Massaggiando i muscoli e i pensieri: intervista a Umberto Inselvini
di DAVIDE BERNARDINI,
SUIVEUR, 9 gennaio 2020
Per chi non lo sapesse, Umberto Inselvini è uno dei massaggiatori più longevi del gruppo e lavora all’Astana dal 2013.
Umberto Inselvini – e quindi, per meronimia, la categoria dei massaggiatori – è una di quelle figure tanto conosciute nell’ambiente quanto sconosciute, o difficilmente riconoscibili, dall’esterno. Con tutte le confessioni e gli sfoghi che si trova ad ascoltare, un massaggiatore sarebbe il miglior giornalista ipotizzabile; e infatti non è un caso che molti giornalisti – persino i direttori sportivi – preferiscano parlare coi massaggiatori piuttosto che coi diretti interessati, vale a dire i corridori. Ecco, interviste come questa servono a far conoscere persone – e personaggi – come Umberto Inselvini.
Allora Umberto, quanto bisogna tornare indietro per ricercare i tuoi esordi nel ciclismo?
Tra una cosa e l’altra è passata una vita intera, altroché. Bisogna tornare indietro di un bel po’. Sono nato nel 1958 e sono salito in bicicletta a tredici, quattordici anni al massimo. La mia storia non ha niente di diverso da quella di tanti altri. Avevo uno zio meccanico e dei cugini ai quali piaceva pedalare, quindi iniziai anche io. Sono arrivato fino al dilettantismo e ad essere sincero me la cavavo bene, ho vinto anche qualche gara importante: il Giro delle Valli Aretine, una tappa alla Settimana Bergamasca, un paio di campionati regionali. Tuttavia, a quegli anni risale anche un ricordo doloroso. Un giorno mio padre uscì di casa in motorino per raggiungere mio fratello e annunciargli che avevo vinto. Fu investito, e morì cinque giorni dopo. Probabilmente non avrei avuto lo stesso nessuna carriera, ma non nego che quel dramma mi abbia segnato molto. Smisi di correre nel 1981.
Cosa ricordi di quei tempi? Gare, nomi, sensazioni.
Di corridori forti ce n’erano, ma questo lo si può dire di tutte le generazioni. Ricordo Merckx perché vinceva sempre, molto banalmente. E ricordo anche Gimondi, forse il più forte e il più rammentato dopo Merckx. Ammiravo Dancelli, un po’ perché era forte e un po’ perché è di Brescia, come me. Poi c’era Zoetemelk, un gran bel corridore, e i fratelli Pettersson, davvero curiosi: me li ricordo perché erano quattro, insieme hanno vinto diverse cronosquadre mondiali e usavano lo sci di fondo come preparazione alle corse su strada. Delle giornate passate in sella, oltre al senso di libertà che prova chiunque pedala, mi ritorna in mente il piacere di allenarmi da solo sulle strade della mia zona. Mi piaceva conoscere la mia terra. La bicicletta mi ha permesso di conoscere delle strade e dei sentieri che altrimenti non avrei mai scoperto.
Quando ti sei reso conto di voler rimanere nel mondo del ciclismo come massaggiatore?
Un paio d’anni dopo il ritiro, quindi nel 1983. Feci un piccolo corso per massaggiatore, quello per massofisioterapista lo avrei fatto più avanti. Fortunatamente riuscii ad iniziare a lavorare quasi subito, nel 1984, tra i dilettanti. L’anno dopo, nel 1985, ero già tra i professionisti e non ne sono più uscito. Prima venne la Malvor-Bottecchia-Vaporella di Zandegù, poi la Gewiss-Bianchi di Argentin, dopodiché la Carrera di Boifava, dove rimasi diversi anni. E ancora Roslotto, Riso Scotti, Ballan-Alessio, Fassa Bortolo e Saeco. Dunque alla Lampre, l’ultima esperienza prima di arrivare all’Astana, la mia squadra dal 2013.
Qual è quella a cui sei rimasto più affezionato?
Guarda, potrei dirti la Carrera perché ero ancora giovane, agli inizi, e si trattava di un’opportunità davvero importante. La Carrera era una squadra importante, si lavorava con dei campioni e si faceva il Tour de France. In più, lo staff parlava il mio dialetto, il bresciano. In generale non mi piace parlare bene di una squadra piuttosto che di un’altra, mi sembra di mancare di rispetto a qualcuno. Invece voglio sottolineare che ho sempre lavorato in ambiente importanti e vincenti, che mi hanno sempre trattato bene. Anche quando sono venuto via da una squadra, non ne ho mai parlato male. Stiamo parlando pur sempre di un posto di lavoro, sono sempre stato pagato, e allora bisogna mostrare gratitudine.
Com’è cambiato il tuo mestiere nel tempo?
Sono aumentate la qualità e la quantità del personale. Questo ha portato a una specializzazione quasi estrema, un processo simile a quello che è avvenuto in gruppo. Negli ultimi anni sono arrivati i procuratori, gli addetti stampa, gli osteopati, i preparatori. Oggi un corridore si sente quasi obbligato a dare tutto, considerando il livello raggiunto dalla struttura che lo circonda. Sono tutelati, monitorati e assistiti in ogni momento. Però non ne farei una questione di professionalità, quella c’era anche trenta o quarant’anni fa. Diciamo che sono aumentati gli impegni e quindi, di conseguenza, è aumentato anche il personale che deve provvedere a tutto ciò. Sicuramente la tecnologia ha avuto un ruolo da protagonista in questo processo. Una volta avevamo un Fiat Daily, non c’erano né lavatrice né frigorifero, dovevamo esaurire il cibo comprato in un paio di giorni perché non sapevamo come preservarlo. Oggi non manca niente, a ripensare a quei giorni viene quasi da sorridere. La Carrera portava tre massaggiatori ai grandi giri, l’Astana invece ne porta cinque. Mi pare un vantaggio non da poco: ognuno di noi può concentrarsi su uno o due corridori al massimo, lavorando con più calma e probabilmente anche meglio.
A proposito dei corridori, Umberto: il massaggiatore è ancora il confidente privilegiato? Cos’è cambiato nel rapporto tra il massaggiatore e i corridori?
Ti dirò quello che ho sempre detto: per quanto mi riguarda, un corridore può fare quello che vuole durante l’ora del massaggio. Anzi, deve fare quello che vuole. Se vuole sfogarsi e imprecare, che lo faccia; se vuole stare zitto, che stia zitto; se vuole ripensare alla tappa, faccia pure. Un massaggiatore dev’essere bravo a entrare nel mondo e nello stato d’animo del corridore, capire quello che vuole e adeguarsi. I ragazzi devono alzarsi soddisfatti. Sai quanti ne ho incontrati di delusi e silenziosi che al primo successo di tappa mi hanno raccontato tutto per filo e per segno? È così da sempre e credo sia normale. Non è facile, si capisce. Servono sensibilità, tatto, esperienza. Anche noi massaggiatori abbiamo i nostri pensieri e i nostri problemi, ma in quel momento dobbiamo accantonare tutto e concentrarci sul corridore. L’avvento dei cellulari ha influito soltanto in parte. Si usa e c’è chi lo usa, ma si parla ancora e si sentono ancora le emozioni e gli stati d’animo, fidatevi. E poi non mi va proprio di fare il brontolone contro la tecnologia e i tempi che cambiano. Bisogna sapersi dosare, quello sì, ma io sono il primo che usa internet e il cellulare per chiamare a casa. Posso essere in Francia, in Cina o in Argentina, non fa differenza. E una volta, a pensarci bene non sono passati nemmeno tantissimi anni, non era così. Mi pare proprio una bella comodità. Prima si parlava di più, è vero, ma da qui a dire che non si parla più, scusatemi, c’è un abisso.
Come deve comportarsi un massaggiatore con le confidenze dei corridori?
Secondo l’organigramma e il regolamento interno della squadra, noi massaggiatori facciamo riferimento al medico. Lui deve sapere tutto sui corridori, sul loro stato di forma e sulla loro salute. Se vengo a sapere qualcosa che può interessare la squadra, devo dirlo: per il bene del corridore ma anche per quello della squadra, ovviamente, dato che ci sono degli obiettivi da raggiungere e una serenità di gruppo da preservare. Stesso discorso per quanto riguarda i direttori sportivi: se vengo a sapere qualcosa di importante e che può aiutarli, lo dico subito. Tante altre cose, invece, le tengo per me perché sono personali. Riferirle non mi sembra corretto.
Quali sono i corridori coi quali hai lavorato e ai quali ti lega un ricordo particolare, positivo o negativo che sia?
In trentacinque anni di corridori ne ho visti e massaggiati tanti. Sono sincero, non saprei chi nominare. Ho sempre cercato di dare il massimo per tutti, di trattare tutti allo stesso modo indipendentemente dalle simpatie e dalle affinità. Con Bontempi e Chiesa ho un ottimo rapporto, sono bresciani come me. Ogni anno al Tour de France vedo Roche, ci fermiamo e scambiamo due parole. Visto che ci sono colgo l’occasione per ringraziare Damiano Cunego: abbiamo lavorato insieme per quasi un decennio alla Lampre e mi ha citato nel suo libro. Però ecco, non andrei oltre; a dirla tutta mi sembra d’aver fatto uno sgarbo a citare questi quattro e basta, forse sarebbe stato meglio non rammentare nessuno. Non dimentichiamoci però anche i rapporti con gli altri membri dello staff, coi quali si condividono gioie e dolori, pareri e pensieri, viaggi e giornate. Per circa duecento giorni l’anno siamo lontani da casa, è difficile mantenere dei buoni rapporti. Sinceramente non m’interessa ricercare l’amicizia a tutti i costi. Alla base devono esserci rispetto e professionalità. L’amicizia è un passo ulteriore e importante che non va forzato. Se viene, bene; altrimenti continuerà ad esserci un semplice rapporto lavorativo, tutt’altro che semplice da mantenere.
Quali mansioni svolge il massaggiatore all’interno della squadra?
Potrà sembrare strano, ma l’80% della giornata un massaggiatore lo passa facendo altro. Il massaggio è solo uno dei tanti compiti. In una squadra del World Tour, a maggior ragione in un grande giro, c’è sempre qualcosa da fare. Sono i direttori sportivi ad organizzare il lavoro e ogni giorno, almeno sulla carta, può essere diverso dal precedente e dal successivo. L’unica mansione fissa è la pulizia interna delle ammiraglie: non chiedermi perché, forse non ce n’è nemmeno uno, ma da sempre i meccanici lavano l’esterno e i massaggiatori aspirano l’interno. Considera poi che ogni massaggiatore ha la patente per guidare il camion e l’autobus. È fondamentale, se pensi che la logistica è affidata quasi interamente a noi. Come dicevo, non ci sono giornate uguali. Prepariamo la torta di riso, ad esempio, sempre ascoltando quello che ci dicono i dietologi; prepariamo il rifornimento e le borracce; andiamo all’aeroporto a prendere qualcuno, se c’è bisogno. Sono gli stessi direttori sportivi a stabilire se di un massaggiatore c’è più necessità in gara o fuori. Nel primo caso si può partecipare anche al rifornimento, per dire; nel secondo, al contrario, si anticipa la squadra in albergo e si fa quel che c’è da fare: ci occupiamo delle valige e dei bagagli, della pulizia delle stanze, della spesa al supermercato, di smistare i corridori e lo staff nelle camere.
Cosa puoi dirci della muscolatura dei corridori, Umberto?
Non entro nello specifico così da non escludere nessuno: la materia non è semplicissima e ad alcuni potrebbe risultare anche noiosa. Quello che posso dire è che le differenze sono dettate perlopiù dalla struttura fisica, dalle nostre caratteristiche. Non ne farei una questione d’età, insomma: la muscolatura di due corridori simili per caratteristiche ma lontani per età non è così diversa come si può essere portati a pensare. Nel massaggio non ci sono standard da seguire. Dipende tutto dal corridore, dal suo stato di forma, dalla corsa e dal momento della stagione. Massaggiare un corridore a gennaio o in primavera non è la stessa cosa, si capisce; e così nei grandi giri: un conto è massaggiarlo all’inizio, un conto è massaggiarlo dopo oltre tremila chilometri. La muscolatura cambia in fretta, da questo punto di vista. Siamo tornati pochi giorni fa dal primo vero ritiro stagionale e tra l’inizio e la fine, diciamo tre settimane, la differenza è netta. Lo stesso discorso che facevo prima per lo stato d’animo dei corridori va fatto anche per impostare il massaggio: bisogna adattarsi di volta in volta. Bontempi, ad esempio, aveva sempre le gambe sciolte e massaggiarlo era un piacere, nonostante fosse grosso e la sua stazza potesse trarre in inganno. Ugrumov, invece, chiedeva sempre dei massaggi pesantissimi anche se aveva delle gambe magre e sottili, da scalatore qual era.
Come lavora un massaggiatore quando non è in corsa?
Posso dirti quello che faccio io. Ovvero, alla fine si lavora lo stesso. Abito vicino a Giuseppe Martinelli e all’azienda in cui portiamo le macchine della squadra quando abbiamo bisogno di qualcosa: scritte sulla carrozzeria, radio, portabici. Ogni tanto, quindi, io e Martinelli ci ritroviamo per sbrigare queste commissioni. Oppure, per fare un altro esempio, andiamo a ritirare dei caschi o degli accessori se non può andarci nessun altro. A monte, ovviamente, c’è la nostra reperibilità: anche quando siamo a casa dobbiamo essere sempre a disposizione in caso di bisogno.
Secondo i corridori, il Tour de France è l’appuntamento più esigente tanto in corsa quanto fuori: lo stress, il caldo, i trasferimenti, la presenza pressoché costante del pubblico e della stampa. Vale lo stesso anche per i membri dello staff?
Sai, il Tour de France è impegnativo per tutti: fa caldo, dura tre settimane ed è l’evento più seguito, atteso e preparato dell’intera stagione. Tuttavia, se devo essere sincero, me la sono sempre cavata piuttosto bene. È esigente, senza dubbio, ma l’organizzazione è praticamente impeccabile: se segui le indicazioni che ti vengono date, e qui mi riferisco alla logistica, non ti sbagli. Si può dire altrettanto del Giro d’Italia: sono corse lunghe e complesse, le tappe non arrivano mai prima delle quattro e mezzo, ma sono organizzate bene. Personalmente, gli appuntamenti che trovo più impegnativi sono quelli del Medio Oriente: il Tour of Oman, ad esempio. Non perché siano organizzati male, non fraintendetemi: l’organizzazione è ottima e gli alberghi sono davvero belli. Il problema è che le squadre non mandano tutti i loro mezzi, diciamo quelli migliori. È come tornare indietro di quindici o vent’anni: bisogna lavorare con la fantasia, adattarsi alla situazione e fare con quello che c’è. Il nostro compito rimane lo stesso: assistere al meglio i corridori, non far mancare nulla e lasciarli sereni. Però vedo che si adattano facilmente anche loro, d’altronde se uno sa già cosa aspettarsi non c’è nient’altro da aggiungere. Diciamo anche che io, avendo vissuto di più, so destreggiarmi meglio in situazioni di questo tipo; un giovane alle prime armi e abituato a lavorare in un certo agio fa più fatica, si capisce.
Alle prossime domande, Umberto, voglio risposte da appassionato e non da addetto ai lavori. Qual è la tua corsa preferita?
La Liegi-Bastogne-Liegi. Lo scorso anno l’abbiamo pure vinta con Fuglsang, ma io non c’ero. Non so perché, ma non mi ci mandano mai. Eppure mi piacerebbe: in Belgio si respira un’aria diversa, il ciclismo è seguitissimo e i nomi dei corridori sono sulla bocca di tutti. Un’altra corsa che mi piace molto è il Giro di Lombardia. Un po’ perché si corre nella mia regione, un po’ perché rimango dell’idea che vincere il Lombardia sia un privilegio di pochi: significa arrivare alla metà di ottobre, praticamente alla fine della stagione, con le riserve necessarie ad affrontare una gara dura, lunga duecentocinquanta chilometri e con tanti campioni al via. Soltanto un campione può risultare il migliore in giornate del genere.
E i corridori che ti piacciono di più?
Fare un elenco è difficile, si rischia comunque di lasciare fuori qualcuno. E poi mi pare che il ciclismo stia vivendo un buon momento. Prendi Bernal, uno dei più giovani vincitori nella storia del Tour de France; il primo colombiano a riuscirci, per giunta. Oppure Valverde: come si fa a non ammirare corridori del genere? Valverde è un campione, un fuoriclasse, uno di quelli che se non vince sta male. A pensarci bene, preferisco gli uomini da corse a tappe, anche se non nego che ai tempi della Fassa Bortolo le volate di Petacchi mi esaltavano. Peraltro, il ciclismo oggi cambia alla velocità della luce; praticamente ogni anno spuntano nuovi talenti. Il livello globale si è alzato, rispetto a qualche decennio fa. Ricordo benissimo che a diverse gare, specialmente quelle di inizio stagione, si vedevano corridori appesantiti e imballati. Correvano per smaltire qualche chilo di troppo ed entrare in forma, ecco. Adesso, invece, bisogna arrivare pronti alle corse altrimenti non si portano nemmeno a termine. In qualsiasi parte di mondo si corra, ci sono sempre diversi corridori in forma e pronti a contendersi la vittoria. Anche per questo un atleta odierno corre meno: mantenere un livello altissimo per nove mesi è impossibile. Considera però che la mia visione è viziata dal ruolo che svolgo: essendo un uomo dell’Astana, provo una gioia particolare quando vince uno dei nostri. Sono di parte, per così dire. Di corse ne vedo una marea, non me le perdo nemmeno quando sono a casa, però è raro che le segua col piglio del tifoso.
Cosa c’è nel tuo futuro, Umberto? Dopo una vita passata nel ciclismo e in gruppo, cosa ti è rimasto dentro e cosa ti rimane da fare?
Ho ancora voglia di fare questa vita e questo lavoro, quindi proseguirò finché sarà così e finché mi verrà data la possibilità di farlo. Sono molto critico con me stesso e cerco sempre di migliorarmi: credo che un approccio così possa mantenerlo soltanto chi ha ancora voglia, passione e curiosità. Quando queste diminuiranno, vorrà dire che dovrò farmi da parte. Dentro di me porto un bagaglio enorme di esperienze, di conoscenze, di relazioni: ho visitato buona parte del mondo, ho imparato lingue diverse dalla mia, ho incontrato e apprezzato tantissime persone, ho capito un po’ di più cosa significa saper convivere con uomini e donne che hanno un carattere estremamente diverso dal mio. Nessuno è uguale all’altro, non so se mi spiego. E poi ho la fortuna di lavorare quotidianamente con ragazzi che hanno la metà dei miei anni, quindi riesco a seguire i cambiamenti del mondo e della società, mi sento ancora brillante e reattivo, parlo di argomenti che coi miei coetanei non tirerei mai fuori. Mi sento partecipe e integrato, ecco. Non mi sento fuori luogo, non mi sento di troppo. L’ambiente nel quale lavoro mi piace ancora. Viaggiando, ascoltando e conoscendo si scopre sempre qualcosa di nuovo: non si vedono mai le stesse cose.
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