Hoeness contro il drago


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L’incredibile storia di uno dei “Kaiser” del calcio tedesco, e del suo rapporto con il gioco

di Christian Giordano
Ultimo Uomo, 7 gennaio 2016

4028BEA. Non è la matricola di Ulrich Hoeness al carcere di minima sicurezza di Rothenfeld, ma quello del suo ex conto segreto alla Bank Vontobel di Zurigo. Il motivo per cui è stato rinchiuso, perdendo venti chili, al Landsberg, penitenziario a 65 km di Monaco, che nel dopoguerra ha accolto i nazisti accusati di crimini di guerra. Sette i capi d’imputazione, e una condanna a tre anni e mezzo di reclusione per «un caso particolarmente grave di evasione fiscale», secondo il PM Achim von Engel, che di anni ne aveva chiesti due in più: 28,5 milioni di euro sottratti al fisco. Cifra che il giudice Rupert Heindl ha ritenuto più precisa dei 27,2 «stimati per difetto», e comprovati in dibattimento, dall’ispettore delle tasse Gabriele Hamberger.

Il ritratto del naufrago Hoeness, quello che ne emerge dalla vicenda giudiziaria che lo ha travolto come un’onda solo in parte inattesa, ci consegna una figura dalla complessità ambigua: come si conciliano le immagini di uno dei calciatori di maggior successo nella Germania degli anni ’70, e poi un manager di assoluta affidabilità, per certi versi geniale, capace di guidare il Bayern per un ventennio fino a condurlo sulle vette calcistiche d'Europa, di un campione, con quella di un uomo così prigioniero della sua avidità da diventare un grande evasore, per usare un termine forte, un bandito?
Bisognerebbe chiedersi quanto c’entri, il destino.

Un destino eccezionale
Jung Siegfrid, il giovane Sigfrido: così era chiamato quando, come tutti gli eroi, il calciatore Uli Hoeness era giovane e bello; e trattandosi di mitologia germanica, inevitabilmente biondo, con occhi chiari e mascella volitiva. Come ha scritto Libération, Hoeneß è sempre stato una figura polarizzante, segnata da un «destino eccezionale, di quelli che i tedeschi adorano».

Figlio maggiore di un macellaio di Ulm, 120 mila anime che guardano il Danubio e dove il Baden-Württemberg è già quasi Baviera, Uli con i soldi dimostra presto di saperci fare: in negozio è lui, a star dietro ai conti. A differenza di papà Erwin e mamma Paula, che non hanno mai voluto espandere la macelleria di famiglia, Uli è sempre stato «incredibilmente, quasi perdutamente ambizioso».
Se dal registratore di cassa mancavano 5 pfennig, il padre chiudeva il negozio finché non saltavano fuori. Uli invece sin da piccolo ha sempre pensato in grande. Al padre chiedeva di svegliarlo alle 5,30 per andare a correre prima di scuola, dove ovviamente fu subito capoclasse, gestì il giornalino d’istituto e superò brillantemente gli esami. Col calcio aveva cominciato nelle squadrette della sua città, prima l’Ulm poi il TSG Ulm 1846, e sui campetti. Di rado però sceglieva suo fratello Dieter, più piccolo di un anno, perché lo riteneva troppo scarso. Con il tempo avrebbe cambiato idea.
Perdere era la peggior cosa che potesse capitargli. Prendeva ogni sconfitta come un affronto personale. A quindici, al TSG Ulm, disse a un compagno: «Guarda, gli altri sono fuori a bersi una birra, noi un giorno giocheremo nel Bayern».

Personalità debordante
A otto anni aveva disobbedito al prete che lo voleva accanto in processione e si era fatto cinquanta km in bici per raggiungere la sua squadretta, che stava perdendo 4-0. Uli entrò nella ripresa, segnò cinque gol e ribaltò la partita: 6-5. Ovvio capitano della nazionale Under 15, se giocava bene faceva in modo che la stampa locale ne desse ampio risalto. «Non c’è stato giorno in cui non mi abbia dato l’impressione di sapere esattamente che cosa volesse», dirà decenni dopo il suo allenatore dell’epoca.
Nel gennaio 1970, compiuti i 18 anni, appena firmato (col sodale Breitner) per il Bayern, aveva telefonato al maggior quotidiano di Ulm perché pubblicasse la notizia. Subito dopo era alla guida di un’auto nuova fiammante.

Lui però era diverso dagli altri calciatori. Giocava nel Bayern ma non lasciò gli studi: nel ’71 conseguì l’Abitur (la Maturità tedesca), ma anziché a economia s’iscrisse ai corsi per diplomarsi insegnante di inglese e storia. Abbandonò dopo due semestri per i troppi impegni calcistici, ma con l'iscrizione all'Università aveva mantenuto lo status di “dilettante” che gli aveva permesso di partecipare all’olimpiade di Monaco ’72 nel suo Olympiastadion, la casa del Bayern costruita proprio per quei Giochi – poi sostituita dalla Allianz Arena, costata al club 340 milioni, che è invece il suo fiore all’occhiello da dirigente.

Nella prima stagione al Bayern si era subito ritagliato un posto da titolare: aveva sfiorato il titolo ma vinto la Coppa di Germania. Qualche mese dopo, annunciate le nozze con Susi, aveva ceduto per 25 mila marchi (75 mila secondo Der Spiegel) i diritti per le foto del matrimonio e un’intervista esclusiva. La stagione successiva, in pochi mesi aveva venduto – e autografato a pagamento – trecentomila copie del libro sulla coppa del mondo appena vinta. Per una ditta di abbigliamento maschile aveva posato a torso nudo in pantaloncini (inaudito, all’epoca). E aperto metà della sua nuova dimora a un gruppo di turisti, con i quali si era fatto ritrarre in guanti da forno mentre serviva loro della Leberkäse, specialità bavarese di carne.
A 25 anni aveva già vinto un Europeo, un Mondiale, tre Bundesliga consecutive, altrettante Coppe dei Campioni, e anche una Intercontinentale contro il Cruzeiro di Belo Horizonte.

Al Bayern Hoeness aveva incontrato Franz Beckenbauer – il cui padre riteneva i calciatori troppo stupidi per risparmiare – e non pochi problemi.
Beckenbauer a volte si sentiva in dovere di prendere da parte il giovanotto per spingerlo a concentrarsi di più sul calcio, e redarguirlo per l’eccessiva “cocciutaggine”. Per farla breve, Hoeneß andava a genio a pochi, pure tra i compagni. Netzer una volta lo definì un «bandito». Successe a inizio 1974, quando, si narra, Hoeneß lo mise in ridicolo per farlo fuori dalla nazionale.
«La sua sfrontatezza non a tutti piaceva», raccontava il suo allenatore-mentore Udo Lattek.

Enfant prodige, in campo e fuori
Nel maggio del 1979 il presidente del Bayern, Wilhelm Neudecker, lo nominò come rimpiazzo del business manager Robert Schwan. A 27 anni e quattro mesi, Uli divenne così il più giovane manager nella storia della Bundesliga.
«Misi una cravatta, mi diedero una scrivania e dopo tre ore non c’era altro da fare», così Hoeneß descrive il suo primo giorno da general manager del club.
Il Bayern aveva debiti per 7 milioni di marchi. Un fardello pesante almeno quanto quello di un glorioso passato che pareva irriproducibile, con Beckenbauer ai New York Cosmos già da due anni e Müller pronto a raggiungerlo nella NASL (ai Fort Lauderdale Strikers). Uli confessò all'amico Breitner che da quello sfascio avrebbe costruito  «un altro Real Madrid».

Nell’estate 1979 prese dallo Stoccarda il fratello Dieter per appena 175 mila marchi. Fu il suo primo colpo, e forse l’epitome della filosofia societaria agli inizi della sua gestione. Con giocatori limitati, poco costosi ma molto determinati, il Bayern anni 80 praticava davvero quel calcio noioso e controllato di cui, a torto, veniva accusato negli anni 70.
La squadra veniva da oltre un decennio di calcio piuttosto grezzo. Una volta segnato un gol si arroccava in un gioco ultra-difensivo, votato a mantenere il risultato, roccioso come il suo condottiero Klaus Augenthaler. In parte, era un segno dei tempi, ma quel calcio rifletteva anche il carattere di Hoeneß.
Non appena in campionato si metteva in mostra qualche giovane talento, però, Hoeneß era il primo a soffiarlo alla concorrenza. Nei primi anni 90 il Karlsruher si piazzò stabilmente nelle prime posizioni, e uno dopo l’altro il Bayern gli portò via Michael Sternkopf, Oliver Kreuzer, Mehmet Scholl e Oliver Kahn, seguiti poi da Thorsten Fink e Michael Tarnat. Altra politica che certo non ti porta amici.

Un altro duro colpo alla competitività degli avversari Hoeneß lo aveva rifilato a inizio dicembre 1999, quando aveva firmato un accordo segreto con il gruppo Kirch, che all’epoca tramite le emittenti SAT.1 e Premiere trasmetteva le partite della Bundesliga. Nel 2000, davanti alla Commissione di Lega lo stesso Hoeneß aveva appoggiato l’offerta di Kirch. Un’esposizione tale da spingere lo studio legale Lovells a emettere un comunicato in cui si sottintendeva che i bavaresi, sotto Hoeneß, erano stati “comprati” dal gruppo Kirch.

Era questo il manager che aveva fatto del Bayern il più importante club del paese, il dirigente illuminato capace di anticipare trend e sfide e diventare uno degli uomini più influenti di Germania, nel calcio e fuori. Il ritratto però non è completo, perché dipinge un Hoeneß monodimensionale: cuore di pietra, freddo calcolatore interessato solo ai risultati (sul campo e a bilancio), un personaggio che la massa conosce e spesso disprezza.
Uli però del Bayern non è solo il cervello: è anche l’anima, il cuore, lo spirito. L’incarnazione stessa del mantra Mia san Mia. Noi siamo noi.


La sciagura di Hannover
Il 17 febbraio 1982, Uli fu l’unico sopravvissuto di un incidente aereo in cui perirono tre dei suoi migliori amici: Helmut Simmler, 35enne direttore editoriale della Copress di Monaco; il 30enne pilota Wolfgang Junginger, bronzo ai mondiali di sci alpino nel 1974; e il co-pilota Thomas Kupfer, studente 25enne. «Quel giorno il ragazzo solare che era in me morì», dirà. Chi lo conosce bene sostiene che a morire fu anche il suo lato egoista.
Hoeneß era diretto a Hannover per assistere alla partita della Germania Ovest contro il Portogallo. Voleva vedere dal vivo in che condizioni era il suo vecchio compagno Breitner a pochi mesi dal mondiale e aveva invitato il presidente del Bayern, Willi Hoffmann. Hoffmann però, all’idea di volare con un bimotore a propulsore, aveva declinato. «In realtà volevo andarci – ricorda Hoffmann – ma poi rinunciai. Neanche Uli era sicuro di partire, aveva passato tutto il pomeriggio a discutere contratti con diversi giocatori e aveva deciso all’ultimo». Forse proprio perché aveva lavorato tanto, a differenza di Simmler si era sdraiato in coda per riposare. E quel pisolino gli aveva salvato la vita.

Karl-Heinz Doppe, la guardia forestale che lo aveva salvato, non seguendo il calcio non lo aveva riconosciuto. Anzi, nemmeno sapeva chi fosse. «Quando mi dissero di chi si trattava, chiesi: “E chi è, Uli Hoeneß?”».
Uli si era addormentato con la cintura di sicurezza slacciata, nell’impatto era stato sbalzato fuori e così si era salvato, cavandosela con nove giorni di ospedale, una lesione polmonare, una commozione cerebrale e fratture multiple alla parte destra del corpo.
Da quel giorno Doppe ha preso l’aereo solo una volta, e per far contenta la consorte. Della Con il manto della volpe argentata appena cacciata che gli ha permesso di salvare Hoeness dall'assideramento ha tessuto una stola e l’ha donata alla moglie di Uli «per ricordo. Senza di me, probabilmente il marito non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe morto d’ipotermia».
Da quell'incidente, se gli capita di volare con piccoli aeroplani, Hoeneß siede sempre in coda. A destra.


«Wohlfahrtsorganisation»
Sotto la sua guida, il Bayern pian piano e spesso in segreto era diventato quello che lo scrittore Dietrich Schulze-Marmeling ha definito «Wohlfahrtsorganisation», una sorta d’istituto per il welfare sociale. Nessun altro club tedesco ha giocato più amichevoli per beneficenza e più si è prodigato per la raccolta fondi da devolvere ai bisognosi.

Da quando Markus Babbel se n’è andato al Liverpool sbattendo la porta, nel 2000, ha sempre ripetuto che mai avrebbe parlato male di Hoeneß: «Tra i top club in Europa, il Bayern è il più umano. Se c’erano dei problemi, si è sempre dimostrato generoso. Prendete Alan McInally, rimasto invalido (a un ginocchio) e senza assicurazione. Il club gli disse: “Ti daremo l’indennità di buonuscita”. Quei soldi non glieli dovevano, glieli donarono. Il nostro business manager è uno con cui di cose come queste si può parlare».
A fine 1987, il centravanti danese Lars Lunde ebbe un grave incidente stradale. Era chiaro che non avrebbe più giocato ai massimi livelli ma Hoeneß fece tutto ciò che poté per aiutarlo, e non solo finanziariamente. Per settimane se lo tenne in casa e avrebbe fatto qualcosa di simile parecchi anni dopo per aiutare Mehmet Scholl a guarire dalla depressione.
Hoeneß era stato anche la forza motrice nel recupero di Gerd Müller dall’alcolismo. Gli fissò il primo ricovero in un centro di disintossicazione e poi gli offrì un posto nelle giovanili nonostante i tanti lo avessero messo in guardia sulla presunta inaffidabilità dell’ex Der Bomber.

Der Kokain-Affäre
Ma nello strapotere del Bayern e di Hoeneß c’erano anche aspetti che a tanti in Germania non andava giù; ad esempio le ingerenze del gm in questioni generali del calcio tedesco, tipo la nomina del Ct.

Nel 2000, esaurita la gestione-Erich Ribbeck, la federazione affidò la nazionale a Rudi Völler: contratto di un anno come traghettatore in attesa che dal Colonia si liberasse Christoph Daum.
Nel settembre 2000, un tabloid di Monaco pubblicò un articolo che gettava altro fango su Daum per una causa intentatagli da un ambiguo ex socio d’affari. L’articolo però conteneva una strana frase, lasciata un po’ a metà, che poteva essere interpretata come un legame tra Daum e l’assunzione di droghe. Nessuno le diede peso, ma il primo ottobre Hoeneß dichiarò che se un giornalista si permetteva di insinuare, senza essere smentito, che Daum si faceva di coca, «allora mi faccio delle domande. E se qualcuno portasse delle prove, non potrei ignorarle. Allora il signor Daum non potrebbe diventare l’allenatore della nazionale».

Hoeneß divenne il nemico pubblico numero uno. Fu fischiato e insultato in ogni stadio, e persino minacciato di morte. Daum professò innocenza ma basandosi sul principio che «è l’accusatore a dover dimostrare la colpevolezza dell’accusato». E rifiutò di sottoporsi al test del capello.
Tempo una settimana e cambiò idea. Al test però risultò positivo. La mattina dopo, Daum s’imbarcò su un aereo per la Florida prima che la notizia della sua positività giungesse alla stampa. Mentre Daum era in volo, a Rudi Völler fu chiesto di prendersi carico, temporaneamente, anche del Bayer Leverkusen, che Daum allenava dal 1996. Non appena Völler si sedette in panchina a guardare il suo Bayer che batteva il Borussia Dortmund, si sapeva già che presto Rudi avrebbe lasciato il posto a un allenatore “da Bundesliga” (Berti Vogts); ma Rudi ormai era il Ct e lo sarebbe rimasto fino al 2004. Tutto questo a causa, anche, delle parole non dette di Hoeneß.

Con le parole Hoeness sembrava essere nelle condizioni di fare il bello e il cattivo tempo. Ma le parole sono un'arma pericolosa, quando si usano senza innescare la sicura; e anche quando vengono represse troppo a lungo.

Secondo la ricostruzione fatta da Nathalie Versieux, corrispondente da Berlino del quotidiano francese Libération, è in quel periodo, a cavallo degli anni Zero e in coincidenza con lo scoppio della prima bolla speculativa del terzo millennio, che iniziano le sciagure di Uli. Neppure troppo sorprendente, avanzano a braccetto con la menzogna.
Giocatore di borsa incallito, Hoeneß aveva nascosto in un conto off-shore svizzero parte dei redditi provenienti dalle sue transazioni sul mercato azionario. Redditi mai dichiarati e sui quali, quindi, non aveva pagato le tasse.

http://www.liberation.fr/sports/2014/03/07/uli-Hoeneß-dans-la-nasse-fiscale_985344

Dal 2001 al 2012 Hoeneß aveva fatto oltre 50 mila transazioni sul mercato azionario. Ormai a livelli di dipendenza compulsiva, spiegabile forse solo con la Teoria dei giochi, Uli viveva attaccato al suo pager, spesso persino durante le partite, in riunione e nelle lunghe nottate insonni negli hotel superlusso durante le trasferte con la squadra. Quale che fosse l’aggeggio tecnologico del momento, dai colleghi al Bayern era stato ribattezzato «il suo Tamagotchi».

E proprio Der Patriarch è il titolo del biografico doku-drama dedicato a Hoeness: prodotto dalla ZDF e diretto da Christian Twente, dura significativamente 90'. Per realizzarlo gli sceneggiatori si sono avvalsi delle consulenze di una dozzina di persone che sono state vicine a Uli: cronisti, allenatori delle giovanili, perfino l'ex sindaco di Monaco, Christian Ude.
La fiction svela al grande pubblico due aspetti molto privati di Hoeness: fino a che punto fosse arrivata la sua dipendenza dal gioco in borsa e il suo rapporto morboso col denaro.
Del primo sono stati attendibili testimoni due suoi antichi competitor nel calcio: “Calli” e “Willi”, al secolo Reiner Calmund, ex business manager del Bayer Leverkusen, e Wilfried Lemke, intimo amico di Uli e per diciotto anni manager del Werder Brema.
Il secondo si deve a Waldemar “Waldi” Hartmann, giornalista sportivo di Norimberga la cui carriera è corsa parallela a quelle di Hoeneß. È sua la dritta su Hoeneß che si fa immortalare sul fondo della piscina decorato col mosaico del toro e dell’orso. Nel gergo finanziario il periodo “toro” (bull) si contrappone al periodo “orso” (bear), nel primo caso c’è un rialzo delle quotazioni, nel secondo il mercato è al ribasso.

A esplicita domanda se giocare in borsa gli avesse dato dipendenza, Hoeneß a Die Zeit nel 2005 rispose: «Non mi considero un malato se è questo che intende. Forse ci sono andato vicino per un paio d’anni ma oggi mi ritengo guarito».
Secondo l’ex presidente federale Theo Zwanziger, Uli col denaro aveva «un rapporto quasi erotico».

Il confine labile tra l'avidità della addiction e l’errore umano nel pasticciaccio della frode fiscale di Hoeness è davvero molto labile.
Su trenta milioni di introiti imputabili alle sue speculazioni finanziarie, Hoeness avrebbe dovuto versare al fisco tedesco 3,5 milioni.
Come migliaia di suoi connazionali, Hoeness sperava di mettersi in regola rilasciando una «dichiarazione spontanea», versando il 6% d’interessi sulle imposte non pagate e magari cavandosela con l’anonimato grazie al cosiddetto “accordo Rubik”.
In realtà già prima del Natale 2012 voleva rivolgersi alle autorità fiscali, ma il suo commercialista era andato in ferie per due settimane e così tutto era stato rimandato al nuovo anno.

Il 18 gennaio 2013, Uli ha quindi versato all’erario un iniziale conguaglio di 10 milioni. Nelle carte però qualcosa non quadra. La dichiarazione spontanea, peraltro incompleta, è stata stesa in modo sciatto, e in varie annate riporta ricavi e perdite al netto delle transazioni sui mercati azionari e valutari, il che non è consentito. «Un errore da principiante», ha commentato su Stern – protetto dall’anonimato – un legale di Monaco specialista in criminalità fiscale.

Hoeneß, quindi, si è sì autodenunciato, ma senza raccontare tutta la verità e soprattutto senza farlo nei termini previsti dalla legge. A cominciare dall’entità delle somme occultate, dieci volte quelle dichiarate. Inizialmente, intendeva avvalersi dell’accordo Rubik, il trattato bilaterale tra Svizzera e Germania che in cambio dell’autoaccusa, e del recupero delle somme trafugate all’estero, garantiva agli evasori l’anonimato. Sostenuto dai conservatori della cancelliera Merkel e osteggiato da verdi e socialdemocratici, l’accordo era stato approvato dal parlamento elvetico ma rigettato, nel dicembre 2012, dalla Camera dei Länder, il consiglio federale tedesco (Bundesrat).

http://www.spiegel.de/international/germany/bayern-president-uli-hoeness-may-end-up-in-jail-for-tax-evasion-a-897474.html

Avendo chiuso in negativo per un paio di esercizi, quelle perdite Hoeneß (o chi per lui) le aveva inserite a bilancio. E neanche questo è permesso. Non sorprende quindi che il fisco ne avesse rigettata la dichiarazione, ritenuta insufficiente e non conforme. Trasferito il dossier all’ufficio del procuratore di Monaco, il primo febbraio 2013 era così scattata l’indagine per sospetta evasione fiscale. Arrestato, e subito liberato su cauzione (da 5 milioni), Hoeneß aveva rivisto la propria dichiarazione, giudicata ora plausibile ma ancora non sufficientemente dettagliata.
I procuratori si erano detti soddisfatti, ma essa la dichiarazione aggiornata, ormai, non aveva più alcuna influenza sull’eventuale immunità rispetto al procedimento giudiziario.
Stando alla procura, Hoeneß aveva evaso le tasse per 3,2 milioni di euro, prontamente saldati all’erario dopo i 10 versati al momento dell’autodenuncia e prima dei 30 pagati come secondo conguaglio l’estate successiva. Adesso però gli inquirenti volevano sapere anche perché cifre tanto ingenti erano state depositate in quel conto svizzero. Per esempio: in solo una transazione valutaria, oltre 20 milioni. Motivi che Hoeneß mai ha spiegato.

A quel punto lo scandalo era già di pubblico dominio. E il paese, come sempre per le cose bavaresi, si era spaccato. Al sud, specie per chi tifa Bayern, si trattava di una leggerezza; per qualcuno del mestiere, persino del «classico errore da principiante». Al nord, per chi il Bayern e la ricca Baviera mal li sopporta, si invocava invece l’ancor più classica pena esemplare. È finita invece alla tedesca: tardiva ammissione di colpa del reprobo, redenzione senza sconti e con certezza della pena, successiva riconciliazione fra il mito rivelatosi fin troppo umano e il popolo, tornato a dividersi secondo tifo e/o convenienza.

Tanti nemici, poco onore
La bomba deflagrò nella più incredibile settimana in 113 anni di Bayern: l’arresto del presidente-filantropo-moralizzatore e il suo rilascio su cauzione per 5 milioni; il Barcellona spazzato via 4-0 nella semifinale di andata in Champions League; l'indiscrezione, pubblicata sabato 20 aprile 2013 da Focus, che Hoeneß fosse sotto indagine per sospetta evasione fiscale; la copertina del 29 aprile 2013 del Der Spiegel, uno squalo che in un mare di banconote si azzanna la coda sotto al titolo: «Das Hoeneß-Prinzip. Gier, Steuerbetrug und der FC Bayern». I princìpi di Hoeneß: avidità, frode e Bayern.
In quella settimana si definì il duplice scippo al Borussia Dortmund dei gioielli Mario Götze (pagati i 37 milioni di clausola rescissoria per averlo la stagione dopo) e Robert Lewandowski (rifiutati 25 milioni, ma il polacco arriverà a parametro zero nel 2014).

Un sentimento capace di cancellare il ricordo che nel 2005 era stato proprio lo stesso Hoeneß – nonostante la rivalità e dopo un incontro con i tifosi in campo neutro ad Amburgo – a salvare la società dal fallimento autorizzando il prestito di 2 milioni dal Bayern.
Così come era stato sempre Hoeneß, nel 2000, che aveva comprato di tasca sua azioni del Borussia (5.000 al collocamento, a 11 euro l’una), intestandole alla moglie Susi. Ci aveva perso 42 mila euro e lo avevano pure preso in giro, ma a ridere ultimo, col Borussia campione nel 2012, era stato lui.
Come a Dortmund devono dirgli grazie – per sostegni economici diretti o attraverso partite benefiche – altri club in difficoltà finanziarie quali St. Pauli, Hertha Berlino, Monaco 1860 e Hansa Rostock.

Il club era travolto dalla vergogna. I grandi sponsor del Bayern (Audi e adidas ne detengono ciascuna poco meno del 10% e nel consiglio direttivo sono rappresentati anche Allianz, Deutsche Telekom e Volkswagen, che di Audi è la controllante) volevano discutere del futuro di Hoeneß e della società: un evasore, per quanto influente, non poteva essere nemmeno lontanamente accostato ai loro brand e core-business.

Al presidente della Volkswagen, Martin Winterkorn – che Hoeneß lo conosce da quando la partnership Audi-Bayern nacque, una decina d’anni fa – sfuggirono commenti tipo «ha combinato un casino» e «chiunque punti il dito contro gli altri deve essere irreprensibile».
Winterkorn era uno che a Uli chiedeva consigli su quale allenatore ingaggiare al Wolfsburg, club della holding Volkswagen. Cosa che tecnicamente, per via di quel 9% abbondante controllato dall’Audi, è pure il Bayern. Persino più diretto Rupert Stadler, suo omologo all’Audi, che al Bayern, come al Milan, fornisce la flotta aziendale: «Hoeneß dovrà andarsene». E al board certo non aveva fatto piacere sapere dai media della perquisizione in villa e del suo arresto: «Almeno saremmo stati preparati, invece che presi alla sprovvista».

Scoperchiato ormai il vaso di Pandora, oltre a quella di frode fiscale Hoeneß doveva affrontare altre accuse. Corruzione in transizioni d’affari, tanto per dirne una. Perché mai, si chiedevano gli investigatori, e i dieci cronisti investigativi sguinzagliati dal settimanale Der Spiegel, Louis-Dreyfus gli aveva prestato, senza interessi, milioni da giocare in borsa? Erano forse un incentivo per il rinnovo della sponsorizzazione fra adidas e Bayern (accordo poi prolungato nel settembre 2001)?

Non si trattava certo del primo affare sospetto concluso tra la multinazionale tedesca e il club bavarese. Quella stessa primavera, il Bayern stava negoziando il trasferimento di Claudio Pizarro del Werder Brema. Sulla scia dei 19 gol segnati la stagione precedente, l’attaccante peruviano e il suo manager avevano sparato alto: 7 milioni di dollari netti per quattro anni, più 8 netti di bonus. Il Bayern così tanto non voleva spendere, e così subentrò lo sponsor tecnico. Pizarro firmò con loro un contratto pubblicitario di otto anni per un valore di 21,6 milioni di dollari; che, tolte le tasse, facevano 8 milioni netti. A margine dell’accordo c’era una scrittura confidenziale («due originali, niente copie») nella quale era il club a garantire quel bonus.

Inevitabile quindi che qualcuno gli rinfacciasse certe esternazioni. «So che è stupido, ma io le mie tasse le pago tutte», aveva dichiarato al Bild nel 2005, tre anni dopo aver detto che «non ha alcun senso finire in prigione per pochi euro di tasse». Mentre al periodico economico Brandeins nel 2012 aveva dichiarato: «Certo che inseguo il successo, ma non a qualunque prezzo. Sono solo soldi, deve esserci un punto in cui ti devi sentire soddisfatto».

Per Dagmar Freitag, presidentessa del Comitato Sportivo della Camera Bassa al Bundestag (il parlamento tedesco), «evadere le tasse è un reato grave che richiede pene adeguate. E chi per soldi tradisce il suo paese, non può essere ritenuto un buon modello di comportamento».
La cancelliera Angela Merkel dei conservatori cristianodemocratici (CDU) e il primo ministro della Baviera, Horst Seehofer, leader dei loro storici alleati, i cristianosociali (CSU) l’hanno subito scaricato. Ed erano gli stessi che prima facevano a gara per averne i consigli, andarci a cena e farsi vedere in pubblico con lui.

http://www.spiegel.de/international/germany/bayern-president-uli-hoeness-may-end-up-in-jail-for-tax-evasion-a-897474.html

In dieci giorni, Hoeneß era diventato l’ennesimo totem nazionale buttato giù dal piedistallo. Da pilastro della comunità a reietto. Un fenomeno, quello del dare addosso al vip, che in Germania forse più che altrove riguarda spesso i campioni dello sport. E che Walter Straten, caporedattore dello sport al Bild, ha spiegato così al quotidiano londinese Telegraph: «Voi britannici avete i reali d’Inghilterra, noi tedeschi le nostre stelle dello sport»; il totem Franz Beckenbauer (mai troppo amato, e certo non per il figlio illegittimo); le icone del tennis Boris Becker (divorzio-choc e causa di paternità) e Steffi Graf (problemi di tasse); le ex regine dell’atletica (doping di Stato DDR) Heike Drechsler e Katrin Krabbe, Grit Breuer e Silke Gladisch-Möller. E si potrebbe continuare.

http://www.telegraph.co.uk/sport/othersports/athletics/2996937/Germanys-golden-girl-taking-the-fast-lane-to-obscurity.html

Martedì 11 marzo 2014, Hoeneß era ancora il presidentissimo che dai vip boxes della Allianz Arena applaudiva in piedi l’1-1 con cui il suo Bayern, dopo lo 0-2 dell’Emirates, aveva appena eliminato l’Arsenal negli ottavi di finale di Champions League.
Giovedì 13, due giorni dopo, in un’aula di tribunale a Monaco, era anche e soprattutto l’imputato eccellente che ascoltava seduto in silenzio la sentenza di condanna a trentasei mesi di prigione.  Decise di non fare appello.
«La più lunga squalifica nella storia della Bundesliga» twitterà il blogger Daniel Mack, ex parlamentare dei verdi tedeschi. Bild, il tabloid più venduto nel paese, scriverà invece di verdetto «amaro per Hoeneß ma dolce per la giustizia fiscale». Per Herr Uli, più semplicemente, erano le «conseguenze da accettare» del «più grande errore della mia vita». La vita da predestinato del Patriarca del Bayern. E da lì il santo peccatore del fussball tedesco.

Per un uomo così potente e determinato, abituato a ottenere quel che voleva, sorprende ancora di più – ma forse solo a certe latitudini – che abbia rinunciato all’appello, suggerito invece dal suo pool di avvocati. Sul sito ufficiale il Bayern aveva emesso un comunicato in cui Hoeneß dichiarava che «dopo averne discusso con i miei familiari, ho deciso di accettare il giudizio della Corte Distrettuale di Monaco. E ho dato mandato ai miei legali di non ricorrere in appello, in linea con la mia idea di decenza, comportamento e responsabilità personali. Questa frode è stata il più grande errore della mia vita e posso solo accettare le conseguenze del mio stesso errore, di cui sono l’unico responsabile. Inoltre, con effetto immediato, per non danneggiare ulteriormente il club, mi dimetto dagli incarichi di membro del consiglio di sorveglianza e di presidente. Il Bayern è sempre stato la mia vita, e sempre lo sarà. Resterò in contatto con questo grande club e la sua gente in ogni altro modo possibile e finché vivrò. Con tutto il cuore ringrazio per il sostegno i miei amici e i tifosi».

http://www.wsj.com/articles/SB10001424052702304747404579443052407665492

Le sue prigioni
Si è molto chiacchierato sulla «prigionia all’acqua di rose» e sui presunti trattamenti di favore che a un personaggio così noto e potente sarebbero stati riservati al Landsberg, il carcere in cui Adolf Hitler (ma in un’altra ala) aveva dettato al compagno di cella Rudolf Hess la prima parte del Mein Kampf.
Come rivelato dall’edizione tedesca della rivista Focus, nel fondato timore che le guardie passassero ai media informazioni e/o immagini riservate, Hoeneß aveva fatto preventiva richiesta di trasferimento, ma era stata respinta. Accolta invece, dopo sette mesi di detenzione, quella per la semilibertà. Secondo il Süddeutsche Zeitung – quotidiano liberal di Monaco che vende 430 mila copie e attento ai temi sociali – grazie a un permesso speciale Natale e capodanno Hoeneß li aveva trascorsi in famiglia, dormendo nel suo letto per la prima volta dal 2 giugno e concedendosi spiragli di vita “normale” come fare jogging al parco con la moglie Susi e il loro labrador Kuno. Poi, dal 7 gennaio, due giorni dopo il suo 63esimo compleanno, un’auto lo avrebbe prelevato dal carcere e portato al centro sportivo del Bayern. La sera il tragitto opposto – un’ottantina di km tra andata e ritorno – dopo una giornata di lavoro da supervisore del vivaio: Assistent der Abteilungsleitung Junior Team, assistente del Direttore delle giovanili, l’incarico ufficiale. «Era il suo desiderio lavorare con i giovani» spiega Karl Hopfner, suo successore alla presidenza.

Prima di ottenere la semilibertà, Uli si era occupato della distribuzione delle divise ai carcerati: un lavoro da 7 ore il giorno per 1,12 euro l’ora. Ma è anche vero che dopo le prime due settimane, «per ragioni mediche» e adattarsi alla vita dietro le sbarre, Hoeneß era stato messo in una cella doppia «più grande» prima di essere trasferito in una singola.
Quanto alla sua condizione di detenuto eccellente, Uli correva in realtà più rischi degli altri reclusi. E difatti aveva sporto denuncia alla polizia bavarese dopo aver ricevuto una lettera anonima di minacce: se non avesse pagato 200 mila euro – scrisse Bild –, una volta in gabbia Hoeneß sarebbe incorso in «serie difficoltà». Che si trattasse di un mitomane o di un balordo era parso subito chiaro. All’appuntamento per ritirare i soldi, si presentò un 50enne in bicicletta che fu arrestato da agenti in borghese. «Caduto durante la tentata fuga», l’estorsore finirà in ospedale per accertamenti.

«Nessuno è insostituibile – ha raccontato a Gabriele Marcotti nell’autunno 2010 in un’intervista poi ripresa nel marzo 2014 per The Wall Street Journal – Abbiamo lavorato tanto e siamo arrivati al punto di avere così tanti bravi collaboratori, che questo club può tranquillamente andare avanti con successo anche senza di me».

Scontata mezza pena (21 mesi) Hoeneß, che il 2 gennaio compirà 64 anni, tramite il suo avvocato Michael Nesselhau ha fatto richiesta per la libertà anticipata e a metà marzo 2016, due anni dopo le sue dimissioni, potrà uscire per buona condotta.

Per il colorito ospite di talk show, che teneva conferenze da 30 mila euro l’ora (da devolvere in beneficenza), che amava definirsi «uomo d’affari onesto e di carattere», è cominciata un’altra vita.
Ora, tornerà a mangiare sulla terrazza del Freihaus Brenner, ristorante vecchio di 140 anni a un’ora da Monaco. E ai VIP boxes della Allianz Arena. Mia san Mia. Nel toro e nell’orso.
Christian Giordano
Ultimo Uomo, 7 gennaio 2016

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