CAPITOLO 34 - No Mike, no Nike


“Eravamo alla ricerca di personalità trascinanti, che potessero oltrepassare le barriere razziali, e mio figlio, che all’epoca aveva 17 anni, e i suoi amici mi avevano assicurato che un Michael Jordan sarebbe stato un investimento migliore di un Larry Bird. Avevano ragione.”
   – Phil Knight

“It's gotta be the shoes...” 
   – Slogan Nike (1991) della Nike, regia di Spike Lee 

“It was never the shoes...”
   – Cartello di un tifoso dei Chicago Bulls, stagione 1995-96

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael “Air” Jordan
Rainbow Sports Books © 

La Nike era stata un’azienda che aveva ricavato immensi profitti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando era in voga il cosiddetto boom del running. Nella seconda parte del decennio, quel fenomeno era giunto fino a noi, seppure un po’ annacquato e in ritardo, come tutti i fenomeni d’Oltreoceano, con il fiorire della cultura del benessere fisico, delle palestre, del fitness, come dire, un po’ “all’amatriciana”, che andava tanto di moda dalle nostre parti in quegli anni. 

Nel 1984, però, le azioni della casa di Beaverton incominciarono per la prima volta a scendere in maniera preoccupante e, alla Nike, incidentalmente proprio quando ne avrebbe avuto più bisogno, era capitato di non riuscire a “firmare” neanche una delle maggiori star del basket di quel periodo. I manager dell’azienda, di conseguenza, tentarono disperatamente di invertire il trend. Quando si accorsero di averle ormai provate tutte e di non sapere più a che santo votarsi, miracolosamente, ne trovarono due, di santi: uno era san Michael da Wilmington e l’altro il suo angelo custode David Falk. 

Fu così che dal quartier generale dell’Oregon partì l’input: che fosse per ferma convinzione o per mera necessità, la Nike decise di correre un enorme rischio e, superando anche le più rosee aspettative di Falk, offrì a Jordan il più lucrativo contratto mai sottoscritto nella storia della NBA. 

Come risultò poi, la scommessa della Nike avrebbe ripagato l’azzardo facendo crollare il banco: solo negli ultimi dieci anni, è stato calcolato per l’azienda un ritorno (stimato) di ben 5,2 miliardi di dollari. 

Ma, la perla più rara e preziosa il cercatore Falk la stava ancora cercando. La trovò senza faticare più di tanto, perché "Air", la parolina magica che avrebbe reso miliardari tutti coloro che ruotavano attorno all’entourage di Jordan, fu un’intuizione che Falk regalò alla Nike. La quale si precipitò a depositarla come marchio. 

Un gesto di riconoscenza per il contrattone? Non proprio, visto che David e compagnia si sarebbero in seguito rifatti, e alla grande. E pensare che Michael con i vertici della Nike nemmeno voleva incontrarsi... 

Una volta scelto di legarsi alla casa col baffo, però, Jordan ha almeno avuto il buon gusto di recitare il sua culpa e di non arrogarsi meriti che non aveva. “Io non avrei mai voluto firmare con la Nike” ha ammesso. 

“Ero sempre stato un fanatico dell’Adidas fin dai tempi del liceo e, infatti, non volevo neanche incontrarmi con la Nike. Nell’estate del 1984 avevo volato per tutto il Paese per svariati banchetti di premiazioni, i Bulls, le Olimpiadi. Ero stanco di viaggiare. Quando venne il momento di incontrare la Nike, io dissi a tutti, al mio agente David Falk, a Coach Smith e anche ai miei genitori, che non ci sarei andato. Non avevo alcuna intenzione di firmare con loro e non avevo nessuna voglia di volare fino a Portland, nell’Oregon”. Per fortuna, però, a casa Jordan non erano tutti dei pazzi e ci fu qualcuno in grado di far sedere (letteralmente) Michael e “costringerlo” ad ascoltare dei buoni consigli. Vero, Mike? “I miei genitori – continua MJ nei suoi ricordi, a quattordici anni di distanza da uno dei tanti appuntamenti col Destino che gli avrebbero trasformato l’esistenza – alla fine mi fecero sedere e mi dissero: ‘Guarda che è importante. Ti servirà ascoltare quello che hanno da dirti quelle persone’”

E Michael, che pure non aveva la minima voglia di salire su un altro aereo per sobbarcarsi l’ennesima trasvolata, per una volta si lasciò convincere. Fu la sua fortuna. 

“Mi sentivo come se fossi stato trascinato fino in Oregon solo per stare a sentire delle cose sulle quali non avevo alcuna intenzione di intervenire – prosegue il futuro Air –, e fu con questo stato d’animo che mi avviai all’incontro, dove c’erano ad attendermi Robert Strasser (responsabile della divisione per lo sviluppo di nuove strategie di marketing), Phil Knight (proprietario e fondatore della Nike), Tinker Hatfield, Jack George, Peter Moore e Howard White”

Alla Nike non avevano certo dormito: per arrivare all’appuntamento pronti a far colpo sulla futura matricola d’oro del pianeta NBA, avevano preparato un video con una raccolta di highlights di Jordan in maglia UNC il tutto con il sottofondo della colonna sonora appropriata, Jump, il brano delle Pointer Sisters. La cosa servì parecchio perché servì a catturare l’attenzione di Michael che, lo si sarà intuito, di stare là, non è che ne avesse una gran voglia. 

“Ora, io non avevo piacere di trovarmi là e stavo a malapena ad ascoltare, ma Strasser catturò la mia attenzione. Stavano discutendo di darmi una scarpa tutta mia e dell’idea di ridefinire, in sostanza, l’intera industria della scarpa sportiva. Strasser fece gran parte della discussione. Era un tipo robusto, affabile, energico e un gran motivatore, tuttavia io ero scettico perché, a dire il vero, non mi erano neanche mai piaciute le scarpe della Nike. I soldi erano sostanziosi per quei tempi, 250 mila dollari l’anno per cinque anni, con una rendita annuale, incentivi e royalties su tutti gli articoli della Nike legati al basket. Era un grande affare, ma era anche rischioso perché mai nessuno, nell’industria, aveva fatto niente del genere. Julius Erving era diventato identificabile con una scarpa specifica, ma non era stato mai retribuito nella maniera in cui lo sarei stato io. Crescendo, tutti [i ragazzini] dicevano: “Voglio un paio di “Dr. J’s’”. Ed erano scarpe Converse. Ragionando a posteriori, l’azienda aveva sfruttato i diritti che appartenevano a Julius Erving senza mai pagare per poterlo fare. L’incontro era stato interessante, ma quando terminò io pensai: “Bene, adesso andiamo a sentire che cosa ha in mente la Converse, poi firmerò con l’adidas”

Michael però, seppur solo tra sé e sé, aveva parlato troppo presto. 

Innamorato della marca dalle tre striscette, Jordan, prima di chiudere una qualsiasi trattativa, voleva avere ben chiaro il quadro della situazione: “Prima di andare alla Converse parlai con Bill Sweek, un rappresentante dell’adidas che avevo incontrato in North Carolina. Feci tutto per conto mio. Nessuno, Falk compreso, sapeva del mio appuntamento con Bill, al quale riferii che cosa offriva la Nike e dissi: ‘Tutto quello che dovete fare voi [dell’Adidas] è arrivarci vicino’. 

Nel frattempo dovevo vedermi con quelli della Converse, che era un’azienda molto improntata alla tradizione, molto conservatrice’. Michael all’epoca era magari ancora un po’ ingenuo ma certo non uno sprovveduto, e se è vero che se non fosse stato ben consigliato chissà come le cose si sarebbero evolute, è vero anche che nella vita, a volte, contano anche la fortuna, il caso, la capacità di fare la mossa giusta al momento giusto. E lui, quella mossa, seppe farla. 

Jordan ci aveva visto giusto. La Converse era una compagnia tradizionale e, soprattutto, tradizionalista. Fondata nel Massachusetts nel 1908 da Marquis M. Converse come azienda dedita alla produzione e lavorazione della gomma, nel 1917 la Converse Rubber Company produce la prima scarpa in tela concepita per il gioco della pallacanestro. Il modello viene chiamato Converse All Star. Quella stessa scarpa, poi famosa in tutto il mondo, sarebbe stata quindi per sempre conosciuta con la semplice etichetta di “All Star”. Quello che non tutti sanno è che Charles “Chuck” Taylor, all’epoca del suo ingresso – come venditore – alla Converse, era a sua volta una giovane promessa del basket e che a un certo punto aveva piantato tutto per andare a fare il rappresentante delle scarpe che, due anni dopo, nel 1923, avrebbero visto aggiungere la sua firma sul logo: erano nate le All Star Chuck Taylor della Converse. 

Che alla Converse si respirasse a pieni polmoni la tradizione, Jordan se ne accorse una volta recatosi là, a Lumberton, Massachusetts, negli stabilimenti dove le scarpe venivano prodotte. 

“La Converse - riannoda il filo del discorso MJ – aveva tra le sue fila Magic Johnson, Isiah Thomas, Larry Bird, Mark Aguirre, Dr. J, tutti i giocatori migliori. C’incontrammo al quartier generale della società, fuori Boston. Il posto sembrava grondare tradizione e ricordo che non mi ci sentii granché a mio agio. Avevo però avuto già qualche esperienza con quell’azienda perché noi a UNC calzavamo appunto le Converse per le partite, quindi in qualche modo mi sentivo in obbligo di ascoltare”

A volte però “troppa” tradizione rischia di trasformarsi in un fardello troppo pesante per l’azienda, che rischia di non stare al passo con i tempi e, soprattutto, le cifre. 

“La loro offerta era in penny in confronto alle dime [cioè dieci volte tanto, nda] che offriva la Nike. I loro numeri uno guadagnavano in tutto 100 mila dollari l’anno, e Dr. J nemmeno percepiva le royalties per la sua scarpa. Alla Converse avevano paura di fare un’eccezione per me, per quel che avevo capito io. Per di più, io non ci stavo neanche comodo con le Converse. Ricordo che mi ci sentivo a disagio”. 

Disagio o no, a quelle condizioni, la Converse si era virtualmente chiamata fuori da sola. In pista rimanevano quindi due sole contendenti, adidas e Nike, ma, nonostante Michael parteggiasse sfacciatamente per la prima, la seconda vinse la corsa di fatto a tavolino perché la multinazionale di matrice tedesca decise di non partecipare. 

“Il mio cuore – preciserà Michael – era ancora legato all’adidas, che però non fece mai un’offerta. Non voleva correre rischi sul mercato cestistico USA e mettere a repentaglio l’internazionalità del marchio. La decisione era molto più agevole per la Nike. Le quote della compagnia erano precipitate di oltre la metà [del valore d’acquisto, nda] e nel 1984 erano scese a circa 6 dollari ad azione. Strasser doveva giocare d’azzardo, e così fece. Voleva rivoluzionare l’intero mercato scommettendo su un’unica persona. E la Nike non avrebbe avuto una seconda chance. È stato geniale: ha funzionato”

Ma non crediate che Michael avrebbe potuto muoversi da solo tra questi meandri. Lui è, per fortuna, un giocatore di basket e in queste situazioni ci vuole un altro tipo di fiuto che non è quello che ti fa scegliere l’opzione di tiro giusta o il compagno meglio piazzato. 

Lo squalo Falk vigilava e sentiva l’odore del sangue, e intanto aveva già in bocca una dolcissima acquolina. Secondo Mike, infatti, l’astuto David aveva capito tutto: “Fin dall’inizio, David Falk comprese il potenziale della Nike e come quell’accordo potesse poi essere utilizzato da modello per altri partner di marketing. Altrettanto fece la Nike. Quello che la Nike non sapeva, all’epoca, era quanto io potessi essere coinvolto nell’evoluzione del prodotto e quanto ne amassi il processo creativo. Inoltre, nessuno sapeva quanto bene avrei giocato. Nemmeno io lo sapevo, non ne avevo idea”. 

Riepiloghiamo. 
Cinque maggio 1984, Chapel Hill, sede del campus di UNC: Michael Jordan, con un’improvvisata conferenza stampa, annunciata appena il giorno prima, decide di lasciare North Carolina con un anno di anticipo sulla canonica scadenza del suo quadriennio universitario. 

Estate 1984, Michael incomincia a cercarsi un agente e lo individua in David Falk della ProServ. 

Indianapolis, All-Star Weekend 1985: alla consueta kermesse di metà stagione con la quale la NBA è solita autocelebrarsi, la matricola dei Chicago Bulls di nome Michael Jordan viene votata per giocare addirittura in quintetto nella selezione dell’est, assieme alle altre super stelle già da tempo affermatesi nella Lega. Il sabato c’è l’ormai appuntamento fisso dello Slam Dunk Championship, la gara delle schiacciate, e c’è quel rookie che ai piedi porta una cosa mai vista: non un paio di scarpe da basket di colore prevalentemente bianco ma delle orrende calzature con sfondo rosso e nero, in bianco solo i lacci e una spessa “para” di gomma tra la tomaia e la suola. Lo swoosh, il tradizionale, riconosciutissimo “baffo”, che è il logo della Nike, è rosso e parte dal ribotto del tallone, anch’esso rosso fuoco, e termina campeggiando in un mare di nero. In punta, la parte superiore della scarpa è tutta rossa con il rinforzo nero che va ad unirsi con le parti laterali, tutte nere. Sembravano sin troppo pacchiane, eppure andarono a ruba. 

Erano nate le Air Jordan. 

In quell’All-Star Weekend, erano state indossate da Michael per prova. Ma il vero lancio sul mercato statunitense era previsto per l’autunno di quell’anno, il 1985. 

Per la campagna pubblicitaria la Nike e lo stesso MJ ricevettero un aiuto da chi mai si sarebbero aspettati. Ma lasciamo che sia il diretto interessato a raccontare come andarono le cose: 

“Alla Nike avevano in mente una campagna pubblicitaria, ma erano timorosi di metterla in moto fino a quando non mi avessero visto giocare. Iniziai la stagione 1984-85 calzando le scarpe nere e rosse. Tre partite di campionato e la NBA ci fece un favore enorme. La Lega proibì quelle scarpe perché non erano conformi al resto della divisa dei Bulls. Ma io continuai a portarle e David Stern incominciò a multarmi. Credo si partisse da 1000 dollari a gara, poi si arrivò a 3000 e alla fine a 5000 dollari. La Nike non batté ciglio. Dissero che avrebbero pagato loro fino all’ultimo penny e io fui totalmente d’accordo. Sarebbe costato milioni di dollari inventarsi una promozione che producesse tanta pubblicità quanta ne avrebbe fatta il divieto della lega. Il tutto funzionò a puntino. Il primo commercial faceva vedere la mia testa, e poi la telecamera lentamente si abbassava lungo il mio corpo fino ai piedi. Quando la camera inquadrava le scarpe, una grossa “X” veniva stampata sullo schermo e la voce fuori campo diceva “Banned”, proibite. Subito dopo, le vendite s’impennarono ad un ritmo pazzesco”. 

Se ancora ci fosse qualcuno con dei dubbi sull’impatto che Jordan ha avuto (e ha) sul mercato non solo delle calzature ma dell’intera industria degli articoli sportivi, dovrebbero bastare un paio di cifre per farglieli fugare del tutto: il fatturato lordo annuo della Nike nel 1984 era di 986 milioni di dollari, mentre 14 anni dopo, alla chiusura del bilancio d’esercizio 1998, il fatturato lordo era cresciuto a 9.186 milioni e 539mila dollari! Ne volete ancora? E va bene, sentite questa: il costo di una quota azionaria Nike del primo novembre 1984 era di sette dollari, il valore azionario al 2 luglio 1998 era schizzato a 418 dollari. Was it the shoes?, che siano state le scarpe? 

Nella sua terza stagione nella NBA, quella 1986-87, la fama di Jordan incominci” a crescere esponenzialmente. I tifosi, non solo di Chicago ma di tutta la Lega, rimanevano semplicemente sconcertati di fronte agli exploit realizzativi di quella specie di Tiramolla che sembrava fatto col fil di ferro, tanto sembrava non spezzarsi mai nonostante i difensori più forti del mondo cercassero di abbatterlo una sera sì e l’altra pure. 

I giornalisti sportivi radiotelevisivi di tutto il Paese non mancavano mai di menzionare il suo totale punti quando, al termine di un incontro, riportavano il punteggio dei Bulls. Jordan stesso alimentò la sua leggenda andando a vincere perfino lo slum dunk contest, la gara delle schiacciate, che si tiene nel tradizionale appuntamento dell’All-Star Game, nella pausa di metà stagione. 

Il primo modello delle Air, durato un biennio (1984-86), prevedeva, oltre a quello rossonero, altre due versioni con parecchio sfondo bianco, sul quale prevalevano comunque i soliti due colori: gli intarsi che nel primo erano neri nel secondo erano diventati rossi e il “baffo” da rosso era passato a nero, solo il tallone era ancora rosso e stavolta i lacci erano neri. Con quelle scarpe Michael aveva disputato la prestazione-monstre del 20 aprile 1986, quella dei 63 punti con i Celtics, al Boston Garden, nella gara che ha stabilito il nuovo record per punti segnati nei playoff: la migliore pubblicità che ci potesse essere, sia per Michael sia per le Air Jordan! Altro che i 5000 dollari di multa a partita della lega”. 

Da solo, in appena dodici mesi dal suo lancio sul mercato, quel primo modello di scarpe aveva messo insieme un fatturato di 130 milioni di dollari. A partire dalla stagione seguente, quella 1987-88, la Nike avrebbe ormai mangiato la foglia, il ramo e l’intero albero: da Portland, ogni stagione, fino a quella del 1992-93, uscirà un nuovo modello di Air Jordan per annata. Dal secondo tipo in poi, ritorna tanto bianco come colore predominante ma sparisce il baffo Nike, ma il legame con la tradizione si ferma lì; le Air Jordan devono essere scarpe di rottura col passato e l’evoluzione non può, non deve fermarsi. Sempre più alte da terra per ammortizzare, sempre più “grosse”: ai piedi degli americani sembra ci siano navicelle spaziali più che calzature da basket, ma così vogliono la moda e la “cultura” suburbana delle inner-cities delle metropoli”. E così “deve” essere. Le scarpe da basket (meglio se sono Air Jordan), come i suv con i vetri oscurati o le grosse catene d’oro massiccio, sono ormai da anni un vero e proprio status symbol dell’essere cool, un elemento di prestigio nelle strade delle megalopoli. Per ora si tratta soprattutto di un fenomeno prevalentemente Usa, ma la moda va allargandosi a macchia d’olio, più o meno alla stessa velocità con cui aumenta il prezzo delle sneaker (da 100 dollari in su). 

Dalla stagione 1988-89 compare il logo universalmente riconosciuto in tutto il mondo: si chiama Jumpman, e raffigura un Jordan stilizzato che, proteso in volo, tiene la palla con una mano (la sinistra) nel gesto di schiacciare, a gambe divaricate, a canestro. 

A proposito dell’omino che schiaccia, un simbolo la cui riconoscibilità è ormai di portata mondiale, Spike Lee ha una sua originalissima teoria: è convinto che la NBA dovrebbe onorare MJ cambiando il proprio logo e mettendo in evidenza il simbolo universalmente riconosciuto del Jumpman. 

“Per me non c’è dubbio che [Jordan] sia il migliore che abbia mai giocato in questo grandissimo sport. Ci sarà sempre da discutere, comunque. Molti di quelli della passata generazione sostengono tuttora che è stato [Oscar] Robertson il migliore di sempre. Io ho parlato con [gli ex grandi della NBA] Walt "Clyde" Frazier e Earl “The Pearl” Monroe e anche loro dicono Oscar. 

Io non ho visto Oscar al suo apice, quando giocava con i Cincinnati Royals, ho potuto vederlo solo quando approdò a Milwaukee ed era già nella parabola discendente della sua carriera. 

Quando arriverà il momento [del ritiro di Jordan], io spero solo che la NBA agisca bene con lui. [Quelli della lega] hanno la necessità di salvaguardare la sua immagine: quei calzoncini sformati, quella testa pelata, quel sorriso accattivante. La NBA non dovrebbe consegnargli un pacchiano orologio d’oro, un assegno di riconoscenza con su un sacco di zeri o erigergli una di quelle statue di scarso valore stile Rocky di fronte agli uffici della lega a Manhattan, come testimonianza del proprio apprezzamento. 

Se la NBA volesse veramente immortalare Jordan, dovrebbe cambiare il suo attuale logo e rimpiazzarlo con uno con le sembianze di Jordan. La Lega non dovrebbe ingaggiare un artista o guardare tanto lontano per avere un’idea. Il logo con lui che vola in alto – sapete, quello con lui che schiaccia – che è su tutta la sua firma di scarpe e articoli di abbigliamento sarebbe perfetto. Immaginatevelo. Il retaggio e l’immagine di Jordan e durerebbero per sempre. 

Di sicuro, sarebbe una mossa colossale. Mai vista, anzi. Ma calzerebbe a pennello per un giocatore della statura di Jordan. È vero, Magic Johnson e Larry Bird salvarono la NBA quando vi arrivarono, nell’autunno del 1979, ma mentre le loro imprese furono tante, Jordan emerge da solo. 

È stato Jordan – e nessun altro – che, oltre a portare i suoi compagni di squadra a un altro livello, ha portato il gioco di questa Lega ad un ulteriore standard nell’arco degli ultimi dieci anni. Non solo in campo – cinque campionati in sette stagioni – ma anche fuori del campo. 

Anche quelli che la NBA non la seguono conoscono Michael e ne riconoscono il talento. Tutto quello che c’è da sapere è che ci sono solo due tizi in questo mondo che si possono chiamare “Michael” e basta: Jackson e Jordan. Una bella compagnia”

Tornando alle scarpe, i modelli in colore nero, che hanno dato la stura a un processo di imitazione a catena in tutte le aziende del settore, incominciano ad uscire a partire dal campionato ‘91-92 e durano fino al febbraio 1993, perché, finalmente, quelli di Beaverton capiscono che più scarpe buttano sul mercato e più vendono, e che vadano in malora tutte quelle “strampalate” teorie economiche della domanda e dell’offerta del prodotto, tanto, se c’è Jordan, si vende e basta. Era ed è vero. 

Dopo la doppia uscita (oltre al modello della stagione ‘92-93, ci furono delle uscite in febbraio e in novembre) nell’anno in cui l’”Air” in carne e ossa, non la scarpa, avrebbe lasciato il basket, le cose non sarebbero cambiate. Anche se Jordan si era ritirato ufficialmente in ottobre, un mese dopo era sulla rampa di lancio pubblicitario il decimo modello delle Air Jordan, anche se Michael, di lì a poco, si sarebbe dato al baseball. Cioè, avete capito l’assurdo? Si continuavano a produrre (e vendere) Air Jordan come se niente fosse accaduto, e lui, il Jordan giocatore, aveva smesso col basket! Al ritmo di un modello all’anno veniva lanciata la nuova scarpa: novembre 1994 (un anno dopo), poi 1995, 1996, 1997, fino all’ultimo, il quattordicesimo, datato 1998. 

Nella stagione 1987-88, inoltre, apparvero in tv i primi popolarissimi spot della Nike che vedevano un MJ ancora un po’ imbranato davanti alla telecamera e, per questo, girati senza che lui avesse un copione, anche minimo, da dover recitare. Lui faceva soltanto quello che sapeva fare meglio, giocare. Due di questi erano particolarmente suggestivi ed è un vero peccato non averli potuti vedere anche in Italia. 

In uno, mentre MJ è in volo verso il canestro, sul teleschermo compare un messaggio che recita: “Who said man wasn’t mean to fly?”, chi ha detto che l’uomo non è fatto per volare? 

In quello successivo, Jordan sfida in un uno-contro-uno mozzafiato nientepopodimeno che Babbo Natale. Ma bisognava stare attenti, la gente avrebbe potuto prendersela a male, parteggiare per Babbo Natale (ehi, Mike, non vorrai mica portarci via l’ultimo baluardo di tradizione e di fanciullezza, e che diamine!) e c’era il rischio che boicottasse le scarpe. “È stato divertentissimo, ma ero un po’ nervoso perché non mi sentivo di battere Santa Claus, temevo che la gente se ne avesse a male, quindi nello spot si vede solo che giochiamo uno contro l’altro, ma non si capisce chi vince e chi perde”. 

Nel 1988 entra invece in scena un personaggio che accompagnerà MJ a lungo, anche se, a livello pratico, di spot insieme ne hanno girati ben pochi, seppur indimenticabili: Spike Lee. Il regista cinematografico contribuì alla costruzione del mito di Michael con il primo dei celebrati commercial, facenti appunto parte della campagna pubblicitaria di lancio delle Air Jordan, che ebbero (i commercial e le scarpe) un successo senza precedenti. Il risultato, probabilmente irripetibile e sicuramente irripetuto, fu dato, come è ovvio, da una combinazione di cause: il carisma di Michael Jordan era stato naturalmente l’ingrediente principale della “pozione magica”, ma anche la straordinaria inventiva del famoso regista risultò, in proposito, determinante. 

Nei due spot (uno datato appunto ‘88, l’altro ‘91) che il noto regista ha firmato (e filmato) per la Nike, c’è un ragazzino, tale Mars Blackmon (Marte), uno dei personaggi (interpretato, nel film come negli spot, dallo stesso Lee) del primo film “importante” del regista (She’s Gotta Have It), una pellicola che vedeva Blackmon girare sempre in bicicletta e indossare il medesimo cappellino da baseball con la scritta “Brooklyn” sulla visiera, un paio di occhialoni con lenti spesso come fondi di damigiana e una catenina d’oro da un chilo abbondante che ha per ciondolo la scritta “MARS”. Ebbene, questa sorta di alter ego di Spike Lee, con l’aria sempre un po’ stralunata è un tale fanatico di Jordan che il suo cuore palpita più per le schiacciate di Michael che per la sua ragazza: “Nobody in the world can cover my main man. Nooooobody!” (“Nessuno al mondo può marcare il mio idolo, Michael Jordan. Nes-su-no!”) è il suo grido di guerra. 

“It’s gotta be the shoes” (“devono essere le scarpe”), è lo slogan che accompagna i voli a canestro di “Air”. Lee, tifosissimo doc dei Knicks, non ha mai nascosto la sua ammirazione sportiva per Michael. “Quell’uomo è un fenomeno” ha dichiarato “Spike” a Rob Parker, columnist del New York’s Newsday, nei primi mesi del 1998. “E la gente ha veramente esaurito le parole capaci di descriverlo. L’ho visto al Madison Square Garden di recente: ha segnato 44 punti. Non è tanto che possa segnare così tanti punti ad essere incredibile, quanto il fatto che tutti sappiano che tirerà e che tuttavia non ci sia nessuno che riesca a fermarlo. 

Tutti dicono che si ritirerà, ma io non so nemmeno perché lascerà. Mike ha 35 anni, ma è di gran lunga ancora il miglior giocatore della NBA. È all’apice del suo gioco. Sono ancora sorpreso di come Chicago sia riuscita a fare tutto quello che ha fatto senza Scottie Pippen. Ma, ancora una volta, è una scelta di Michael. Io sono davvero convinto che i tifosi di Chicago siano un po’ viziati: non penso che, fino a quando Michael si sarà ritirato e dal primo all’ultimo dei prossimi dieci anni, si renderanno conto di quanto privilegiati e fortunati siano stati ad avere Michael Jordan con la divisa dei Chicago Bulls. E in secondo luogo, credo che la stessa cosa si possa dire anche per tutti coloro che guardano la NBA. Lo diamo per scontato. Sono incredibili le cose che lui riesce a fare su un campo di basket. E ci” che rende Michael veramente così grande è che i grandi giocatori elevano i loro compagni di squadra, e nessun giocatore in nessuno sport ha innalzato il livello dei suoi compagni più di quanto abbia fatto Michael. 

La cosa che più mi impressiona di Michael è la sua è la volontà di vittoria [che è una specie di stadio superiore della “normale” voglia di vincere, nda]. Lui, semplicemente, si rifiuta di perdere. È semplice, ma è così. Lui non fa altro che dire: “Non perderemo” e poi fa in modo che la sua volontà abbia effetto sulla partita. Non sono molti, in ogni sport, i giocatori che riescono a farlo. 

Un’altra cosa di Michael è che non ha paura, e che ha un gran cuore, il cuore più grande della Lega. Un sacco di volte ci accorgiamo che una persona ha uno o l’altro: ci sono quelli che potrebbero anche avere il talento sufficiente, ma non hanno il cuore. O altri che invece hanno il cuore, ma non il talento. Qualcosa manca sempre. Mike però ha tutto quanto. Ecco che cosa gli permette di staccarsi, e di gran lunga, sulle altre stelle. 

E non dimentichiamoci che lui è anche molto intelligente. Quella è l’unica cosa di cui la gente non parla quasi mai. Mike ha fatto un master di specializzazione del gioco. Conosce il basket dentro e fuori. E sa come interpretarlo. Mike potrebbe essere un grande general manager per certe squadre. Potrebbe darvi una descrizione concisa di ogni singolo giocatore della lega, di ciò che possono o non possono fare. Lui sa valutare il talento. Conosce quello che quei ragazzi sanno fare, il loro “cuore”, quali di loro scoppieranno [per la pressione] e finiranno per dare i numeri, e quelli che ne usciranno vincitori. Specialmente i secondi. Ecco che cosa è stata l’intera carriera di Mike: un continuo uscire vincitore. Un sacco di giocatori non vuole la responsabilità di prendersi e “mettere” il Gran Tiro in una partita. Michael lo adora. Ed ha dimostrato di essere pure bravino a farlo”. 

Spike Lee, per”, di Michael è un entusiasta estimatore anche per quanto l’infallibile MJ ha saputo ottenere una volta uscito dalle lucide strisce di linoleum verniciate, sì, insomma, fuori del campo. “L’altra cosa che salta agli occhi di Michael – continua il regista nella stessa intervista concessa a Rob Parker – è quanto sia in grado di eccellere ad un altro livello anche fuori del campo, Nessuno è mai stato capace di essere ai vertici in due campi nel modo in cui lo è stato Mike. Mi ricordo di quando abbiamo lavorato insieme in quei primi spot della Nike. Non aveva neanche una battuta, non parlava nemmeno. E guardate in che maniera è progredito. Se tornate indietro nel tempo e prendete una videocassetta, vedete Billy Packer che intervista Michael dopo che aveva segnato Il Tiro contro Georgetown: Mike era molto provincialotto e non era certo un gran oratore. Ma l’uomo è cresciuto veramente tanto, è molto sciolto. Sembra molto più a suo agio di fronte alla telecamera”. 

Ormai da oltre tre lustri, MJ non è più un provincialotto. E dalle parti di Beaverton, dopo che gli avevano mostrato il primo modello delle Air Jordan (tutte rosse e nere) e si erano sentiti rispondere “Ma quelli sono i colori del Diavolo!”, ancora ringraziano: senza Mike, niente Nike. 
Diavolo di un Jordan. 

CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan

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