GIANNI E LA SFINGE
di SIMONE BASSO
Sport & Cultura - 14 febbraio 2020
Celebrare Gianni Bugno con un articolo, amarcord ma non troppo, è insieme un dovere e una contraddizione essendo stato, il due volte iridato, l’essenza del personaggio pubblico che odiava la ribalta.
Fuoriclasse estraneo al campionismo, agli occhi della tigre e alla maleducazione divistica (che ci rivendono come mentalità vincente), uno che vinceva a dispetto dei santi e di se stesso.
Il motore e il telaio di una Formula Uno, la centralina di un gattone da sofà.
Il Bugno, che nacque (a Brugg) in Svizzera perché nel 1964 i genitori ci lavoravano, è un monzese di origini venete: a risalire la corrente degli stereotipi, l’introversione stava scritta nel suo genoma.
Cominciò presto col ciclismo e si impose subito, un talento sulla strada e in pista.
Nella polaroid di Gianni, accompagnato dal padre Giacomo il fine-settimana a correre, c’è già tutta la storia: tornavano – la sera – e mamma Giustina chiedeva come era andata; e lui mugugnava appena.
La coppa, perché Bugno junior vinceva sempre, era nascosta nel bagagliaio dell’auto: dei successi, in serie, il campione provava pudore.
Da bimbi si correva e, dopo, guardavamo quelli più grandi.
Lo aspettavamo passare: Gianni aveva l’aura, lo distinguevi in mezzo a mille.
Gli altri strappavano, muovevano le spalle, scalciavano la bici, lui no.
Veniva su composto, manco fosse sotto una campana di vetro, con uno stile (elegantissimo) che riconoscevi lontano un miglio.
La testa un po’ inclinata, il rapportone da paura (un mare di potenza...) e una pedalata armoniosa.
Mentre il ciclismo italiano dei pro' viveva, a luglio, di umiliazioni, passava e lo indicavamo col dito: ecco l’erede di Felice Gimondi, il prossimo tricolore che vincerà il Tour de France.
Era il 1985 e la scena, a ricordarla oggi, pare un fumetto.
25 aprile 1985. Bugno, a ventuno anni, si impone nella classica
in linea – dilettanti – più importante dell’epoca: il Gran Premio Liberazione.
Si presentò, da favorito, al cosiddetto "mondiale di primavera", il Gran Premio Liberazione di Roma. Il più grande talento di quell’evo, negli allora dilettanti, corse da isolato (!). Venne, controllò la corsa e si impose di giustezza – fresco come una rosa – allo sprint. Passò professionista e alternò squarci di onnipotenza a momenti d’abulìa.
Nell’86 al Giro, l’anno di Roberto Visentini, all’Atala di Franco Cribiori era compagno di camera di Emilio Ravasio. Che, in Sicilia, mentre scortava la maglia rosa Urs Freuler, cadde, picchiò la testa sull’asfalto e risalì in sella: in albergo, il malore, due settimane di coma e la morte. Si disse che se ci fossero stati un elicottero e soccorsi più lesti non sarebbe finita così.
Un rebus bizzarro, il primo Bugno: all’improvviso, senza una ragione, compariva – quando meno te lo aspettavi – la sfinge.
Rubiamo la descrizione, perfetta, a Marco Bonarrigo che la raccontò – a un Giro della Malesia – quando il Gianni era all’epilogo della carriera.
“Impercettibile. La Tirata parte con un leggero caracollare delle spalle, con un colpetto al cambio per innestare il rapporto più duro. Bugno non supera il gruppo come farebbe chiunque altro debba risalirlo dalla testa alla coda. Bugno avanza su un piano parallelo come se qualcuno lo risucchiasse tirandolo per una fune. La cosa fa ancora più impressione perché la sua frequenza di pedalata è venti colpi sotto quella degli altri e perché lui non si scompone di un millimetro. Non sbuffa. Non suda. Non tiene la bocca aperta.
Inesorabile. Ora che é davanti a tutti, abbassa di un pelo la testa, flette appena le braccia. Adesso bisogna smettere di guardarlo, bisogna concentrarsi sulle facce di chi lo segue. Afflitte da progressive smorfie da fatica, sudore copioso, denti serrati, bava alla bocca. Si vedrà un distacco che cresce, si vedrà un uomo che pedala come al rallentatore mettere metri e metri tra sé e un plotone di mortali che pestano sui pedali come ossessi. Si avrà, in una parola, la certezza che la Natura distribuisce in maniera molto antidemocratica quell’immenso bene che è il talento.”
Al Giro 1989 per esempio, sul Sammommé, un’erta toscana, la sfinge sfilò dalla sua ruota i migliori e andò via: trenta chilometri di assolo.
Al Giro d’Italia 1990, nella tappa del Vesuvio, Gianni attacca.
Diventerà il quarto della storia, dopo Costante Girardengo (1919), Alfredo Binda (1927) e Eddy Merckx (1973), a portare la maglia rosa dall’inizio alla fine.
Venne il 1990, la Milano-Sanremo della svolta, in fuga solitaria col cuore in gola dalla Cipressa, il vento alle spalle e gli inseguitori a uno sputo, e il Giro d’Italia stradominato (in rosa da Bari a Milano).
La consapevolezza, nostra più che sua, che il più forte corridore del mondo fosse di nuovo un italiano, per la prima volta dall’intermezzo del Gimondi ante-Merckxismo.
Mancava, nel 1991, solo la maglia gialla indossata ai Campi Elisi.
La partita di poker si svolse nel tappone pirenaico, la Jaca-Van Louron.
Appena scollinato il Tourmalet, Miguel Indurain attaccò: si era accorto di un Greg LeMond così così.
Il Bugno, tergiversante, aspettò il rientro dell’americano, che fu pure arrotato dall’ammiraglia della Gatorade di Gianluigi Stanga; Claudio Chiappucci – letta la situazione – andò via a Sainte-Marie-de-Campan.
Tour 1991. Mezzo milione di persone lungo i 21 tornanti dell’Alpe d’Huez.
Bugno vincerà la frazione, Indurain la classifica.
Ai piedi del Col d’Aspin, Miguelon e il Diablo cominciarono il loro "Trofeo Baracchi".
Dietro, LeMond (in crisi) rivelò il suo bluff, il capintesta Luc Leblanc saltò in aria e Bugno rimase a bagnomaria, con Charly Mottet e Laurent Fignon passivi a ruota.
Ad Armanteule, 221 chilometri nelle gambe, prima di imboccare la Val Louron, Bugno aveva tre minuti e dieci secondi di svantaggio dal duo Indurain-Chiappucci.
All’attacco della salita conclusiva, in una scena che ricordò il campionato italiano di un mese prima (a San Daniele del Friuli, la vittima fu Franco Chioccioli), la sfinge accese la (personalissima) teleferica invisibile. Uno spettacolo.
Al traguardo, il monzese giunse a 1’29” dalla strana coppia. In novemila metri, la sfinge si era mangiata un primo e quaranta a quei due là; ma aveva anche sperperato l’opportunità di vincere quel Tour.
Perdere la Grande Boucle andando più forte degli avversari: fatto.
L’ossessione della Festa di luglio, nel 1992, dipinse una parabola curiosa. La conconizzazione di Bugno (e del ciclismo tutto) ne avrebbe depotenziato le doti sulle salite lunghe, per competere (inutilmente...) contro Indurain a cronometro.
Il bis mondiale a Benidorm, a risollevare una stagione mogia, ci riconsegnò – per l’ultima volta, con continuità – la sfinge.
Al Giro del Lazio, all’Emilia, alla Milano-Torino, scherzò i rivali.
La chiusura (trionfale) dell’autunno, al Lombardia, divenne invece una pièce di Beckett.
Diluviava quel dì e, salendo verso Esino Lario, Tony Rominger cominciò presto le danze (di guerra).
Bugno risalì il gruppo, a pezzi, da dietro: una motocicletta.
Gianni aveva lo stesso vizio di Jacques Anquetil, una tradizione nobiliare oggi rinnovata dai gemellini Yates: amava dirigere il traffico in coda, chiacchierare coi colleghi, ignorando – a suo rischio e pericolo... – le dinamiche davanti.
La gara, quando in discesa tornarono sotto Chiappucci, Davide Cassani e Raúl Alcalá, si risolse lì. La sfinge, impaurita dalla discesa bagnata, tirò i freni e – pensando ai 170 chilometri ancora da percorrere – lasciò andare via il quartetto. Li avrebbe rivisti al traguardo dove giunse ventesimo, solo e intirizzito, a otto minuti dal vincitore Rominger. Un Lombardia buttato nel cesso.
Il ’93, fasciato d’arcobaleno, delimitò il confine tra quel Bugno e la sua versione declinante.
Rielaborò il mestiere, alternando lampi di classe al ruolo anonimo di supporto ai compagni di squadra.
Divorziò dalla Vincenzina, la prima moglie, arrivò l’Angela Maria, poi forse una stellina della tivù.
3 aprile 1994, Giro delle Fiandre, Epolandia alta. Nulla al pari della Ronde era più distante dalle caratteristiche di Bugno. Una battaglia, coltello fra i denti, lunga sei ore.
Lui che non gradiva limare – sgomitando – per prendere le posizioni di testa; una classica-rodeo, dove si prendono dei rischi folli per rimanere davanti.
L’incredibile arrivo della Ronde 1994. Il monzese rischia di gettare alle
ortiche un trionfo storico, contro Museeuw. Terzo Tchmil, quarto Ballerini.
Eppure Gianni, col sigaro in bocca, si ritrovò dopo il Muur con tre mammasantissima del pavé: Johan Museeuw, Andrei Tchmil e Franco Ballerini.
A Meerbeke anticipò di forza, in volata, i tempi.
La rimonta del leone Museeuw (che aveva chiamato il primogenito Gianni, in suo onore..), con un colpo di reni sulla fettuccia d’arrivo, non si concretizzò per un centimetro.
Dieci minuti di panico, con Gianni che malediva la sua esultanza a braccia alzate, e il fotofinish (ri) consegnò la vittoria al capitano della Polti.
Che non avrebbe più alzato le mani dal manubrio in uno sprint, seppure avanti di biciclette, per esorcizzare quel ricordo agrodolce.
In una classica lassù al Nord, considerando le peculiarità tecniche, la più grande impresa di un azzurro nell’era moderna.
1997. Gianni Bugno – in maglia Mapei – al Giro della Malesia.
Ciò che restava del giorno, nel 1998, in Spagna, alla Vuelta già settembrina.
Come la Madonna per Carmelo Bene, siamo apparsi alla sfinge per l’ultimissima volta.
Lo stradone in falsopiano, all’insù, andando alla stazione di Canfranc, sembrava disegnato per quell’enigma di campione. A ventiquattro chilometri dallo striscione – nel sole d’Aragona – mollò gli altri tre, rimasti dalla fuga del mattino: Santiago Blanco, Jose Uriarte e Roberto Sgambelluri.
Erano i titoli di coda di un film (neorealista) cominciato, su una bici, vent’anni prima.
Bugno, che in casa non conserva nemmeno una maglia o un trofeo delle sue glorie sportive, è diventato elicotterista: ci fosse stato lui, nell’86, Ravasio l’avrebbero salvato.
Nell’ambiente, burbero senza esagerare, fa il sindacalista dei corridori.
Si è risposato con Cristina.
Ogni tanto provano a intervistarlo e la sfinge in borghese, serafica, non riesce a essere falsa. Più o meno come quando correva.
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