KOBE E LA PARTE OSCURA DI STERNVILLE
26 giugno 1996, il liceale Kobe Bryant viene accolto dal commissioner David Stern sul palco del Madison Square Garden: scelto col numero 13 dagli Charlotte Hornets, verrà girato (per Vlade Divac) ai Los Angeles Lakers. Un’altra magata di Jerry West.
di SIMONE BASSO
Sport & Cultura - 6 febbraio 2020
Il lutto globalizzato per il gigante dell’NBA Kobe Bryant ha evidenziato la povertà, disarmante, del nostro sistema informativo. Articolesse scritte – in fretta – cavalcando l’onda emotiva dell’istante, prive di un’ermeneutica sull’argomento, fastidiose per approssimazione ed enfasi.
Ci si deve sorbire la celebrazione del Black Mamba con la maglietta del Milan, a mo' di esca per i tonni pallonari, come se il tifo a una squadra di calcio fosse l’argomento centrale della vicenda.
L’amarcord su Kobe italiano (!), quando dovrebbe essere evidente (e giusto) considerare quegli anni, al seguito del padre Joe nella leggendaria Spaghetti League, come una parentesi (allegra) di un ragazzo americano che sognava (e desiderava) gli States.
Mancavano un paio di riflessioni, banali ma non troppo, non su Kobe il campionissimo, ma attorno a quel periodo (fondamentale) che ci portò dal Jordanismo ad altro: le abbozziamo.
Bryant appartiene alla più forte classe di sempre: il draft 1996. Una combinazione di eventi, l’NCAA ancora matrigna e scuola di talenti, i liceali ammessi al Gran Ballo, l’apertura definitiva ai cestisti FIBA, permisero un’annata irripetibile.
La celeberrima copertina di
Slam che annunciò il draft NBA 1996.
Che venne ritratta in gruppo, con un presagio felice, da una copertina iconica di Slam (“Ready Or Not.. here they come!”). In ordine di scelta, saltando qualcuno: Allen Iverson, Marcus Camby, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker, Kobe Bryant, Predrag Stojakovic, Steve Nash, Jermaine O’Neal, Zydrunas Ilgauskas eccetea.
In meno di un mese, l’NBA del boom ha perso due figure dominanti: David Stern, il dirigente sportivo più importante dello sport professionistico americano, e Kobe Bryant, l’atleta manifesto della lega tra l’evo di Michael Jordan e quello di LeBron James.
Nell’èra dell’espansione e della fama mondiale, con un successo finanziario senza precedenti, il Big Bang portò anche altro. Qualcosa di oscuro e osceno, non quanto accadde negli anni ruggenti dell’eurobasket (gli Ottanta, politicamente corrotti), ma con dinamiche da overdose di ricchezza: i dati televisivi d’ascolto, l’influenza delle superstelle, i conflitti di interesse, gli arbitri, le scommesse.
Qualcuno forse dall’altra parte dell’Atlantico, col carbonio-14, perlustrerà meglio nei meandri di una vicenda, carsica, che cominciò dalle parti del 1992, 1993 e si concluse – con il pugno di ferro di re David – dopo le Finals 2006.
Il centro di gravità permanente fu la (magnifica) finale occidentale 2002 tra i Lakers e i Kings. Pistola fumante, che odorò subito di combine grigia, la Gara6 che portò la serie alla bella.
Quei 27 tiri liberi losangeleni (nell’ultimo quarto!) e un metro arbitrale ambiguo: citando proprio Phil Jackson (sic), quella sera l’abbiamo asteriscata a futura memoria.
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