MAESTRI DI CALCIO - Muñoz, Hombre Real
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di CHRISTIAN GIORDANO ©, Guerin Sportivo ©
Rainbow Sports Books ©
Nella storia del club più importante al mondo ci sono tre uomini che più di tutti hanno riassunto in sé l’essere “del Real Madrid”: Santiago Bernabéu, Alfredo Di Stéfano e Miguel Muñoz. Tutti e tre ne sono stati prima giocatori e poi allenatori, ma soprattutto ne hanno incarnato il tratto distintivo che, nel bene e nel male, ha sempre caratterizzato la società madridista: il potere, spesso scivolato in strapotere, tecnico, economico e politico. Ma se i primi due sono rimaste autentiche icone, il terzo è spesso e ingiustamente dimenticato.
Miguel Muñoz Mozun nasce a Madrid il 19 gennaio 1922. Cresciuto nell’Escolapios, nel ’39-40 passa alle giovanili del Buenavista e subito dopo al Pavón. Di lì in poi, finché non approda al club della sua vita, cambia squadra quasi ogni anno: Imperio FC Madrid (’40-41), Girod (’41-42), ancora Imperio (’42-43), Logroñés (’43-44), Racing Santander (’44-46) e Celta Vigo (’46-48).
Ai tempi il Celta è nel pieno di quella che sarà considerata “la etapa dorada”, l’epoca d’oro, del club, che tra il ’39-40 e il ’58-59 vive 18 stagioni in prima divisione e soltanto una fra i cadetti. La miglior annata di quel periodo e una delle più belle nella storia della società è il ’47-48.
L’allenatore è “el Divino” Ricardo Zamora Martinez, leggendario portiere iberico degli anni 20-30 e assieme al sovietico Lev Jascin forse il più forte goalkeeper di sempre, e la formazione-tipo è composta da: Simón; Mesa, Cabiño; Gaitos, Gabri Alonso, Yayo; Roig, Muñoz, Pahiño, Aretyo, Vázquez. Al 4° posto in campionato (a 6 punti dal Barcellona campione) i galiziani aggiungono la finale della Copa del Generalísimo (la Coppa di Spagna, allora intitolata al dittatore Francisco Franco, ndr), contro il Siviglia.
L’allenatore è “el Divino” Ricardo Zamora Martinez, leggendario portiere iberico degli anni 20-30 e assieme al sovietico Lev Jascin forse il più forte goalkeeper di sempre, e la formazione-tipo è composta da: Simón; Mesa, Cabiño; Gaitos, Gabri Alonso, Yayo; Roig, Muñoz, Pahiño, Aretyo, Vázquez. Al 4° posto in campionato (a 6 punti dal Barcellona campione) i galiziani aggiungono la finale della Copa del Generalísimo (la Coppa di Spagna, allora intitolata al dittatore Francisco Franco, ndr), contro il Siviglia.
La finale si disputa il 4 luglio nell’impianto madrileno del Chamartín, non ancora ribattezzato “Santiago Bernabéu”. Il Celta parte alla carica e va in gol al 6’ proprio con Muñoz, schierato in posizione alquanto offensiva, a ridosso delle punte. Il Siviglia pareggia al 19’ e dilaga (4-1) nella ripresa, con gli avversari rimasti in otto per gli infortuni di Simon e Simón e Aretyo e l’espulsione del futuro attaccante madridista Manuel Fernandez “Pahiño”. Il sogno del Celta finisce lì, quello di Muñoz sta per cominciare, perché a fine stagione farà parte del grande Madrid che il patron Santiago Bernabéu e il suo illuminato segretario-factotum Raimundo Saporta stanno costruendo.
Centromediano con senso della posizione e visione di gioco, Muñoz sa disimpegnarsi anche da difensore aggiunto. Nel Real delle stelle funge da frangiflutti davanti la difesa e appena recuperata la palla, avvia la manovra da un autentico regista arretrato. In nazionale non ha fortuna, una presenza nella selezione B e 6 nella maggiore.
Il bilancio, 3 vittorie, 3 pareggi, tra cui quello dell’esordio (3-3 con la Svizzera a Zurigo il 20 giugno ’48) e una sconfitta, nella gara d’addio (1-2 con la Francia il 17 marzo ’55) – senza segnare, non rende giustizia a un calciatore che nel Real Madrid, attorniato da campioni straordinari – Di Stéfano, Puskás, Kopa, Gento, Santamaría e compagnia – vince tutto e sempre da protagonista: 4 Liga (’53-54, ’54-55, ’56-57 e ’57-58), 3 Coppe dei Campioni (’55-56, ’56-57, ’57-58; e due perse in finale, 3-5 con il Benfica di Eusébio e Coluna nel ’62 e 1-3 con l’Inter del “mago” Herrera nel ’64), 2 Coppe Latine (’55, ’57) e altrettante Pequeña (piccola) Copa del Mundo (’52 e ’56), una sorta di antenata dell’Intercontinentale ma disputata sempre in Venezuela dal ’52 al ’75.
Il bilancio, 3 vittorie, 3 pareggi, tra cui quello dell’esordio (3-3 con la Svizzera a Zurigo il 20 giugno ’48) e una sconfitta, nella gara d’addio (1-2 con la Francia il 17 marzo ’55) – senza segnare, non rende giustizia a un calciatore che nel Real Madrid, attorniato da campioni straordinari – Di Stéfano, Puskás, Kopa, Gento, Santamaría e compagnia – vince tutto e sempre da protagonista: 4 Liga (’53-54, ’54-55, ’56-57 e ’57-58), 3 Coppe dei Campioni (’55-56, ’56-57, ’57-58; e due perse in finale, 3-5 con il Benfica di Eusébio e Coluna nel ’62 e 1-3 con l’Inter del “mago” Herrera nel ’64), 2 Coppe Latine (’55, ’57) e altrettante Pequeña (piccola) Copa del Mundo (’52 e ’56), una sorta di antenata dell’Intercontinentale ma disputata sempre in Venezuela dal ’52 al ’75.
Nel ’58 ripone la camiseta blanca, indossata per 347 volte – 225 nella Liga, 33 in Copa del Rey, 15 in Coppa dei Campioni, 5 nella Pequeña e in 69 fra amichevoli nazionali e internazionali – muove i primi passi come allenatore nel Non Plus Ultra (’59), società-satellite del Real Madrid.
Quando lo ritiene pronto per il grande salto, nel ’60, la casa madre gli affida la prima squadra. Nei 14 anni successivi, il Real Madrid della generazione ye-yé diventa sinonimo di calcio spettacolare e, soprattutto, vincente: 2 Coppe dei Campioni (’59-60 e ’65-66), la Coppa Intercontinentale (’60), 9 campionati spagnoli (5 consecutivi tra il ’61 e il ’65, tre nel ’67-69 e quello del ’71-72) e 3 Coppe di Spagna (2-1 al Siviglia nel ’62, 3-1 al Valencia nel ’70 e 2-1 allo stesso club levantino nel ’72).
Nota a margine, l’impresa di vincere il massimo trofeo europeo da giocatore e da allenatore, mai realizzata prima, è stata replicata solo dal milanista Carlo Ancelotti, in campo nella doppietta ’89 e ’90, in panchina nel 2003.
Quando lo ritiene pronto per il grande salto, nel ’60, la casa madre gli affida la prima squadra. Nei 14 anni successivi, il Real Madrid della generazione ye-yé diventa sinonimo di calcio spettacolare e, soprattutto, vincente: 2 Coppe dei Campioni (’59-60 e ’65-66), la Coppa Intercontinentale (’60), 9 campionati spagnoli (5 consecutivi tra il ’61 e il ’65, tre nel ’67-69 e quello del ’71-72) e 3 Coppe di Spagna (2-1 al Siviglia nel ’62, 3-1 al Valencia nel ’70 e 2-1 allo stesso club levantino nel ’72).
Nota a margine, l’impresa di vincere il massimo trofeo europeo da giocatore e da allenatore, mai realizzata prima, è stata replicata solo dal milanista Carlo Ancelotti, in campo nella doppietta ’89 e ’90, in panchina nel 2003.
A metà dalla stagione ’73-74, con il Real incapace di contrastare il dominio dei blaugrana di Johan Cruijff, campioni dopo 14 anni di astinenza – memorabile lo 0-5 al Bernabéu il 17 febbraio, in piena psicosi post-attentato al leader franchista Carrero Blanco – Muñoz passa il testimone a Luis Molowny, al primo dei suoi quattro interregni sul “banquillo blanco”. Con il nuovo tecnico il Real vendica nella finale di Coppa il cappotto subìto in campionato: 4-0 al Barça e trofeo alle merengues, che così salvano in extremis un’annata altrimenti fallimentare.
Dopo i non esaltanti passaggi con Granada (’75-76) e Hércules Alicante (’76-77) e il buon biennio (’77-79) di Las Palmas (5° posto al primo anno che vale un sorprendente posto Uefa, più la finale di Coppa del Re persa per 1-3 con il Barcellona), Muñoz va al Siviglia.
Quella coincidente con il 75° anniversario della fondazione del club è una stagione travagliata. In panchina c’è un’autentica istituzione del calcio spagnolo, ma la squadra non è eccezionale: l’ossatura è buona ma oltre a un gran libero, Antonio Avarez e la coppia Bertoni-Scotta, 32 gol in due, c’è poco altro. Ad abbondare sono invece gli imprevisti.
Su tutti, Julián Rubinho, in rotta con il presidente Eugenio Montes Cabeza che non vuole cederlo al Barcellona per 25 milioni di pesetas, e il portiere Gustavo Fernández, alle prese con una non limpidissima condizione di oriundo. Alla fine l’8° posto, ripetuto l’anno dopo – nonostante la partenza per Firenze di Daniel Bertoni, rimpiazzato da Morete – suona addirittura lusinghiero.
Le difficoltà si rivelano invece insormontabili nella stagione ’81-82, che Muñoz non terminerà. Dopo la sconfitta con l’Hércules, viene sostituito con Manolo Cardo al quale riesce una sensazionale rimonta che porta i sivigliani dal penultimo al settimo posto.
La carriera di Muñoz sembra al capolinea, invece avrà un’ultima, importantissima, fermata.
Quella coincidente con il 75° anniversario della fondazione del club è una stagione travagliata. In panchina c’è un’autentica istituzione del calcio spagnolo, ma la squadra non è eccezionale: l’ossatura è buona ma oltre a un gran libero, Antonio Avarez e la coppia Bertoni-Scotta, 32 gol in due, c’è poco altro. Ad abbondare sono invece gli imprevisti.
Su tutti, Julián Rubinho, in rotta con il presidente Eugenio Montes Cabeza che non vuole cederlo al Barcellona per 25 milioni di pesetas, e il portiere Gustavo Fernández, alle prese con una non limpidissima condizione di oriundo. Alla fine l’8° posto, ripetuto l’anno dopo – nonostante la partenza per Firenze di Daniel Bertoni, rimpiazzato da Morete – suona addirittura lusinghiero.
Le difficoltà si rivelano invece insormontabili nella stagione ’81-82, che Muñoz non terminerà. Dopo la sconfitta con l’Hércules, viene sostituito con Manolo Cardo al quale riesce una sensazionale rimonta che porta i sivigliani dal penultimo al settimo posto.
La carriera di Muñoz sembra al capolinea, invece avrà un’ultima, importantissima, fermata.
Nell’82, in seguito al deludente mondiale casalingo, la Federcalcio spagnola congeda José Emilio Santamaría e sceglie il disoccupato Muñoz per il nuovo corso delle Furie Rosse.
Nell’avventura il neo-Ct si porta dietro come assistente Vicente Miera, suo giocatore al Real dal ’61 al ’69 e all’epoca alla guida dello Sporting Gijón.
Nell’avventura il neo-Ct si porta dietro come assistente Vicente Miera, suo giocatore al Real dal ’61 al ’69 e all’epoca alla guida dello Sporting Gijón.
Il primo grande appuntamento coincide con l’Euro francese dell’84. Nelle qualificazioni, gli spagnoli mettono in fila Olanda (per differenza reti), Eire, Islanda e Malta e approdano alla fase finale. In terra di Francia, i pareggi (1-1) con Romania e Portogallo e la risicata vittoria (1-0) contro la Germania Ovest valgono alla truppa di Muñoz la semifinale con i danesi, superati ai rigori (dopo che l’1-1 dei regolamentari si era protratto sino al 120’) per l’errore di Preben Elkjær.
In finale, la Spagna cede ai padroni di casa del miglior Platini visto in carriera, ma lo fa con l’involontaria complicità del portiere Luis Arconada, che dal 57’, su un calcio di punizione del 10 transalpino (goleador principe con 8 centri e “mezzo”), infila una clamorosa papera che spiana la strada al primo, storico successo dei Bleus, messo sottochiave da Bruno bellone all’89’.
In finale, la Spagna cede ai padroni di casa del miglior Platini visto in carriera, ma lo fa con l’involontaria complicità del portiere Luis Arconada, che dal 57’, su un calcio di punizione del 10 transalpino (goleador principe con 8 centri e “mezzo”), infila una clamorosa papera che spiana la strada al primo, storico successo dei Bleus, messo sottochiave da Bruno bellone all’89’.
Il sogno solo sfiorato non disarciona Muñoz dalla Selección, anzi lo rinsalda alle redini. Sulla scia di quel secondo posto, la Spagna arriva ai mondiali dell’86 eliminando per un punto Scozia e Galles e il morbido “materasso” Islanda. Ma in Messico – qualificata assieme al Brasile nel primo turno e superato un brillante ottavo di finale con la Danimarca (5-1, poker di Butragueño), si arena ai quarti: 4-5 ai rigori col Belgio. Stessa cosa accade, due anni dopo, agli Europei tedeschi: gli iberici finiscono dietro i padroni di casa e l’Italia e mancano di nuovo il traguardo minimo, le semifinali. Le 63 gare da Ct gli assegnano il secondo posto all-time, alle spalle di Ladislao Kubala (68), nella classifica per la più lunga permanenza sulla bollente panchina spagnola, che, dopo i suoi, brucerà i nobili glutei di un’altra icona del calcio spagnolo, Luis Suárez.
Alcuni tratti della leggendaria figura di Muñoz, scomparso a Madrid il 16 luglio ’90, sono rintracciabili, nell’era moderna, in uomini-simbolo dell’ambiente blanco quali Jorge Valdano e, soprattutto, Emilio Butragueño.
Madrileno e madridista, el Buitre, l’Avvoltoio, per la rapacità in area di rigore, è nato e cresciuto nel club. E una volta smesso di giocare è entrato nei quadri dirigenziali senza mai prendere in seria considerazione la carriera di tecnico come invece aveva fatto, e con buoni risultati – fu lui a lanciare Raúl –, l’argentino Valdano prima di diventare direttore generale.
Madrileno e madridista, el Buitre, l’Avvoltoio, per la rapacità in area di rigore, è nato e cresciuto nel club. E una volta smesso di giocare è entrato nei quadri dirigenziali senza mai prendere in seria considerazione la carriera di tecnico come invece aveva fatto, e con buoni risultati – fu lui a lanciare Raúl –, l’argentino Valdano prima di diventare direttore generale.
Oggi i tempi sono cambiati. Vincere regalando spettacolo non basta più neanche al grande Madrid. Per vendere magliette e continuare nella galáctica politica degli zidanes y pavones si era deciso di cambiare strada. La scommessa Carlos Queiroz e l’uomo della restaurazione José Camacho, ma ancora di più la nuova filosofia, si sono rivelati perdenti.
Nel nuovo corso firmato Vanderlei Luxemburgo, con Thomas Gravesen e la “Bestia” Julio Baptista a fare da cagnacci da guardia alle solite stelle, si è tornati all’antico. Da Lassù, il buon Miguel deve essersi fatto sentire.
Nel nuovo corso firmato Vanderlei Luxemburgo, con Thomas Gravesen e la “Bestia” Julio Baptista a fare da cagnacci da guardia alle solite stelle, si è tornati all’antico. Da Lassù, il buon Miguel deve essersi fatto sentire.
CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo
DEL BOSQUE, IL PRIMO EREDE: MIGUEL SON MI
Il primo fu José Villalonga, l’allenatore del Real Madrid che si aggiudicò le prime due edizioni della Coppa dei Campioni, nel ’55-56 e nel ’56-57. Ufficiale della Guardia Civile, Villalonga era soprattutto un eccellente preparatore atletico che seppe fare il passo indietro necessario per lasciare le luci della ribalta a giocatori che si chiamavano Munoz in difesa e Di Stéfano, Rial e Gento là davanti; e nell’anno del secondo alloro europeo, in quella fantastica prima linea entra un certo Kopa.
Al Real Madrid la figura dell’allenatore-ombra, o comunque del tecnico “meno stella” fra le stelle, si rinnova con l’argentino Luis “Yiyo” Carniglia, anche lui bravo a raccogliere altre due Coppe dei Campioni lasciando i riflettori a Santamaría, l’erede di Munoz come centromediano, e all’attacco delle meraviglie Kopa, Joseito (rilevato da Mateos nella finale del ’58), Di Stéfano, Rial e Gento.
Il vero erede di Munoz, più che l’attaccante madridista Luis Molowny che lo rimpiazzò nel ’74, è forse Vicente Del Bosque. Uomo di campo abile nel far rendere i purosangue tenendoli a briglie sciolte, se possibile in allegria, ma dotato di un’immagine non in linea con gli standard aziendali imposti dal presidente Florentino Peréz, al tecnico non sono bastate due Champions League (2000 e 2002), due Liga (2001 e 2003), una Supercoppa di Spagna (2001), una Supercoppa Europea (2002) e una Coppa Intercontinentale (2002) per essere confermato: l’omone di Salamanca, città dove è nato il 23 dicembre 1950, stava troppo dalla parte dei giocatori e poco, e male, davanti le telecamere.
Il vero erede di Munoz, più che l’attaccante madridista Luis Molowny che lo rimpiazzò nel ’74, è forse Vicente Del Bosque. Uomo di campo abile nel far rendere i purosangue tenendoli a briglie sciolte, se possibile in allegria, ma dotato di un’immagine non in linea con gli standard aziendali imposti dal presidente Florentino Peréz, al tecnico non sono bastate due Champions League (2000 e 2002), due Liga (2001 e 2003), una Supercoppa di Spagna (2001), una Supercoppa Europea (2002) e una Coppa Intercontinentale (2002) per essere confermato: l’omone di Salamanca, città dove è nato il 23 dicembre 1950, stava troppo dalla parte dei giocatori e poco, e male, davanti le telecamere.
Muñoz lasciò il club dopo 22 anni (e 235 panchine). Del Bosque, piangendo, dopo 35, durante i quali è stato di tutto: centrocampista (’73-84), coordinatore delle giovanili, allenatore del Castilla (il Real “B”) nell’87-90 e della prima squadra (per 239 partite), nel ’93-94 e nel ’95-96 a interim e dal ’99 al 2003 in pianta stabile. Da allora, ogni suo successori sulla panca “merengue” è avvertito: vincere è necessario ma non sufficiente. (chgiord)
La scheda di MIGUEL MUÑOZ MOZUN
Nato: 19 gennaio 1922, a Madrid (Spagna); deceduto a Madrid il 16 luglio 1990
Ruolo: centromediano
Club da giocatore: Escolapios; Buenavista (giovanili), Pavón (1939-40), Imperio FC Madrid (1940-41), Girod (1941-42), Imperio FC Madrid (1942-43), Logroñes (1943-44), Racing Santander (1944-1946), Celta Vigo (1946-1948), Real Madrid (1948-1958)
Presenze (reti) al Real Madrid nella Liga: 225
Presenze totali al Real Madrid: 347
Presenze (reti) in nazionale A: 6 (-)
Presenze (reti) in nazionale B: 1 (-)
Palmarès da giocatore: 4 Liga (1954, 1955, 1957, 1958), 3 Coppe dei Campioni (1956, 1957, 1958), 2 Coppe Latine (1955, 1957), 2 Pequeña Copa del Mundo (1952, 1956)
Club da allenatore: Non Plus Ultra (1959), Real Madrid (1960-1974), Granada (1975-76), Hércules Alicante (1976-77), Las Palmas (1977-1979), Siviglia (1979-1981)
Palmarès da allenatore: 9 Liga (1961-65, 1967-69, 1972), 3 Coppe di Spagna (1962, 1970, 1972), 2 Coppe dei Campioni (1960, 1966), Coppa Intercontinentale (1960)
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