MARIO BECCIA, LO SCALATORE GARIBALDINO CHE SAPEVA VINCERE



di NICOLA PUCCI - 21 febbraio 2020

A ricordare il ciclismo anni Settanta-Ottanta, se l’Italia poteva affidarsi a fuoriclasse del calibro di Francesco Moser, Giuseppe Saronni, Giovanni Battaglin e Moreno Argentin, altresì aveva a disposizione, subito dietro ai campioni acclamati, un plotone consistente di corridori di seconda fascia, all’occorrenza capaci di imporsi in corse dal prestigio internazionale.

Prendete Mario Beccia, ad esempio, scalatore per costituzione e attaccante per vocazione. 

Nato a Troia, in provincia di Foggia, il 16 agosto del 1955 e professionista dal 1977 al 1988, piccolo di statura e leggero quanto basta per eccellere in salita, Beccia seppe farsi apprezzare per il temperamento garibaldino e il carattere schietto, che se in parte gli alienò la simpatia degli organizzatori del Giro d’Italia con i quali ebbe modo più volte di dissentire, altresì gli procurò la stima dei colleghi e l’affetto dei tifosi. Un corridore decisamente frizzante, spesso all’avanguardia del gruppo quando il chilometraggio si faceva importante, e con l’occhio rivolto verso le gare più blasonate.

Beccia, dunque, dopo una buona carriera da dilettante che lo vede aggiudicarsi, tra le altre, la Cronoscalata della Futa-Memorial Gastone Nencini nel 1976, si guadagna il passaggio tra i “grandi” nel 1977, andando a far da scudiero a Francesco Moser in quella Sanson che ha in Claudio Bortolotto un altro validissimo grimpeur. Il trio fa scintille fin da subito sulle strade del Giro d’Italia, con Moser a chiudere sul secondo gradino del podio beffato dalla sgraziatissimo ma efficace Michel Pollentier, Bortolotto infine ottavo in classifica generale e lo stesso Beccia che non solo è ottimo nono al debutto in una grande corsa a tappe, ma vince in solitudine la quinta tappa con arrivo a Spoleto e la speciale classifica riservata ai giovani, vestendosi della maglia bianca.

E che Mario abbia doti non comuni di scalatore è certificato dalla vittoria in autunno sulle rampe severe del Giro dell’Emila, lasciando lo svedese Bernt Johansson, campione olimpico in carica per la vittoria ottenuta a Montreal 1976, a 30″.

Un primo anno così convincente propone Beccia all’attenzione dei media, e se per il 1978 i risultati tardano a venire, l’anno dopo, vista l’incompatibilità con Moser, Mario passa alla Mecap diretta da Dino Zandegù, a cui rimarrà fedele per tutti gli anni a venire, e dove il pugliese, trapiantato in Veneto, veste i gradi di capitano vincendo subito al Giro d’Italia la tappa con arrivo a Perugia, anticipando di 2″ Knudsen, De Vlaeminck, Gavazzi, Saronni, Moser e Bertoglio. In quell’edizione Beccia è nuovamente protagonista, con il secondo posto a Potenza alle spalle di Bortolotto, il quinto nella cronometro di San Marino a certificare che, oltre a essere abile in salita, se la cava egregiamente anche sul passo, e il sesto posto finale in classifica generale a 7’50” da Saronni.

La Corsa Rosa, dunque, è il terreno di battaglia preferito di Beccia, che nondimeno contesta i percorsi disegnati su misura per i passisti e poco adatti agli scalatori, collezionando nel corso delle stagioni tutta una serie di buoni piazzamenti conclusivi, come un altro sesto posto nel 1980 a 12’47” da Hinault, il dodicesimo nel 1981, il settimo nel 1982 a 11’06” ancora dal “Tasso", tagliando per primo il traguardo di Lanciano, il quarto nel 1983, a 5’55” da Saronni e alle spalle anche di Roberto Visentini e Alberto Fernandez, trionfando nel tappone di Selva di Val Gardena, e il nono nel 1984, a 11’41” dal suo ex capitano Moser, che sale sul più alto gradino del podio.

Torneremo poi sulla stagione 1984, una delle migliori della carriera di Beccia, ma c’è molto altro ancora da raccontare di Mario. A cominciare da un’altra grande corsa a tappe, che non è il Tour de France, dove il pugliese colleziona non meglio che un 33-esimo posto nel 1982 e un ritiro nel 1986, bensì il Giro di Svizzera, che gli è particolarmente adatto in virtù del suo profilo altimetrico decisamente impegnativo. 

Sulle strade elvetiche, nel 1980, il corridore allora della Hoonved fa saltare il banco, dopo che il talentuosissimo ma discontinuo Daniel Willems ha vinto le prime sei tappe (!), tenendo la maglia oro fino alla cronoscalata di 11 chilometri del Monte Generoso. Beccia, già terzo nella prova contro il tempo di Basilea, nel giorno del successo di Josef Fuchs, beniamino di casa, e di Joop Zoetemelk che balza al comando della classifica generale ipotecando il successo finale, risale al secondo posto con un ritardo di 1’03” dall’olandese della TI-Raleigh, pronto a sferrare la zampata risolutiva. Come puntualmente avviene 24 ore dopo quando, lungo i 266 chilometri verso Glarona, Beccia se ne va in beata solitudine, sbaraglia la concorrenza, taglia il traguardo con un margine di 2’01” sullo stesso Fuchs e sul compagno di squadra Luciano Loro, che gli copre le spalle, e di oltre 4 minuti su Zoetemelk, e di fatto si aggiudica la corsa.

Beccia esprime al meglio il suo potenziale sulla grandi salite e nelle corse a tappe, dotato com’è di resistenza alla fatica e spirito indomito, ma ha modo, tuttavia, di disimpegnarsi egregiamente anche nelle gare di un giorno, e se nel 1979 è stato decimo alla Milano-Sanremo, scavalcato dal plotone in rimonta a pochi metri dalla linea bianca dopo aver tentato l’azzardo all’ultimo chilometro, e undicesimo al Giro di Lombardia, migliorandosi l’anno dopo nella “classica delle foglie morte” con un altro decimo posto, ecco che nel 1982, alla Freccia Vallone, va a prendersi la vittoria più bella della sua carriera.

Il tracciato della classica vallone è perfetto per le attitudini di Beccia, con le sue cotes che scremano in avanti i migliori, e con le rampe carogne del Muro di Huy, introdotte per l’occasione, seppur ancora non siano sede d’arrivo, posto invece a Spa, a definire la contesa. E sono proprio queste asperità a ispirare Mario, puntuale all’appuntamento con la vittoria, involandosi a 40 chilometri dall’arrivo con il norvegese Jostein Wilmann, che veste i colori della Capri Sonne, e a dispetto di un passaggio a livello che a 9 chilometri dall’arrivo permette il rientro di un quartetto di inseguitori, tra i quali Saronni, poi neutralizzati, anticipandolo al traguardo di 1″, con Paul Haghedooren terzo staccato di 14″.

La vittoria alla Freccia apre il triennio di maggior soddisfazioni per Beccia, che se nel 1983, appunto, ottiene il miglior risultato al Giro d’Italia sfiorando il podio, aggiungendo anche la vittoria nella tappa di Leukerbad al Giro di Romandia, nel 1984 infila un poker di successi che, se saranno gli ultimi della sua avventura agonistica, lo elevano al rango di corridore di prima fascia del ciclismo italiano.

L’11 marzo, in maglia Malvor-Bottecchia, Beccia stacca tutti e vince a Monte San Pietrangeli la terza tappa della Tirreno-Adriatico; il 6 aprile si trova a battagliare con Gianbattista Baronchelli e Silvano Contini, non certo due corridori qualunque, e li beffa sulle strade del Giro dell’Umbria; il 17 giugno, dopo tre secondi posti alle spalle di Baronchelli, un terzo posto nel 1982 ed un quinto nel 1983, doma infine Bocchetta e Giro dell’Appennino, risolvendo la sfida a due con Fabrizio Verza; il 16 agosto, seppur la Milano-Vignola sia corsa adatta ai velocisti, piazza l’allungo vincente nel finale e per 5″, beffando il portoghese Acacio Da Silva, si offre un magnifico poker stagionale.

Che gli garantisce una quinta convocazione in maglia azzurra, per il Mondiale di Barcellona, dove opera da gregario così come aveva fatto nelle quattro precedenti occasioni, chiuse con altrettanti ritiri ad eccezione della gara iridata del 1978 quando, nel giorno della beffa del Nurburgring perpetrata da Gerrie Knetemann sull’allora suo capitano Francesco Moser, Beccia ottiene un onorevolissimo 19-esimo posto.

Ci sarebbe ancora il tempo per mettere la ciliegina su una torta già gustosa, ed ecco, allora che Beccia, dopo un ottavo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi del 1985 giocandosela alla pari con campioni del calibro di Argentin, Criquielion, Roche, Kelly, Fignon, Anderson e Van Calster con cui infiamma la fase decisiva della corsa, tenta il colpaccio alla Milano-Sanremo. E’ il 15 marzo 1986, e a cinque chilometri dalla meta, sulle ultime rampe del Poggio, Mario attacca deciso, frantumando il gruppo e trascinandosi a ruota i soli Sean Kelly e Greg Lemond, non riuscendo a fare il vuoto perché “bloccato” dalle moto. Sventura vuole che l’irlandese e l’americano siano più svelti di lui in volata, e allora il pugliese-veneto, fedele fino in fondo al suo personaggio che mai si dà per vinto, azzarda l’allungo all’ultimo chilometro, venendo infine stoppato e dovendosi accontentare della terza moneta. Lamentandosi in diretta tv con il patron Vincenzo Torriani, che risponde per le rime «raglio d’asino non sale in cielo» (!).

Sarebbe stato bello chiudere così una carriera che si prolungherà fino al 1988… e allora restano le parole di chi più di ogni altro ha stimato il lavoro di Mario Beccia, il suo mentore Zandegù, «Beccia è stato un pedalatore onesto, meraviglioso, un esempio per tutti. Non accettava compromessi di alcun genere, possedeva il carattere del vero combattente. Sono tante le corse in cui le sue fughe sono terminate a cento metri, anche meno, dall’arrivo. Ancora oggi, quando lo incontro, mi viene spontaneo un abbraccio…». Vuoi mettere che soddisfazione?

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