali: di Coppa dei Campioni e mondiale. 

L’83 è l’anno di Atene e la batosta subita contro l’Amburgo di Magath (5°) dalla Juventus dei “sei campioni del mondo (tra cui Cabrini e Rossi, 23esimi) più Bettega, Boniek (30°) e Platini” non impedisce a quest’ultimo di alzare il primo dei suoi tre palloni d’oro consecutivi. Impresa sin qui unica. 

Nell’84 conta, e parecchio, l’Europeo vinto in casa dalla Francia che a "le Roi" Platini capocannoniere (8 gol) affianca Jean Tigana (2°), Alain Giresse (9°), con Luis Fernandez gli altri componenti il celebre carré magique di centrocampo, e il libero Maxime Bossis (12°). Terzo è il danese Preben Elkjær (please, niente suffisso "Larsen": falso storico da wikipedia italiana), panzer che l’anno dopo, nel Verona dei miracoli, trascinerà i gialloblù di Bagnoli allo scudetto e se stesso al secondo gradino del podio, sotto Platini ma sopra Schuster. 

Sparito l’unico italiano presente in classifica l’anno prima, Antonio Cabrini (14°), bisognerà aspettare dodici mesi prima di vederne un altro: Alessandro Altobelli (10°), proprio nell’edizione ritenuta più “scandalosa” dal punto di vista tecnico per via dell’incoronazione di Igor Belanov, modesta ma velocissima punta della Dynamo Kyiv e dell’URSS. In patria godono di maggiore stima il rifinitore Alexander Zavarov (6°), finito poi alla Juventus, il portiere Rinat Dassaev (16°) e il centrocampista Pavlo Yakovenko (21°). 

Piazzati, grazie alle prestazioni messicane, Gary Lineker e Emilio Butragueño, bomber di Inghilterra e Spagna. Ottavo posto per Helmuth Ducadam, "eroe" di Siviglia per i 4-rigori-4 parati nella vittoriosa finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona (e non per la bufala del successivo oblio per presunta vendetta del regime di Nicolae Ceaușescu). Poco considerata la Germania Ovest vicecampione del mondo: Schumacher (17°), K.H. Forster, Völler e Matthäus (24esimi), deputato alla marcatura del non votabile Maradona. 

Nell’87 la giuria compie una scelta lungimirante: Ruud Gullit, che in patria ha vinto tutto e che al Milan si appresta a fare altrettanto in Europa e nel mondo. Ineleggibile l’algerino Madjer, la seconda piazza va a Futre, suo compagno al Porto campione d’Europa sul favorito Bayern. Terzo, ancora “el Buitre”. Due gli italiani, Vialli (8°) e Altobelli (30°). Nell’88 si apre l’èra-van Basten, vincitore anche nell’89 e nel ’92 (fin lì recordman con Cruijff e Platini), e del Milan di Sacchi. 

Tutto rossonero e olandese il podio nell’anno del successo oranje agli Europei tedeschi: Gullit e Rijkaard; con Baresi al posto di Gullit (7°) nell’edizione seguente. A Euro 88, le terze ex aequo sono premiate con quattro rappresentanti: Vialli (7°), Baresi (8°), Zenga (17°) e Mancini (20°) per l’Italia; Mikhailichenko (4°), Zavarov (8°), Kuznetsov (11°), Dassaev e Demianenko (13esimi) per l’URSS.

Anni 90

Se nell’89 lo scudetto dei record porta in dote all’interista Lothar Matthäus il 4° posto, è quasi ovvio che la vittoria a Italia 90, da capitano, significhi per lui il Pallone d’oro. "Totò" Schillaci, primo dei quattro azzurri presenti (Baresi è 5°, Baggio 8°, Zenga 12°), è secondo davanti a Andy Brehme, scudiero di Lothar nell’Inter e nella Nationalmannschaft. Alla quale regala la Coppa FIFA trasformando il decisivo e dubbio rigore assegnato ai tedeschi dell'Ovest nella orribile finale con l’Argentina dal messicano Edgardo Codesal Mendez. 

In classifica ci sono altri tre campioni del mondo (Klinsmann 6°, Buchwald 10° e Völler 18°), addirittura uno in meno dei 6 inglesi votati: Gascoigne (4°), il futuro sampdoriano Walker (12°), Barnes, Lineker, Platt e Waddle (18-esimi). Assente il Benfica di Eriksson, finalista perdente di Coppa dei Campioni – 0-1 col Milan di Baresi e Rikaard (9°) – ma priva di grandi individualità. 

Nel ’91 il merito per i tre italiani (Vialli 7°, Mancini 19° e Pagliuca 21°) votati è dello scudetto doriano. I vertici però appartengono ad altri. E ad altro. Nello specifico, alla Coppa dei Campioni vinta dalla Stella Rossa di Savicevic, Pancev, Prosinecki, Belodedici (occhio alla i terminale: dettaglio non banale). E persa dall’Olympique Marsiglia di Jean-Pierre Papin, che portandosi a casa il Pallone d’oro si consola. JPP dovrà farci l'abitudine, non al Pallone ma alla Coppa che scappa: la perderà anche nel ’93, col Milan, e proprio contro gli ex compagni dell'OM. Se non è destino questo...

L’anno successivo, la prima Coppa Campioni della storia blaugrana non basta a Hristo Stoitchkov (2°), Michael Laudrup (7°), Koeman (8°), autore della punizione-gol decisiva contro la Sampdoria a Wembley, per sopravanzare il Cigno di Utrecht, al secolo Marco van Basten. 

Lo stessa dicasi per la cenerentola Danimarca, richiamata da mari e monti in sostituzione della martoriata Jugoslavia e poi incredibilmente incoronata regina d’Europa in Svezia: Schmeichel (5°) e il minore dei Laudrup, Brian (6°); Michael (7°) alla convocazione rispose “no, grazie” in polemica col Ct Richard Møller-Nielsen. 

La Coppa UEFA conquistata - pareggiando (più granata-way di così...) - dall’Ajax sul Torino porta Denis Bergkamp alla ribalta continentale, e sul più basso gradino del podio. 

Il terzo successo italiano, Sivori a parte, arriva con Roberto Baggio nel 1993, anno dispari eppure insolitamente slegato dalla Champions League (il nuovo nome della Coppa dei Campioni), andata all’OM di Alen Boksic, subito ceduto alla Lazio, e Basile Boli, autore del gol decisivo in finale al Milan. Lo juventino guida una cospicua truppa italiana: Baresi (6°), Maldini (7°), Dino Baggio e Signori (21esimi). Sul podio, il neointerista Bergkamp e Éric Cantona. 

Stoitchkov si prende la rivincita nel ’94, anno in cui il terzo posto mondiale con la Bulgaria (Letchkov 13°, Balakov 16°) gli consente di beffare gli azzurri Roby Baggio (2°) e Maldini (3°). E con quest’ultimo, a differenza dello squalificato Baresi (11°), in campo anche nel memorabile 4-0 che il Milan di Capello inflisse ad Atene al Barcellona di Cruijff nella finale di Coppa dei Campioni. Gli azzurri lo avevano battuto in semifinale prima di essere sconfitti dal più brutto Brasile vincente di sempre. Tra gli italiani, Signori (16°), capocannoniere in A (23 gol) che poi si pentirà del gran rifiuto a Sacchi che voleva schierarlo in finale ma da esterno alto a sinistra anziché da attaccante puro. 

Quella del 1995 è invece un’edizione spartiacque nella storia del trofeo, finalmente aperto a tutti i giocatori che militano in Europa. Ma da assegnare, per evitare partigianerie e favoritismi, pescando in una preventiva rosa di 50 candidati individuati dalla redazione di France Football

La prima scelta del nuovo corso cade su George Weah, centravanti liberiano del Milan al quale pensano anche i Ct interpellati dalla FIFA per eleggere il neonato World Player of the Year. Finalmente, e da allora succederà nel 50% dei casi, almeno su una cosa selezionatori e giornalisti la penseranno allo stesso modo. 

La finale di Champions League, al di là della sconfitta (0-1) del Milan con l’Ajax, vale quasi da sola 11 voti: 6 rossoneri (oltre al vincitore, Maldini, Desailly, Savicevic, Baresi, Boban) contro 5 ajacidi (Litmanen, Kluivert, autore del gol-vittoria, Overmars, l’ex di lusso Rijkaard, Finidi George). 

Lo scudetto juventino fa segnalare Del Piero (4°), Ravanelli (12°), Paulo Sousa (14°), Vialli (19°) e Baggio (23°), mentre la Coppa Uefa vinta dal Parma fa conoscere all’Europa la classe di Zola (6°). 

Nel ’96 la Juve batte ai rigori l’Ajax e vince la sua prima Champions League “vera”, ma Del Piero resta un gradino sotto il podio. L’assegnazione a Matthias Sammer (davanti, sic, a Ronaldo e a Shearer) è, per alcuni, un nuovo caso-Belanov. 

Buon giocatore, il libero tedesco si laurea campione d’Europa con la nazionale e l’anno dopo fa altrettanto a livello di club con il Borussia Dortmund contro la Juve, ma per i giurati è degno “solo” del nono posto. Vince il 21-enne Ronaldo, il più giovane premiato nella storia del trofeo, davanti al madridista Predrag Mijatovic e allo juventino Zidane. 

Gli ultimi due avversari nella finale di Champions League ’98, appuntamento deciso - in offside - dal montenegrino (16°) ma fatalmente meno influente del mondiale vinto dai Bleus di “Zizou” che grazie anche alla doppietta in finale sul Brasile di Ronaldo (3°) si aggiudica le Ballon d’or. Piazza d’onore per Davor Suker, terzo con la Croazia a Francia 98 e anche lui campione d’Europa col Real Madrid. Del Piero (16°) e Vieri (26°) sono gli unici italiani votati. 

Chiude il decennio una delle più belle finali di Champions League della storia. La vince rimontando nel recupero (con Sheringham e Solskjær) sul Bayern il Man Utd di Beckham, secondo dietro a Rivaldo e davanti a Shevchenko, che l’anno dopo occuperà la stessa posizione. Sull’onda del successo laziale nell’ultima edizione della Coppa delle Coppe, Christian Vieri, settimo, è l'unico italiano in classifica. 

Il Duemila.

Il primo Pallone d’oro del terzo millennio va a Luis Figo, appena passato dal Barcellona al Real Madrid fresco vincitore della Champions League. Zinédine Zidane, secondo, si consola con il titolo europeo. Nesta (5°), scudettato con la Lazio, è il migliore degli altri azzurri battuti dal golden-gol di Trezeguet: Maldini (10°), Toldo e Totti (14-esimi). 

Le cinque coppe del Liverpool premiano, forse un po’ affrettatamente, l'enfant-prodige Michael Owen. Raúl González Blanco, secondo dopo il nono posto dell’anno prima, resta ancora beffato. Forse più lui che Oliver Kahn, campione d'Europa col Bayern ai rigori contro il Valencia a San Siro in una delle finali di Champions League più noiose di sempre; e David Beckham (che regala la qualificazione mondiale all’Inghilterra) o Totti, tricolore con la Roma. 

Nel 2002 il mondiale nippocoreano consacra la rinascita agonistica di Ronaldo il Fenomeno, anche se il trofeo lo meritava magari più Roberto Carlos, suo compagno al Real Madrid (vincitore della Champions League) e nel Brasile pentacampeão. Kahn, terzo, ha forse pagato le incertezze della finale, dove peraltro la Germania era arrivata grazie soprattutto a lui. Quasi folcloristica la presenza italiana: Del Piero è 10°, Inzaghi 24°. 

Tutto diverso nel 2003, con il derby tricolore (biancorossonero) come epilogo della Champions League. Il Pallone d’oro va allo juventino Pavel Nedved, che almeno si consola di aver saltato per squalifica la finale vinta dal Milan di capitan Paolo Maldini (3°, primo dei sette italiani andati a punti) e Andriy Shevchenko (4° e autore del penalty decisivo in finale all'Old Trafford). Secondo, un altro grandissimo: Thierry Henry dell'Arsenal.

Sheva vinse l'ann dopo, anche se era stato Deco, brasilian naturalizzato portoghese, a salire sul tetto d’Europa col Porto e aveva mancato di un pelo il bis con la nazionale lusitana, incredibilmente battuta in casa dalla Grecia a Euro2004. A Ronaldinho (Barcellona) e Henry, coinvolto e travolto nell'euroflop transalpino, non erano bastate le magie dispensate in serie con i rispettivi club. 

Nel 2005 probabilmente sarà diverso, specialmente per il primo. Uno che giocando diverte e si diverte. Uniche insidie: Frank Lampard, stella fra le stelle del Chelsea all-star; Steven Gerrard, che ha vinto la Champions League quasi da solo e l stess "Titì" Henry, che nel dimesso Arsenal di questi tempi, tra un capolavoro e un infortunio, ha messo in bacheca soltanto la FA Cup, vinta senza neppure aver disputato la finale. Troppo poco per correggere la perfetta imperfezione del sorriso di Dinho. Poeta sommo del joga bonito.

Christian Giordano
Guerin Sportivo

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