Diavolo d'un Saronni, il Pepe(rino) sulla coda


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books ©

sede UAE Emirates
Magnago (Milano), mercoledì 4 aprile 2018 

«Queste… ma queste… Ma guarda che è quarant’anni che la racconto ’sta storia qua, eh». 

- Dài, cominciamo, ché almeno… Io non volevo partire da qua, però… 
«No, ma vabbè, queste cose qui… Queste cose qui... È la verità». 

- Va benissimo. 
«Guarda l’intervista che leggi lì…». 

- Quella di Baronchelli… 
«È perfetta, non preoccuparti». 

- Ma sai da dove volevo partire io? Se non altro per non farti subito infervorare… 
«Ma nooo…». 

- Stamattina per venire qua sono passato davanti al parco di Villa Reale, aprile 1971, siamo ad aprile… E già te l’ho buttata lì: che cosa ti viene in mente? Giochi della gioventù… 

«Ah sì, sì…». 

- È lì che tutto è incominciato. Capito? Allora, per un caso, passo lì davanti… Finale regionale dei Giochi della Gioventù: volata lunga braccia alzate, è la tua prima vittoria “importante”, no? 

«Sì, sì. Era gli allievi, credo, no? No, no: che allievi, era esordienti. No: leva giovanile. Perché quelli lì erano… Allora: In quegli anni lì, tanti ragazzi si sono appassionati alla bici. Lì cosa c’era? Avevano cominciato a questi Giochi della gioventù. Cioè, era per far fare dello sport ai ragazzi delle scuole. Tu potevi scegliere bicicletta, corsa a piedi… Io avevo cominciato facendo la corsa campestre. Ti dico: andavo anche bene». 

- Giocavi anche a calcio da ragazzino, no? 

«A calcio… Ma sai, da ragazzino fai tutto. Poi, in quei tempi lì, figurati... Ho cominciato correndo anche a piedi, però, non lo so, non è che... Io e mio fratello andavamo in bicicletta perché lì, nella zona lì poi traffico non c’era, non c’era niente… Andavamo in bicicletta e io lo battevo, questo è il succo, no? E mi divertivo a battere mio fratello, che ha un anno più di me. E da lì è nato tutto. Poi, tra amici, c’era un circuito lì vicino a me, un circuito di 4-500 metri, un quadrato…». 

- Già quando eri a Buscate? 

«Proprio quando ero a Buscate, dove abitavo, vicino lì c’era questo circuito, con gli amici lì: “Dai, vieni qui, io ti batto…” Sai com’è da ragazzini… E lì un gruppo di 5-6-10 ragazzi che facevano le corse. Bene. Poi è venuta fuori questa cosa qui della Leva giovanile, che c’erano le selezioni che partivano dalle scuole, quindi c’erano le comunali, c’erano le provinciali, le regionali e poi c’era, si poteva andare in fase finale nazionale a Roma. Questa cosa qui. Ecco io ho cominciato lì». 

- Ma tua mamma Giuseppina che giocava a basket non ha provato a farti innamorare del basket? Ho controllato: campionessa d’Italia nel ’48… 

«E certo. Certo… No, perché…». 

- Bernocchi Legnano: però non era titolare… [sorridiamo, nda] 

«Bernocchi di Legnano. Però nella mia parentela, correvano tutti in bicicletta. La predominanza era del ciclismo. E quindi lì non ci piove. Dovevo andare a finire lì. Quindi va bene, quella che hai letto te, credo fosse la provinciale, forse, o regionale, non lo so. E da lì i primi due o tre andavano a fare le finali a Roma e io sono andato a Roma. Ma non ho fatto granché, non ho fatto niente, però sono andato a far le finali a Roma. Da lì è nata un po’…». 

- Tu sei nato in pista però dopo sei andato presto su strada e dicevano ah sì, un buon pistard… Mi spieghi ’sta cosa qua? 

«Ma io in pista ho sempre corso. Sempre. Perché…». 

- Qualche buon insegnamento la pista te l’ha dato, direi… 

«Sicuramente. Questo sicuramente sì. Ma io in pista ho sempre corso tanto. Primo, perché sono sempre stato… Ho inaugurato la pista che è a qualche chilometro da noi, a Busto Garolfo. Una pista diciamo poco [conosciuta]… non importante a livello diciamo non come il Vigorelli o altre piste però hanno fatto una pista lì a tre o quattro chilometri da noi, sono stato con altri amici il primo ad andarci sopra. Quindi avevo la pista vicino a casa. Facevano delle gare, perché allora facevano delle attività su pista ogni settimana c’era al mercoledì o al giovedì c’erano delle riunioni in pista o al Vigorelli o a Varese o a Crema o a Busto Garolfo… Quindi l’attività su pista era tanta. Era tanta. E quindi io facevo la pista, mi piaceva, mi divertiva. Si giocava, più che altro, no?, con gli amici e via via. Quindi da lì poi sono entrato nella nazionale, già da allievo ero già nel giro della nazionale, con la nazionale ho fatto tanto, insomma, ho sempre corso in nazionale, quindi… ecco perché la pista, ero veloce, quindi ho cominciato con la velocità, dopo la velocità ho fatto il quartetto, ho provato a fare inseguimento, ho fatto americane…». 

- Hai fatto anche i Giochi di Montreal ’76. 

«Ho fatto le olimpiadi a Montreal nel quartetto, insomma la pista mi è sempre piaciuta, ho fatto tanta attività, con la nazionale ero sempre in nazionale, ho girato il mondo. Per quello, ti devo dire, mi è servito tanto. Mi sono divertito tanto. Però dopo un certo punto, da allievo, juniores, dilettante, andavo bene anche su strada. Cominciavo ad avere anche dei risultati su strada. E allora mi piaceva anche la strada, no? Cioè il fatto di corse lunghe, salite, impegnative, questo mi attirava e in certi momenti della stagione andavo anche bene. Tieni presente che era un altro mondo». 

- Ma con la scuola? Come riuscivi a coniugare le due cose? Ce la facevi? 

«Eh, allora: allora, la maggior parte finiva la terza media, normalmente, difficilmente andavi avanti a scuola perché poi facevi l’apprendista e lavoravi, no? Quindi io ho fatto questa strada qui, ho fatto terza media, lavoravi. Io facevo il garzone del panettiere, no? Alla mattina alle cinque e mezza, prima di andare a scuola, facevo il garzone del panettiere. Perché dovevo aiutar la famiglia, non mancava niente però bisognava dar un aiuto, era così per tanti ragazzi allora. Ad un certo punto una persona del paese, appassionato eh, anche di ciclismo, mi ha dato…, che aveva una concessionaria di… un negozio Olivetti, mi ha assunto come apprendista, ho fatto dei corsi di aggiornamento come tecnico dell’Olivetti, anche quello mi piaceva, un’attività che mi piaceva, molto… Mi piaceva. Però il problema cos’era? Tra una cosa e l’altra e l’altra tu non facevi mai la vita da atleta, no? Ti allenavi tre volte a settimana e la domenica andavi a correre, no? Facevi una riunione in pista a metà settimana. Oppure una volta c’erano tante tipo-pista, nei paesi, quando c’eran le sagre per i paesi, c’era il circuito, c’erano queste cose qui. Ecco, io facevo tutte queste cose qui. Quando ho cominciato a d allenarmi un po’ di più in modo professionale, ho cominciato ad avere dei risultati anche su strada. Cioè: non era come oggi che il dilettante è già “professionista”. Allora tu non studiavi, cioè non avevi l’impegno, però lavoravi, no? Avevi questo, quindi ti allenavi due o tre volte a settimana. Io quando ho fatto l’olimpiade lavoravo ancora, no?». 

- Tu non sei mai stato PO, Protetto Olimpico? Perché poi sei passato pro’ a 19 anni e mezzo.. 

«Mah... Questa cosa qui non c’era. Non c’era. Io ho corso l’olimpiade. Allora prima dell’olimpiade, fino a un mese prima, lavoravo, avevo un’attività, mi allenavo. Fatto le olimpiadi, nell’autunno che sono tornato dalle olimpiadi, quindi fine agosto-primi di settembre, mi hanno portato [sorride, nda], dopo l’attività su pista, mi hanno portato a fare il Giro della Val d’Aosta, per castigo. Il mio direttore sportivo Ugo Colombo, ex professionista, mi… l’olimpiade allora non era come oggi. Oggi, quando tu finisci la tua gara il giorno dopo prendi l’aereo e vai a casa. No. E noi abbiamo corso il quartetto, il primo volo di ritorno era dopo una settimana delle nostre gare. Cosa abbiamo fatto? Ci avevano tirato il collo di allenamenti…». 

- E poi quell’olimpiade non andò tanto bene, no? Erano un po’ delusi – eufemismo… 

«Nooo. Delusi… Beh, ci sarebbero da raccontare tante cose, però per arrivare alle olimpiadi, c’hanno fatto fare veramente grandi ritiri, grandi allenamenti, un impegno, un sacrificio enorme. Insomma, a un certo punto eravamo stufi. Finito il nostro impegno, l’aereo era una settimana dopo. Secondo te, a diciannove anni, diciott’anni, diciannove, che fai? In bicicletta, ne avevamo piene le scatole, e siamo andati in giro a veder l’atletica, siamo andato in giro a vedere gli altri sport. Bellissimo, no? Montreal, poi tra l’altro un posto, una città bellissima… e niente, io torno a casa, come arrivo a casa, oggi, alla sera mi telefona il buon Ugo Colombo: Aaahhh, curridore, allora, com’è andata? Eh, no, dai, è andata così… Ma, eh, poi cos’è hai fatto questa settimana? Eh, mah sai, Ugo, eravamo stufi, siam stati lì, abbiam girato un po’, siamo andati a vedere gli altri sport, l’atletica, bello. L’atletica, bellissimo, eh. Uno stadio… Noi potevamo girare dappertutto, lì era bello e mi fa: "Ma in bicicletta?". "Eh, no, Ugo. Sai, sai… Eravamo un po’ stufi…". "Ah, sì, eh? Un po’ stufi? Ah, va bene, va bene. Ah, fa’ così, allora: prepara la borsa, lava bene la bici ché domani mattina passo a prenderti". E io gli dico: "Come, passi a prendermi? E dove andiamo?". "Eh, guarda, andiamo a fare il Giro della Val d’Aosta?" Capito? Io venivo da un anno di preparazione pista, pianura e pista. Mi ha portato a fare il Giro della Val d’Aosta. Va bene. Il Giro della Val d’Aosta: ho vinto una tappa, secondo o terzo in un'altra. Sono andato benino, ovviamente non per la classifica, no? E vabbè, tanto per dirti com’era allora. Poi, in inverno sono passato professionista. Allora lì… Allora lì ho cominciato a fare vita da professionista». 

- Due domande prima di cambiare argomento. La prima. Quali erano le altre cose di Montreal ’76 che sarebbero da dire. 

«No, vabbè sulla preparazione, piccole cose. Il nostro Ct era Angelo Laverda». 

- Uno che tenero non era. 

«Bravo eh, ma non era tenero. Però comunque una persona…». 

- La seconda. La tua proprietà di linguaggio, che non era comune in tanti corridori. Tu leggevi? O è una cosa che… ce l’hai sempre avuta tua? 

«No, io non ho mai fatto niente di più. No, non so, cioè… Tra l’altro a scuola non andavo molto bene. Ma non andavo moto bene, sia chiaro, perché avevi ben altro in testa, cioè… Sai, a noi, almeno i ragazzi di allora, cioè se non erano quasi come me, erano così, avevi delle altre cose, figurati se avevi in mente di studiare, ma figurati… Poi, tra l’altro, quando ho cominciato a fare ciclismo seriamente, un po’ più seriamente, io avevo in testa di fare, di fare il ciclismo, di fare sport». 

- E questa personalità così spiccata già così da giovane ce l’hai sempre avuta dentro di te? 

«Ma no, io ero molto chiuso. Molto chiuso. Molto introverso. Però è chiaro, quando però ti toccavano su certe cose, non le mandavo a dire. Io dicevo quello che pensavo, la verità. In quegli anni lì ho pagato tanto eh, quello che ho voluto dire, eh. Che secondo me era giusto dire. Però in quei momenti lo pagavi. Cioè quelli erano anni che tu passavi professionista e davi del lei agli altri eh. Cioè: sono stato… “Signor Panizza”, eh. “Signor Gimondi”. Cioè, capisci? Io ho battuto, in un campionato indoor, e in un’eliminazione, Gimondi. Felice, quando ogni tanto ricordiamo, e… E, vabbè, non era così facile per un giovane, no?, perché passavi per quello, no…». 

- …per l’arrogante… 

«Bravo. L’arrogante. Chi credi di essere?». 

- Te l’ho portato. [Gli mostro quel titolo di Bicisport: “Chi crede di essere?”] 

«Ah, già: eccolo qua. Ecco qua. Vedi? È così. Era così. Però io, da quel punto di vista lì, non “purtroppo” – purtroppo allora…». 

- Quando dici “l’ho pagato” intendi pagato in corsa? 

«E certo. Certo, l’hai pagato perché…». 

- …perché te la facevano pagare. 

«Me la facevan pagare. Chi scriveva, allora, o stravincevi, e non potevano dire altro. Ma se appena appena perdevi, magari anche onorevolmente, perdevi e basta. Non c’è niente da fare. Cioè: quando tu hai, secondo me, quando tu hai – nel ciclismo, negli altri sport non lo so – due che lottano, due antagonisti, due rivali, non c’è niente da fare: uno è sempre il buono e l’altro è il cattivo. Io ero arrivato dopo, ero il giovane arrogante, peperino, e quindi io ero il cattivo». 

- Ma tu ci hai anche un po’ sguazzato in questa etichetta o t’è pesata più che altro? 

«No, questo no. No. Questa me l’hanno data perché… perché poi erano anche bravi, no…». 

- …a ritagliartela addosso? 

«Sì, no, ma perché poi, vedi, cioè mi vien da dire: oggi, un corridore che scatta a metà corsa è un “eroe”. Senza fare esempi, ma non posso fare esempi, sennò guai… No? Non posso farli». 

- Vabbè, non li facciamo [sorridiamo tutti, nda] 

«È un generoso”, “ha carattere”, “si stacca”… Una volta era veramente un pirla. Questo sì. Se scattavi fuori misura, c’era il gruppo che ti diceva: “Dove vaiii?”, “Scemo-scemo”. Cioè, c’erano queste cose qua, eh. Non era mica facile, eh». 

- Mi fai venire in mente il tuo primo mondiale: Bitossi che ti frega a va a fare lui terzo? Un po’ così anche? Ragazzino, il tuo lavoro l’hai fatto… 

«Eh, un po’ così, sì. “Hai già fatto tanto, che vado io”. Capisci?». 

- Al giorno d’oggi, te lo saresti mangiato vivo. 

«In più, vedi, avevano trovato anche il modo… perché poi, sai, la gente… Il Moser era il corridore generoso, che correva “generosamente”. “Per fare selezione”. [imita la voce di un fantomatico telecronista moseriano o perlomeno incompetente, nda] Invece non è vero niente». 

- Da ragazzino c’ero cascato anch’io, e con tutte le scarpe, per questo modo di raccontare. 

«Ma queste cose… Non è vero niente. Il ciclismo è fatto di chi vince, e tu devi trovare il modo di arrivare sulla linea d’arrivo, con le tue… giocarti le tue carte con le tue caratteristiche, peer arrivare lì e vincere. Non c’entra niente che tu sei generoso, che non… ma l’avevano venduta bene. Il Moser che non poteva far altro che correre così, “il grande corridore”, “Il carattere”, “generoso”, “selezione…”, questo sì. Mentre tu eri “il succhiaruote”, “il velocino che sfrutta sempre gli altri”. Non è vero assolutamente niente. Perché per arrivare in volata, dovevi tirare tutto il giorno e andare a prenderli tutti. No? Capisci? Quindi lui era la vittima, il grande corridore, il generoso, il carattere. E tu invece eri “il succhiaruote”, “l’approfittatore”». 

- Però, Beppe, siccome tu peperino lo sei, non puoi negarlo… 

«Certo». 

- Quando tu, dopo quello là ti dice: Ooohhh, piano che mi fai cadere… E tu: eh, però se non sai più stare in bici… 

«Eh, va be’, però questa è una delle tante. Eh». 

- Perché bisogna raccontare di qua e di là, no? 

«Chiaro che io racconto…». 

- Son già stato "di là", quindi posso fare i confronti… [scherziamo, nda] 

«Sì-sì, ma… Quello è stato un momento ma son successe un po’, no?, di queste situazioni qui. E lì, doppia fila, c’era questa fuga – che tra l’altro sono anche stato stupido perché nel dire questa cosa qui l’ho fatto arrabbiare, cioè… è venuta fuori una cattiveria, no?, che secondo me l’ha aiutato a vincere. Per noi eravamo così. Eravamo così… Son successe tante cose “belle”, viste adesso, belle, in quel momento là erano motivo di nervosismo, di attriti, no? Però eravamo così. Cioè eravamo così: io dico, di aver la maggior parte delle volte avuto ragione. No?». 

- Ma penso lo sappia anche lui. 

«Eh, lui, subito, no. Ma sono sicuro e tranquillo che lui lo sa benissimo. Perché? Perché poi lui cercava di far selezione, cercava di fare tutto quello che poteva, poi non ce la faceva e allora si arrabbiava. E allora si arrabbiava perché quando tu fai di tutto e di più e non ci riesci, non ce la fai a ottenere… Poi, cosa fai? Te la prendi cercando delle scuse, no? Perché allora era così. “Eh, ma è a ruota”. “Eh, ma non fa mai niente…”». 

- Però a te dava fastidio che lui non dicesse niente, che non prendesse posizione contro questi “ultrà”, perché lui poteva – volendo fare o dire qualcosa. Invece faceva gioco anche a lui. 

«Allora, sinceramente ti posso dire su questa cosa qui te lo posso dire: forse, non lo so quanto poteva fare». 

- Però "dire", forse, sì. 

«No: fare. Perché calmare questa gente qui in quei momenti lì – adesso non voglio offendere nessuno – …». 

- Era dura col vinello a fiumi. 

«Era molto dura, e probabilmente era dura anche per lui. No? Dire… Però, non l’ha mai fatto. Non ci ha mai tentato». [ridacchia, nda] 

- Anche mezza parola sarebbe bastata, no? Almeno come tentativo. 

«Perché? Perché è chiaro che faceva gioco, no? È chiaro». 

- Siamo usciti da Montreal '76, fai il Giro della Val d’Aosta, passi professionista, poi? Ti avevo interrotto… 

«Montreal, siamo andati al Val d’Aosta, ho fatto le corse di fine stagione, bene, molto bene perché la preparazione fatta per le olimpiadi e per il quartetto in pista comunque mi ha fatto bene, tenevo in salita, andavo bene, sono passato professionista». 

- Pronti-via, e batti Eddy Merckx… 

«Da lì, ripeto quello che ti ho detto prima. Abituato a una certa vita, facendo vita da professionista, allenandomi, con più programmazione e via via, i risultati si sono visti subito». 

- Mi racconti quando sei andato in Olivetti a dire: guardate, io passo professionista… 

«No, ma lo sapeva il mio amico Pisoni, Pisoni Dante si chiamava, che era appassionato di biciclette anche lui lo sapeva che la mia volontà, che la mia strada era quella, quindi…». 

- Era solo questione di tempo… 

«Sì, sì… Questo sì, e niente poi partiamo, io faccio – perché attenzione: io sono “passato” alla Scic, perché avevano bisogno [di] un corridore veloce. Allora…». 

- È vero che ti ha portato Colnago alla Scic? 

«Allora, Ugo Colombo, che era il mio direttore da dilettante, era molto amico di Carletto Chiappano, io alla Pozzi – che correvo da dilettante – usavo già Colnago, no? Quindi si parlava già un po’ di me… e, vabbè, avevano bisogno un corridore veloce, tutti han detto prendiamo… prendiamo Saronni, no? Tanto, voglio dire, è un corridore veloce, serve un corridore veloce. A me questa cosa qui andava bene, anche se io dentro di me sapevo che non ero “solo” un corridore veloce, e che ero lì pronto ad aspettare per dimostrare. Faccio la Sei Giorni di Milano, finisco la notte, il giorno dopo vado a Laigueglia perché c’era in ritiro la Scic. Con Baronchelli, Gualazzini, Paolini, Riccomi, Conati, Panizza. Questa squadra importante, questa gente qua, no? Va bene. Arrivo, stralunato, perché, vabbè, dormito poco. Metti che sia stato il lunedì, mi riposo. Alla sera arriva in camera Miro Panizza e mi dice: “Tè, balìn… tè, balìn, ohé, va che duman avem a fa’ la distanza”. Mi dice: “Domani andiamo a fare l’allenamento lungo, andiam a fare la distanza”. Ah, e gli dico: “Va ben, Miro”. Okay, va bene. Il mattino dopo partiamo, tutta la squadra, tutti questi corridori qui, no, importanti. E andiamo a fare l’allenamento lungo. Andiamo a fare, tra le tante salite, andiamo fare il Baiardo, che è fuori Sanremo, vabbè, così, che è una salita importante, no? Una delle più dure lì nella zona. E volevano farmi… [gli scappa da ridere, nda] Farmi il test, no?». 

- Per prenderti la febbre… 

«Bravo, ecco, capito? Vai così. E io bene, io nessun problema e tira te, tira me, allunga te, allunga me, insomma morale della favola, arrivo su, da solo. Da solo. Dietro di me arriva Panizza, mi fermo a mettere l’impermeabilino, Panizza arriva su che ride sotto i baffi. Carletto Chiappano mi dice: oh, oh, oh, giuvin… Eh, adesso basta. Adesso calmi eh, adesso calmi, andate giù tranquilli, non prendete freddo. Nel frattempo, arrivava su il Tista, il Baronchelli, faceva finta di essere andato a spasso, va bene? [sorride, nda] il Tista, con suo fratello – il Gaetano, con Riccomi. Ecco: questo è stato il primo allenamento con la squadra Scic, no? E la prima corsa era lì a qualche giorno, c’era il Trofeo Laigueglia. Chiappano nella riunione della squadra mi dice, mi dà dei compiti, delle cose, e dice: oh, tu… te, giuvin, te Giuseppe, allora, me raccomando, fai la prima volta il test, vedi come stai, eh, vedi come stai. Poi la seconda volta, oh, se sei un po’ stanco, vien via, vieni sotto, tranquillo, vieni in albergo che va bene così. Io, dentro di me dicevo – non ho detto niente – ma dentro di me, dico: cos’èèè? Iooo che passo sotto e vado in albergooo?! Vabbè. Primo passaggio… Allora, primo passaggio, tira Riccomi-Conati e io sono lì con loro, e vabbè, sono lì con loro, vado davanti un po’ a tirare, mi dicono: oh-oh, calma! Calma-calma, regolare-regolare… Regolare: va bene. La seconda volta resto solo io, Tista [Baronchelli] e non so più chi altro, forse Riccomi o un altro di noi e dico: Tista, cosa faccio? Eh, facciamo un po’ d’andatura. Allora faccio un po’ d’andatura, vedo che dietro il gruppo è in fila, in fila, in fila, a un certo punto mi gridano: “Oooh-oh-oh, tranquillo, regolare-regolare”. Oh-oh, regolare, siamo rimasti in una ventina in cima, no? C’era Maertens che era… Vabbè, andava… In salita, non diciamo non è che scattasse, in salita. Ma per staccarlo in salita era dura, no? Insomma, morale della favola: arriviamo là, arrivo secondo e mi ero anche abbastanza arrabbiato perché mi sentivo di poter fare di più, no? Ecco, questa è stata la prima corsa. Il Laigueglia, quindi mi dicevano:; no-no, se fai fatica vai in albergo. Seh, Carletto, te la do io vado in albergo. E va bene, e dopo qualche giorno ho vinto, in Sicilia il Trofeo Pantalica, allora tutti i vecchiotti – vecchiotti nei miei confronti perché io avevo 19 anni – e allora tutti alla sera, i Paolini, i Gualazzini, i Riccomi, Caverzasi, la sera tutti là a trovarmi e dire: oh, giovane, eh, bravo, eh, com’è? Perché avevano capito che con me portavano a casa un po’ di premi. No? Perché il Tista… Allora, il Tista se faceva qualcosa, faceva delle cose importanti, grandi, ma le poteva fare solo in certi tipi di corse. Mentre io ero il corridore giovane, veloce, brillante, che portavo a casa le vittorie sempre, tutto l’anno, capisci? Ed erano premi… Ed erano premi. Addirittura Gualazzini, perché in quegli anni lì l’Ercole, e Conati che sono stato in camera tanto tempo, noi allora alla fine della corsa ti lavavi i calzoncini, la maglia no, i calzoncini, e ti mettevi a posto le scarpe, che erano di cuoio, andavano curate, andavano lavate, con la carta asciugarle e tutto, così, dopo qualche corsa Gualazzini fa: no-no-no, no, no-no: lascia stare, faccio io. E mi lavavano loro i calzoncini. Io avevo vergogna perché avevo diciannove anni, però capisci? Ero passato di grado». 

- Chiappano era amicissimo con ferretti, no, pur essendo avversari… 

«Eh sì». 

- Ferron mi ha detto: allora un giorno Beppe viene da me e mi fa: "Ferron ma perché mi correte sempre contro? Guarda che io ti metto nel mio libro nero". E lui a te: "Saronni, non è che io ti corro contro. Io corro per vincere, e guarda che io di libri neri ne ho due...". 

«Ti dirò di più [sorride sardonico eppure bonario, nda]: ti dirò di più, e con Ferretti che è sempre stato un… Ha sempre avuto – corridori e squadre – miei avversari…». 

- Eh, ma lui stravedeva per te, perché eri proprio il suo corridore ideale. Capito? Un combattente che vince, e vince dappertutto. 

«È vero. È vero… Una volta… Questo te lo posso dire, non l’ho mai detto a nessuno. Ad un certo punto, che era molto amico col Carletto, no?, col Chiappano…». 

- Eh sì, eran “fratelli”. 

«E allora una di quelle volte lì che… Allora non era come adesso – ti trovavi spesso negli alberghi, nelle hall, no?, facevi due parole, ridevi, scherzavi. In corsa eri avversario. Un avversario rispettoso. Tutti erano rispettosi degli altri, però eri avversari. E alla fine della corsa, negli alberghi, così, però c’era rispetto, amicizia, si dicevano anche un po’ di cose… Allora io una volta gli dico: Te, Ferròn, ma porca… anche oggi, ma che due balle, ma cosa continui a [far] scattare… Lui aveva corridori importanti, eh? Una… non posso dire i nomi perché se ti dico quello che ti devo dire, dopo eh… Lui aveva tre, quattro, cinque corridori che ti rompevano, ti rompevan… perché andavan forte. Allora te la prendevi perché quando scattavano questi, ti rompevano veramente eh. Scalatori… Eh, Ferretti ma porca… [imita la voce bassa di Chiappano, nda] Perché mi… E lui mi fa: Ma taci - perché gli ho detto quello lì, quello là… – E mi fa: Sììì, di tre non ne faccio uno!”». 

- Eh, il tridente, là, famoso. Non è difficile da ricostruire, [i nomi] non me li hai detti ma… uno veniva dalla Svezia, uno è tuo vicino di casa e ha la falegnameria dalle tue parti, l’altro era il tuo ex compagno Tista: Baronchelli, Contini e Prim. 

«Guarda che mi dispiace, che Silvano è un amico…». 

- È un tuo vicino di casa, e guarda che lui ti vuole bene… 

«Un vicino di casa, mi fa anche dei lavori…». 

- È molto bravo nel suo lavoro, e poi ha imbroccato il ramo di business giusto… 

«Una bravissima persona. Un ragazzo d’oro. Siamo andati in bicicletta questa estate due o tre volte. Tu pensa: io, lui e [Luigi] Botteon [ex professionista varesino, nda]. Ma, ecco, Ferretti per non sapere più cosa dire, ti diceva: “Sì, ho capito, ne ho tre ma di tre non ne faccio uno…”. Ma pensa te…”. C’erano queste cose qui». 

- Tu col Visenta sei sempre stato in buoni rapporti. 

“Ti dico, in buoni rapporti qui anche perché sono della mia età, con Silvano, con Contini, e guarda che Contini è stato un bel corridore eh. È stato un bel corridore. È stato veramente un bel corridore, e già da giovane ci siam trovati». 

- Anche lui è stato spesso bacchettato duramente nelle sconfitte, anche immeritatamente. Perché quando finiva dietro quell’Hinault lì, ma cosa poteva fare di più? 

«Eh, ma attenzione: questi ragazzi qui andavano tutti bene, sai? Tutti forte. E il problema che, facevo fatica io, cioè… Io a contrastare questa rivalità, figurati ’sti ragazzi qua…». 

- Perché loro poi non avevano neanche la tua personalità, e neanche il tuo palmarès, come posso dirti, le loro spalle – anche mediaticamente – non erano così larghe. 

«Eh! Per loro era difficile. Visentini ha vinto un Giro d’Italia. Lo sai perché ha vinto il Giro d’Italia? Perché il suo avversario ero io. Io non gli creavo pressione. No? Ad un certo punto non so se lui si ricorda, a un certo punto lui prende la maglia rosa e io secondo, [gli scappa un buffetto di risata, nda] e allora ridendo e scherzando, cioè ridendo e scherzando sempre…». 

- …con delle virgolette belle grosse… 

«Ecco: e gli dico: ohé, Visenta, ma porca vacca… Sta’ a vedere che quest’anno lo vinci veramente il Giro d’Italia. E lui mi fa… ah, no, aspetta. Gli dico così e gli dico: eh, però, ma… non lo so… magari… magari con un po’ di pressione, magari prima o poi molli. No? Perché lui è così, no? Lui, lui è veramente… Guarda che Visentini è, è stato, veramente un grande corridore. Di grande classe, di grande qualità. Quando andava in salita, andava. Andava a cronometro, veramente. In volata no, ma quando andava era veramente una cosa impressionante. Ma aveva… ogni tanto si lasciava prendere e non lo so da cosa, da questa pressione, da queste cose qua. Allora io gliel’ho buttata lì, così. E lui mi fa: nooo, no Giuseppe, no-no-no questa volta non sono sotto pressione, tanto… Per dire: io e te siamo amici, tanto, cosa cambia? O vinci te o vinco io, qual è il problema? Era talmente… Non era così “stressato”, non era sotto pressione, perché il suo avversario ero io. Fosse stato Roche o un altro, cambiava. E quindi era… Aveva questa tranquillità e questa serenità che l’ha portato a vincere il Giro d’Italia. È andato forte, sia ben chiaro, eh. È andato forte. Ma non sentiva una pressione. Capito? Ecco. Per me, lui… altrimenti avrebbe sofferto comunque di più». 

- Quel Giro lì, intanto mi devi raccontare quello che ti ricordi di lì a Gorizia con la storia del Guttalax. Ma guarda che era una roba fuori dal… era un’Italia proprio… Un altro mondo… 

«Ma tu pensa, io ho vissuto di quelle robe…». 

- A raccontarla sembra un romanzo, la gente non ci crede. 

«Ma non ci credevo nemmeno io, subito». 

- Ma poi uno che aveva un’azienda, la FIR, che pure andava bene. Perché dici: sai, va male, non so dove sbattere la testa 

«Che tra l’altro sponsor di Visentini. Visenta, sarà mica stato dentro anche lui, neh? In questa... Questo scherzando, chiaro. E anch’io non ci credevo. Quando me l’han detto io non ci credevo mica. Oh, ho visto i verbali eh. Ho visto le denunce eh. In più poi i fratelli Arrigoni, i fratelli della FIR, hanno discusso. Io non ci credevo». 

- Ma poi è finito tutto in una bolla di sapone perché nemmeno l’hanno arrestato. 

«No, perché poi la squadra la Del Tongo, noi abbiamo vinto il Giro. Questi qui adesso non so credo che avessero poi ammesso, chiesto scusa, via via, quindi la Del Tongo, Stefano e Pasquale e i fratelli Del Tongo non hanno fatto niente. Fosse stato oggi, ciao… Sai dove saremmo andati a finire [sorride amaro, nda] Oggi aprono un’inchiesta…». 

- Sai che cause milionarie… 

«Ma sì. Oggi aprono un’inchiesta perché due corridori si mandano affan… Allora se tu per queste cose qui ti veniva da ridere. Ecco sono successe anche queste cose qua. Tu pensa che…». 

- Quel Giro lì,  è vero che poi il Visenta  non andava a farsi le volate, perché su tre arrivava quarto, però è vero anche che - come tempi effettivi su strada - sarebbe stato primo lui. Al di là dei numeri, che ricordi hai di quel Giro? Lo so che davano 30” di abbuono al primo, 20” al secondo e 10” al terzo… E che tu invece andavi a sprintare per giocartele le volate… Tu hai guadagnato due minuti di abbuoni, lui quindici secondi… [il Giro ’83 Saronni lo vinse con 1’07” sul Visenta, nda

«Difatti… Non lo so adesso… Può darsi. A tempi reali però, sai, tu è chiaro che ti giocavi... Cioè le regole del gioco erano quelle, ti giocavi…». 

- Non te l’ho chiesto per mettere in discussione la legittimità della tua vittoria, era per dire che tipi di Giri erano.

«No, no, certo. Ma, te l’ho detto prima, il valore di Visentini…». 

- No, ma quello non è in discussione. 

«Il valore anche degli altri, però erano schiacciati da questa rivalità». 

- Però quando ti senti dire “il Giro delle gallerie”, ti dà fastidio? 

«Be’, vabbè, il Giro… Non abbiam mai fatto lo Stelvio. Cioè quando Moserone, Francesco era in corsa, non abbiam mai fatto lo Stelvio. Perciò. Con questo non sto dicendo che se c’era lo Stelvio per me era favorevole, no, questo no. Il giro che ho vinto sette o tappe, otto tappe non mi ricordo più, l’ultima no la penultima l’ho vinta a Cles, e il giorno dopo si faceva lo Stelvio. Il Giro che ha vinto Hinault, no? E che era in maglia rosa Panizza con la nostra squadra. Si arrivava a Cles, io ho vinto, il giorno dopo c’era da fare lo Stelvio. E tutti, in gruppo, dicevano: ma sì, ma lo Stelvio tanto non si fa, non si fa. Moser è andato a casa, da Cles è andato a casa, si è ritirato. Il giorno dopo si è fatto lo Stelvio. Moser non ha mai fatto lo Stelvio in corsa. Oh, non sto… è la verità». 

- È un dato di fatto. 

«È un dato di fatto. Tutto qua. No? Quindi… quindi era così. Chissà perché il – come si dice lì?, la parte, la Provincia di Trento, della parte trentina dello Stelvio, non dava mai… C’era sempre qualche pericolo». 

- …o qualche problema. 

«O qualche problema». 

- Eppure, la gente era andata su. Guardate che è tutto aperto: la neve non c’è. 

«È così. Eh. C’erano queste cose qua. È inutile che…». 

- Prima dicevi che tu l’hai pagate queste cose qua, ma anche il Visenta ha pagato qualcosina. Perché quando a Torriani gli dice: ooohhh, per te ho un modello speciale. Sai forse non ti aiuta come simpatie… 

«Venivamo già dal Gavia, quando c’è stata la neve. E io sono uno di quelli che è sceso in bicicletta, io e Luciano Loro. Eravamo noi. Un freddo, una cosa incredibile. Moser era nello staff tecnico del Giro. Inciso: alla mattina eravamo non a Chiesa in Valmalenco, si partiva da… si era arrivati in salita, che ero arrivato terzo, eravamo in maglia con Chioccioli. Ah sì, Chiesa in Valmalenco, eh be’, Chioccioli era in maglia, era con noi, no? E nei piani lì avevam tirato tutto il giorno, vabbè, allora, morale: sta’ attento: arriviamo, notte, comincia a diluviare, piove, va bene? Oh, lì c’era Pietro Algeri, come direttore sportivo: Oh Pietro, ma siamo sicuri? Tutte le squadre, tutti i corridori. Ohé, c’era da fare il Gavia, eh? Mica… ohé, proviamo, informiamoci. Eh, no: dall’organizzazione, tutti dicono: nono non c’è problema, non c’è problema. Vabbè, non c’è problema. Vabbè. Amen. Speravamo di non farlo, ma vabbè. Alla mattina, diluvia. Anzi: dove eravamo su, nevischia. Vabbè. Non c’è problema. Tanto per farla breve: ci schieriamo alla partenza, diluvia. Moser è nello staff tecnico. Viene, davanti al gruppo, perché qualcuno l’ha chiamato, era nelle macchine lì appena prima della partenza. E gli dicono: oh, ma Francesco, allora? Ma qui com’è, il Gavia? Com’è? Nevica? È brutto tempo? Lui viene lì e fa: no-no, ragazzi, tranquilli, sul Gavia, è tutto a posto, viene fuori… c’è anche qualche occhiata di sole... [Saronni ne imita il vocione e sorridiamo, nda] Non ti dico le parole...». 

- …che s’è preso… 

«...che s’è preso. Ed è “scappato” in macchina. È andato avanti. Questa è stata la partenza. Giù, una pioggia della miseria. Sull’Aprica, una pioggia della miseria. Fortunatamente, prima di arrivare a Ponte di Legno, in effetti è smesso un po’. È smesso un po’ di piovere ma era bruttissimo. E andiamo su, c’erano ancora i pezzi sterrati, son passate le macchine, le moto, un casino, non andavi su, vabbè. Ma il problema è venuto nella discesa. La discesa un freddo, ti dico, un freddo. C’era una nebbia, c’era un freddo. E lì veramente si è rischiato tanto, abbiamo rischiato tantissimo. Ho trovato Visenta, che era davanti a me, non era neanche messo male, ha preso freddo… Dopo Santa Caterina, l’ho trovato in mezzo alla strada che tremava, brrrrr!, dai Visenta, dai Roberto, andiamo, porco qui… porco là, no? [ride, nda] E arriviamo giù in qualche modo, insomma arriviamo giù – pausa scenica, nda – ha visto Torriani sul palco, sotto l’arrivo. Blocca, si ferma sula linea d’arrivo, guarda su e comincia a dirgli tante di quelle parole, ma tante di quelle parole che abbiamo dovuto… han dovuto prenderlo e portarlo via. Ma una roba… Una roba…». 

- …fuori della grazia di dio. 

«Sì. Aveva ragione, eh. Perfettamente ragione. Questo qui era il Visenta. Noi, col Visenta, ci divertivamo. Perché lui era… aveva di quelle uscite che erano una cosa favolosa. Favolosa. In più, noi giovani, noi giovani eravamo tutti un po’… come posso dire, in combine, nel tirare nella rete il Moserone, perché gliene dicevamo un po’ di tutti i colori, no? E cominciava uno e il Visenta diceva: ooohééé, Moserone, ohé Sceriffo, hai sentito cos’ha detto quello là? Cioè: ’taccavano briga, no? E noi eravamo lì dietro, no? E quello: eeehhh, porco… ti divertivi, tu facevi cinquanta-sessanta… a far passare un po’ di chilometri con queste cose qua». 

- Beccia un po’ meno, si divertiva… 

«Beccia, Beccia ti racconto questa… ma non scavo… son quelle cose, non so… allora le tappe erano molto lunghe. Spesso erano molto lunghe, non sapevi più… andavi anche piano per un po’ di chilometri…». 

- Fino a che non si accendevano le telecamere rai… 

«No, fino a che non c’era la corsa… vabbè, a un certo punto, a metà corsa non sapevi più come andare, cosa fare, e eri stufo di mangiare sempre la marmellatina, la tortina e tutte queste cose qui. A metà corsa, quando la tappa era lunga, c’era il mio scudiero fidato [Roberto] Ceruti, e gli dicevo: “Ceròn, vai a prendere il panino-bomba, vai”. Allora andava in macchina, c’era una rosetta di pane, sai quello bello croccante, così, no? Con dentro tonno e cipolline. ’na cosa pazzesca».  

- Lo digerivi due giorni dopo… 

«Sì, appunto. Una cosa pazzesca, no? Da prendere in corsa è una roba… e allora, a metà corsa c’era ’sta roba qua, arrivava Ceruti, era un po’ un momento no, di… arrivava, tirava fuori ’sta carta stagnola, oh, ma eran grosse così, eh? E allora Beccia è lì, è lì di fianco e mi fa: Oh, ma continuo… continuo a vedere che mangi… ma cos’è sta roba qua? [imita la voce di Beccia e gli scappa da ridere, nda] Allora sono lì così e ho detto: Te’, Mario, ne vuoi un po’? En lui… Perché sai poi sei lì, sei lì no? Perché tu scarti come se fosse… Eh, ragazzi, questo sì che fa bene… E allora tutta ’sta scena qua. E quando gli ho detto così, eravamo un po’ lì, come faceva a dir di no? Se diceva di no, e dice: eh no, è pesante, come faccio? Faceva una brutta figura. Allora io l’ho tagliato a metà, ho detto: Te’, prova! Sia mai che ti fa bene, no? Però, e ho detto, non scattare più in salita eh, però. Perché era un altro che… quando… E allora lui è rimasto lì così, come fa a far la figura di non mangiarlo, lo mangio io… dopo, non poteva dire… sennò che fisico hai? Ohé, l’ha mangiato. Si arrivava a Pejo, si è staccato… Si è staccato il giorno dopo mi dice: Ooohhhéééé, Giuseppe, ooohhh ma il panino là, non l’ho digerito… Ma qui, ma là… Eh, non c’hai il fisico, Mario Beccia… Che ridere, ragazzi…». [ride, nda] 

- Di Sappada ’87 che ricordo hai, che eri lì ancora… 

«Sappada, tu dici Visenta… Eh, ero lì proprio in quei momenti. Ecco perché dicevo lì il Visenta è scoppiato di nervi». 

- Come l’hai vista, lì? Se lo avessero fatto a te… 

«No, era…». 

- È stato brutto, no? 

«Ma guarda l’avevo visto subito perché… Credo si facesse la Marmolada. Si faceva una salita dura». 

- La Marmolada era il giorno dopo… 

«So che era il momento dove c’eran due o tre tappe dure. Però lui ha mollato non su una salita…». 

- Era pedalabile, dai. 

«Bravo. Non era così dura. Lui secondo me…». 

- È andato giù di testa. 

«Bravo. Sì, è andato giù di testa. Sì. E lui, pensando che in squadra questo qui avesse combinato qualcosa o col direttore sportivo o con la squadra, non lo so, lui è andato fuori di testa, è scoppiato. O è venuta fuori…». 

- Sai che il giorno dopo ha preso una multa di tre milioni di lire dalla giuria perché ha tentato di buttar giù con la bici Schepers? 

«Eh, lo so ma… Visenta quando andava fuori di testa, andava fuori, eh». 

- Non ce n’era per nessuno. 

«No, no. Non c’era niente da fare». 

- Ma tu che lo conosci bene, secondo te basta quell’episodio a fargli dire non ne voglio più sapere dell’ambiente, o sarebbe successo comunque? 

«No, ma lui… Ma lui è sempre stato così. Lui è sempre… Lui m’ha detto [in dialetto]: "Giusepp, mi quando smett e tagl’ la bicicletta". L’ha tagliata veramente. L’ha tagliata in tre pezzi. No?». 

- Anche se è successo prima che smettesse, a fine stagione ’84… 

«Dopo, non lo so… Non lo so, Roche secondo me stava bene e andava forte e probabilmente non accettava di essere messo, cioè… di stare ad aspettare Visentini. Non aspettare: di stare ad aspettare quello che faceva Visentini. Lui si sentiva bene e secondo me, lui… lui ha fatto quello che voleva fare, senza guardare in faccia a nessuno. Dopo, sai, in quei momenti lì se c’erano degli accordi non lo so, può essere, però come fai tu a dire…». 

- Però tu da direttore sportivo (o general manager) puoi darmi un giudizio neutro, al di là di Sappada. 

«Secondo me il direttore sportivo ha visto che Roche ne aveva. E si è girato dall’altra parte». 

- Lui doveva portar a casa la rosa, o di qua o di là… 

«Perfetto». 

- Certo, se era il bresciano suo compaesano ex compagno di squadra e vincitore l’anno prima, meglio. Sennò pazienza… 

«Quindi non ha voluto rischiare niente, non ha voluto favorire niente a nessuno, ha detto: no, questo va e lasciamo che la corsa vada come deve andare». 

- E di Roche che ricordo hai invece, come persona e come corridore? 

«Ma no, ma io Roche non ho…». 

- Non lo conosci bene? 

«Sì, lo conosco però… In generale non ti posso dire che… insomma un rapporto umano eccezionale no. È sempre stato comunque un corridore che non ha mai guardato in faccia a nessuno. Ha dato prevalenza al suo io e basta». 

- E invece quel ciclismo lì dell’epoca: per esempio, è vero che Del Tongo diceva per me il Giro di Puglia è più importante del Tour? Colnago mi ha detto che Del Tongo una frase così non l’avrebbe mai detta… Però il concetto mi interessa più che la frase… 

«No, è vero… Ma non è la frase, nessuno ha mai detto questa frase. Il principio è: che… Ma è logico…». 

- Per i mobilifici italiani dell’epoca era quello lì il mercato, e il ciclismo era italiano. Era qua. 

«Allora, intanto oggi mi viene un po’… Sto un po’ male. Sto un po’ male per alcuni motivi, intanto perché il mondo del ciclismo oramai parla inglese. Ma questo è normale, ti dice cosa è cambiato». 

- E ti dice la realtà economica dov’è. [Trentacinque [milioni di euro di budget] annui…] 

«Eh, capisci? Da altre parti. Allora tutti i corridori – ma tutti i corridori in Europa e no – la prima cosa che facevano era imparare l’italiano. Perché nel mondo del ciclismo la lingua ufficiale era il francese. Ufficialmente. Ma in realtà parlavano tutti italiano. Perché [per] tutti la massima aspirazione era di venire a correre in Italia. Perché il ciclismo era qui. Perché la maggior parte delle squadre erano qui». 

- E le corse erano qui. Tu dicevi: sto male, e le corse che abbiamo perso? Piccole, medie, grandi, tutto l’anno. 

«Le corse, l’attività. Ogni corsa in Italia era una Milano-Sanremo. Ogni corsa in Italia era un “campionato del mondo”. In più, non c’era questo divario tra Giro d’Italia e Tour che c’è oggi. Non c’era questa grande diversità, no? In più le squadre, tieni presente, che oggi è cambiato tanto. Le squadre erano fatte di 12-13 atleti, mica di più. Tutti i corridori facevano la stessa attività». 

- Il massimo della doppia attività qual era: la Parigi-Nizza che si sovrapponeva alla Tirreno-Adriatico? E si sovrapponevano appena appena, ma neanche... 

«Ma non lo facevi. Non lo facevi perché la squadra sceglieva di fare pochissime… [corse all’estero] Forse la Bianchi, toh. Che aveva un po’ più di corridori, in certi momenti magari faceva due… ma pochissimi momenti tu sceglievi: tutti i corridori quelle gare lì. No? In più, lo sponsor era italiano e quindi dove pensava, quale era il suo obiettivo? Era quello di fare pubblicità in Italia, nel mercato italiano». 

- Forse la Carrera faceva un po’ eccezione: con i jeans, non era un mobilificio... Era una delle poche che andavano al Tour, che costava, eh. Cento milioni. 

«Sì, pagavi. Pagavi… Sì-sì, pagavi. Ma i corridori erano pochi. Gli sponsor erano italiani e quindi l’obiettivo principale era quello di fare pubblicità in Italia. Tra l’altro non era così difficile perché il mondo del ciclismo era in Italia. Fuori il Tour, e le classiche in Belgio, il resto era qui, eh». 

- Te l’avranno chiesto in tanti e non posso che farlo anch’io: ma tu perché correvi così poco all’estero? Un corridore come te che aveva… delle classiche che ti si addicevano? 

«Ma… “correvi poco”. L’attività che potevi fare era quella. Noi correvamo 110-120 corse l’anno. Non potevi farne di più, perché era già il massimo. Le corse più importanti erano sempre quelle. Andavi a fare le classiche delle Ardenne che erano quelle più adatte. Non potevi neanche perdere tempo ad andare a fare esperienza nelle gare del pavé: perché o facevi uno o facevi l’altro. Ho fatto quattro o cinque-sei anni la Vuelta, che era prima del Giro, in preparazione del Giro, ma più di quello non potevi fare. Oggi, oggi, ecco l’unico rimpianto è non essere andato al Tour nei momenti belli ma non per vincere il Tour perché, parliamoci chiaro, contro quei francesi là e contro Hinault non c’era niente da fare». 

- E non solo su strada… 

«Eh, non c’era niente da fare. Per tanti motivi. Potevi andare per vincere delle tappe, e vincere la maglia verde, la maglia a punti. Quello sì, si poteva fare. Ma non per vincere il Tour. Quindi l’attività “vera”, per noi importante, era in Italia. Tutto qua. Quindi non potevi perderti in mille altre cose. Per cosa? Non era indispensabile, non c’era niente da fare». 

- Neanche ne valeva la pena. 

«No». 

- La battuta di Roche, cattivella, che mi faceva pensare: diceva che appena Roberto vedeva il cartello “Chiasso” già si perdeva. Volevo chiederti se ai tempi c’era – anche – un problema di mentalità. Un po’ provincialotta. 

«Nooo. No-no, ma per noi italiani… Ma è vero, ma non è cattiva, è vero: intanto Roche per aver…». 

- …è venuto qua, dopo esser andato a fare il dilettante in Francia per passare professionista. 

«È venuto qua. Bon. E perché ha trovato Visentini. Se trovava me, non vinceva mica tutte quelle corse lì, vai tranquillo. Tranquillo». 

- E tu uno Schepers non lo avresti voluto in squadra, credo. 

«Ma a parte questo, che sono battute, poi è andato forte. Quell’anno lì, è andato forte, per l’amor di dio». 

- Poi magari parliamo del primo e del secondo Roche, ma quello è un altro discorso ancora. 

«Ma era così. Era così. Oggi, i corridori corrono… Non possono fare più di 90 corse. Oggi i corridori non corrono “tanto”: più di 90 corse non possono fare. Corrono tanto le squadre, perché hanno trenta corridori. [si infervora, nda] Ma i corridori non corrono mica». 

- E da gennaio a dicembre. 

«Capisci? Eh. Cioè… certa gente… oggi dicono: eh, ma quanto corrono. No-no-no, no: un momento, i corridori non corrono tanto, sono le squadre che hanno tanti corridori, che fanno tanta attività ma più di novanta corse all’anno non possono fare. Noi correvamo sempre, dovunque, dappertutto. Una delle più grandi cose che… rammarico che ho, è che allora non si programmava. Se io avessi programmato di più, sarei durato qualche anno di più». 

- Alla Hinault che ne battezzava una e diceva vado lì per vincerla, e la vinceva. 

«Ma tu capisci che allora Del Tongo, la squadra che dominava, più importante in Italia, con tante altre ovviamente, in quei momenti lì, che vincevi Giro d’Italia, che vincevi Sanremo, Lombardia, campionato del mondo… Ma tu lo sai che chiamavano Del Tongo, chiamava il sindaco, il politico, e questo… Non potevi dire di no a nessuno, dovevi andar da tutte le parti». 

- Volevo chiederti quanto t’è pesato l’annoi dopo che hai vinto Goodwood ’82. Portare quella maglia lì… Ma non in corsa, fuori: gli impegni… 

«Nooo. Ma no, non m’è pesato. Allora, a me quello che mi è pesato di più è stato… il momento più difficile, quando ho vinto il secondo Giro. Il secondo Giro, l’ultima settimana io avevo [una] bronchite, ho tenuto duro l’ultima settimana, gli ultimi giorni ho fatto tanta fatica sulle salite. Però ho tenuto duro, non potevo perdere il Giro. E quella lì mi ha… Mi ha sacrificato tanto. Tantissimo. Lì veramente fisicamente ho speso tantissimo. E il campionato del mondo in realtà ecco forse è pesato di più il continuare ad andare in giro a fare premiazioni, feste, perché non potevi dire di no. Non potevi dire di no. Oggi…». 

- Per tanti motivi, e non solo economici. 

«No, per tanti motivi. Non c’è niente da fare. Economici, sì, è vero ti danno premi, ti danno rimborsi, ma non era quello. Perché tra l’altro a me ha sempre pesato tanto essere protagonista. Io non sono un protagonista. Io non sono uno che si mette in mostra. Mi è sempre pesato tanto questa cosa qua. È come dici te: è tutta quell’attività lì che mi ha, come dire?, che sì, mi ha pesato tanto. Mi ha fatto perdere anni di carriera, sicuramente sì. Programmata meglio, con periodo più di riposo, con più di distacco, con degli obiettivi più diversi, avrei fatto qualche anno… Però non era così». 

- Nell’arco di quei 14 mesi d’oro, che dentro c’è tutto – c’è Goodwood, c’è il secondo Giro, la Sanremo in maglia iridata, il Lombardia – dopo lì ti si è spento qualcosa dentro, come voglia? Anche per il logorio di cui parlavi adesso? Voglia non solo di… anche di soffrire. 

«Allora, sicuramente c’è stato un calo di condizione. Perché alla fine di questo…». 

- …eri bello spremuto. 

«Sì. Sì…». 

- Ma qua dentro, di più? [gli indico la testa, nda] 

«Sicuramente sì. Sicuramente sì. Psicologicamente ad un certo punto poi crolli, no? Non hai più quell’entusiasmo, quella carica, quella volontà, no? E lì c’è stato sicuramente un calo». 

- È anche “fisiologico”, no? Anche la fame… 

«C’è stato un tracollo, sicuramente sì. In più, ecco, è coinciso a livello mentale e anche a livello fisico. Non c’era più quella voglia, quell’entusiasmo, quella volontà di arrivare, no? Questo sì, questo sicuramente sì. Quindi c’è stato questo crollo, poi alla fine c’è stato qualche anno con una buona ripresa, perché ho fatto ancora secondo al Giro [nell’86, nda], terzo al mondiale [a Colorado Springs ’86]. Ho lottato ancora però capisci anche te che in quegli anni lì quando tu non vincevi trenta corse l’anno eri “finito”, eh». 

- Soprattutto per le etichette. 

«Capisci?». 

- Però alla Malvor vi siete divertiti. Col Visenta… In quella squadra lì c’erano dei nomi pazzeschi… Sono andato a rivedermi le foto, non ci credevo… 

«Alla Malvor… Guarda, alla Malvor ci siamo ritrovati tutti…». [sorride, nda] 

- Era un parco-giochi, a parte la grana che entrava e non entrava… 

«Ci siamo ritrovati tutti, ed è stato credo l’anno [il 1989, nda] più bello che abbiamo fatto… Oh, c’era Ballerini, c’era Allocchio, una squadra incredibile…». 

- …Contini, Piasecki… Una roba… 

Interviene ancora Andrea Appiani, addetto stampa della UAE Emirates: Zandegù in ammiraglia, e [Bruno] Vicino… [ridiamo tutti, nda] 

«Ci siamo… Guarda, il ciclismo lì…». 

- Pronti-via, avete fatto vincere una corsa a tappe – alla Ruta del Sol – a Bordonali, ho detto tutto. Tu hai fatto anche il gregario per Bordonali lì… 

«No, aspetta. ’spetta… No qui ci sarebbero da dire tante cose… però non possiamo sennò… Ci siamo allenati come ci siamo allenati in primavera più che altro scherzavamo, non è stata una cosa molto seria, in Sardegna. E a un certo punto, Ballerini… perché sai noi vecchiotti la voglia di fare allenamenti duri e con tanti sacrifici non c’era più, è inutile… Eravamo non dico pensionati però insomma c’eravamo un po’, c’eravamo un po’… così, e allora a un certo punto io non avevo voglia di fare le cinque ore d’allenamento, allora partivamo veloci a tutta per fare un allenamento veloce ma breve: 120 km, più di 120 km non abbiam mai fatto. Veloci, scatta, tah-tah, rompevamo il gruppo e ognuno per conto suo. C’era Giupponi, che era il giovane emergente e vabbè, io Silvano… o, Silvano, il Visenta era un po’… anche lui, vabbè, e vabbè, niente, a un certo punto Franco Ballerini mi fa: “Ma capo, ma sei sicuro che ci stiamo allenando bene?” [gli viene da ridere, nda] Dovevamo andare a fare la Ruta del Sol e dico: “Ma sì, Franco, non preoccuparti. Di mal…” – in realtà gli ho detto: di mal di culo non si è mai staccato nessuno – di mal di sedere non preoccuparti, anche se non abbiamo fatto cinque ore di sella, però la velocità, vedrai, che almeno lì andiamo bene, dopo non lo so. Dopo non lo so... Perché eravamo, anche lì, corse brevi. Brevi insomma… un po’ più brevi. Insomma, morale della favola, tanto per farla breve, andiamo alla Ruta del Sol. Prologo: primo io, secondo lui a tre secondi. Seconda tappa, Bordonali l’abbiamo mandato in fuga. È arrivato in fuga, è arrivato con non so quanti minuti, abbiamo vinto la Ruta del Sol. Eh, capito? Finisce un po’ lì, eh, cioè… Voglio dire, dopo abbiamo vinto tanto, siamo andati bene». 

- Le maglie erano molto belle. 

«Le maglie erano molto belle». [ridiamo, nda] 

- Quindi non ci hai mai creduto nel sortilegio – più che maledizione – della maglia iridata, che a te ha portato bene? 

«No, no, no…». 

- Al di là delle fatiche extra-bici, diciamo. 

«No, no, il mio problema è stato proprio quello che allora non si poteva programmare. Non si poteva programmare, in quei momenti lì eri “costretto” (tra virgolette, ovviamente) ad andare un po’ da tutte le parti e io che già non sono fisicamente… Io non nasco come un corridore da corse a tappe. Io con il lavoro, i carichi di lavoro, no? Il fondo, ho trovato una condizione, cioè ho modificato le mie condizioni muscolari, perché io nasco come veloce, corridore veloce, nel tenere in salita, nel difendermi a cronometro e via via, devi modificare qualcosa». 

- Però tu eri anche predisposto, questa muscolatura che hai, questa postura che ti faceva sembrare come un po’ ingobbito, in realtà ti favoriva per quella sparata lì su certi tipi di arrivi. Giusto o no? 

«Per quella sparata lì, sì. Ma per il fondo, no». 

- Ci hai dovuto lavorare. 

«C’ho dovuto lavorare, ho dovuto modificare un po’ le mie caratteristiche fisiche e questo mi ha condizionato tanto, eh. Cioè: esempio: se io continuavo ad essere un corridore che mirava a vincere qualche tappa e qualche “corsetta”, sarei durato quanti anni?». 

- Quindici… 

«Ma, secondo te, un corridore italiano dentro di sé può sacrificare qualcosa della sua carriera pur di vincere un Giro d’Italia? Io l’ho fatto, però mi è costato tanto. Questo sì. Questo sì…». 

- Una cosa da dirigente: intanto ti chiedo se ancora ti diverti, al di là che ci sei dentro, a guardare il ciclismo? E poi ti volevo far fare un paragone tra la tua epoca… 

[Saronni guarda le foto di Jan Raas e Roger De Vlaeminck, nda] 

«Jan Raas - zio can! - questo qui… Il più grande corridore che io ho visto è questo qua: De Vlaeminck». 

- Più ancora che Hinault? Lo so che erano tipi di corridori diversi… 

«Un certo tipo di corridore». 

- Come classe pura… 

«Come classe, come intelligenza, come furbizia, come tattica: questo. Il corridore più forte, come corsa a tappe, più forte Hinault, e l’altro è Maertens. Tre corridori che…». 

- Ti fa male vederlo così, lì al Museo? 

«Sì, mi fa male, ti dico la verità. Mi fa male, e guardavo spesso… Ci siamo trovati anche qualche volta e sì, mi dispiace, mi dispiace molto perché questo era un corridore… Un corridore belga». 

- Nel bene e nel male. 

«Perfetto. Là purtroppo è un mondo particolare». 

- Una cosa che mi ha fatto impressione è che lui in ritiro si nascondeva, andava dietro una scogliera, che magari l’albergo era vicino al mare, e i compagni non lo vedevano e sentivano dalle stanze: il rumore delle bottiglie rotte contro gli scogli. Per non farsi veder e che beveva, gettava le bottiglie di vetro vuote contro gli scogli. ’sta cosa mi è rimasta impressa. 

«Lui purtroppo è uno di quei belgi, guarda che Martens… Maertens, non ho mai visto uno così potente, così forte, è incredibile. Guarda, più scaltro, più classe De Vlaeminck, il più forte, il più duro Hinault. E quell’altro è questo qua. Ma purtroppo questo qui nell’ambiente belga o sei fortissimo di carattere, e lui non lo era, e la pressione… il mondo del… l’ambiente belga è troppo stressante, troppo, troppo… Guarda che lui è uno dei tanti esempi, eh». 

(interviene Andrea Appiani, addetto stampa della UAE)
«L’abbiamo visto anche con Boonen recentemente…» 

(riprende Saronni, nda) «Vandenbroucke, Boonen… Impressionante. Però come corridore, questi tre qua, mai visto». 

- Sai che Vandenbroucke è stato l’unico che ha vinto più di te prima dei vent’anni? L’unico. 

«Sì-sì, ma Vandenbroucke, lo so bene, era un talento naturale. Ma purtroppo nel contesto lì o sei forte-forte o sennò crolli». 

- O ti stritolano. Invece da dirigente questo ciclismo qua, ai tuoi tempi c’erano le grandi squadre ma erano più o meno diciamo dello stesso campionato, la stessa lega, come posso dirti, per usare un’espressione americana… 

«…della stessa serie A...». 

- Ecco, invece adesso c’è una forbice tra, che ne so, prendo la Bardiani, ma perché ci ho parlato di persona, so le cifre, e i 35 annui del pianeta Marte, capisci che sono due mondi. Non so forse voi UAE siete più vicini al pianeta Marte che alla Bardiani, però… 

«No, c’è troppa disparità. A livello economico, e d’altra parte non c’è niente da fare le risorse fanno anche l’importanza della squadra. Il Real Madrid è il Real Madrid. Poi è tutto discutibile, quanti ne spendono bene, quanti ne spendono male, però…». 

- Quello è un altro discorso. 

«Però quando tu hai le risorse…». 

- Però, per dire, ho trovato più sterili le polemiche che sai questi si possono permettere corridori che sarebbero capitani ovunque, li mettono cinque, sei, sette a tirare ai trenta orari in salita… però anche ai tuoi tempi voi big vi prendevate i migliori. Il problema è quante grandi squadre ci sono in contemporanea? 

«Ma no, è… è diverso. È diverso. Quello che dici te è una cosa, allora noi… tu non… è come se tu prendevi, un po’ la Bianchi un po’ questa politica l’aveva. Perché non è mai riuscita a prendere il grande campione, però aveva tutto, aveva i Contini, Baronchelli, Segersäll, Prim. Una marea di corridori forti. È come se tu radunassi, a quei tempi là, li radunavi tutti, prendevi i Saronni, i Moser, i Baronchelli e li mettevi assieme. E questo oggi, il problema. È che Sky, quei cinque, sei, dieci corridori, sono tutti capitani». 

- C’è una differenza però rispetto ai tuoi tempi: che allora se mettevi un De Vlaeminck e un Moser nella stessa squadra, la Sanson, duravano un anno poi… 

«È questo il problema». 

- Questi, siccome ti metti a posto per la vita, fanno i soldatini… 

«Chiaro, è chiaro. Ma certo…». 

- Kwiatkowski è uno che vince il mondiale, la Strade Bianche, la Sanremo… 

«…è là che tira…». 

- Fa l’ultimo soldatino: gli tirano il collo fino a… 

«Il problema – sono anni che lo dico - ma non è perché… Voglio dire, se io fossi a gestire Sky, farei esattamente lo stesso, ma non è una critica. Io non sto facendo una critica – e qualcuno l’ha interpretata male – a Sky. Ah, dici così perché Sky… No-no: Sky fa bene, hanno tanti soldi, se io fossi… farei esattamente quello. Io sono preoccupato per lo spettacolo-ciclismo. Perché se tu metti cinque corridori, sei capitani a tirare a trenta all’ora in salita, non fai spettacolo. Lo spettacolo è quando Aru, Nibali, o Contador, che ha smesso, o altri scattano in salita. Se tu vai a 35 all’ora in salita non scatta più nessuno. E allora è monotonia, non è bello. Non c’è spettacolo, non c’è niente. Questo, io sono preoccupato di questo. Allora il potere delle squadre va diminuito, perché devi distribuire le forze in tutti, per avere più spettacolo. Però questo è facile da dirsi ma chi ha la forza economica è chiaro che la sua politica è quella lì. Io non sto criticando questi che hanno tante risorse. Io sto solo criticando che se viene meno lo spettacolo nel ciclismo, viene meno la passione, viene meno la voglia di guardarlo». 

- In questo sei molto ferrettiano. Bordonali invece mi dice: eh, ce ne vorrebbero dieci di Sky. La “verità” dove sta? 

«A bon, ah certo, se hai dieci Sky…». 

- Ma non solo perché porti un sacco di soldi nel ciclismo. 

«Dieci Sky… Allora, è la stessa cosa: non cambia. Se hai dieci Sky, vuol dire che i migliori corridori li distribuisci in dieci squadre. Capisci? Cioè: o diminuisci la forza economica, o la aumenti. Perché se tu arrivi ad avere dieci Sky, hai la possibilità di portar via qualche corridore a Sky e quindi di creare delle squadre più importanti». 

- E non c’è lo stesso il pericolo di mettere i migliori a tirare, a far le trenate ai trenta orari in salita? 

“L’importante è trovare una soluzione perché i corridori migliori possano fare la loro corsa, come lo fai? Se tutti, se tanti stanno nelle migliori squadra, non li hai liberi». 

- Tu credi nel salary-cap o no? A me non sembra la soluzione perché fatta la legge trovato l’inganno… 

«Guarda che non è che… Non sono io che devo trovare la soluzione, cioè io dico solo quello che vedo, quello che mi sento di dire. Cioè: quello che mi sento di dire è: se quei cinque o sei corridori che sono a Sky e che tirano in salita e vanno forte come Froome, anzi Froome fa fatica a staccarli, se li distribuisco in altre squadre, io creo spettacolo. Poi, io non lo so qual è la soluzione, l’UCI che deve tutelare questa cosa qua, mica io. Io posso aver le mie idee ma non c’entrano niente le mie idee. Io voglio vedere un ciclismo dove su una salita scatti, c’è antagonismo, la lotta, lo scatto, la rivalità, queste cose qui. Perché se il ciclismo non ha queste cose qui, perde di interesse. Il Tour: ma scusate eh, forse il Giro ha meno protagonisti importanti, però c’è più lotta. E va bene. Ecco perché piace di più il Giro: il tour è più importante. Ma quanto crede di essere “importante”, quando tu sei là e vai a quaranta all’ora in salita? Quanto pensa di andare avanti a creare interesse? Io mi preoccupo di questo. Anche perché poi fra cinque anni, tre anni, un ano, dieci anni, a me poi, nel ciclismo non farò più niente nel ciclismo, non dipende da me, capisci? Io sono solo preoccupato perché, se la storia del ciclismo non ha chi scatta in salita, non hai ciclismo. Tutto qua». 

- Le radioline: come la pensi? 

«Mah, le radioline, può essere una delle tante cose, le radioline, i potenziometri, alcune cose, alcuni strumenti possono ridurre questa, cioè… Quando tu lasci libero, no?, di inventiva l’atleta, bene, vogliamo togliere queste…? Va bene, ma sono… Non è una cosa sola, son tante cose che dobbiamo fare, no? Perché un corridore può anche sbagliare, e scattare aa sei km, e il direttore sportivo gli dice. Ma dove vaiii? Lo imbriglia un po’, ma se quello lì non scatta non fai spettacolo, no?». 

- Ma un Beppe Saronni con le radioline? 

«Ma, vabbè, io non avevo bisogno della radioline perché… Perché, per fortuna, cattavo, al 99% sapevo “perché” scattavo. Oggi, tu vedi tanti di quei corridori che scattano, fanno trecento metri e non ce la fanno più, e dentro di me dico: Non capisco. Non capisco…». 

- Come lo chiamavate il corridore che scattava a metà tappa? Ai vostri tempi era un…? 

«Uomo-RAI. No, ma è cambiato tanto… Guarda che capisco che su certe cose, oh, le fughe le facevano anche allora, però le fughe se non andavano all’arrivo, quando il gruppo ti prendeva ti tirava tante di quelle parole da far paura. Bisogna capire una cosa. Oggi le fughe più o meno importanti vanno anche via anche perché tu hai la diretta televisiva che fa vedere tre o quattro ore quindi è importante la visibilità. Non tanto in quanto la fuga, però, anche lì…». 

- Be’, in questo Thomas Voeckler era un maestro, specie con le sue smorfie in favore di telecamera… 

«Anche lì però, a volte il ciclismo si fa vedere “troppo”, per troppe ore, con poco… con poca importanza. E allora, la fuga che va via, il gruppo che… Anche qui bisognerà trovare qualcosa per movimentare… Qualcosa di novità da fare. Ci sono tante cose da fare, no? Perché il ciclismo… I tempi cambiano, qualcosa di novità bisogna anche trovare, no? Ecco, quindi, ci sono tante cose da fare. Però, dopo, sai, le dici tu, e sembra che sei in polemica con qualcuno, no? Capisci?». 

- O che le dici pro domo tua… 

«E invece no, il ciclismo ha delle cose… No, ma il ciclismo deve aggiornarsi un po’, perché… però deve aggiornarsi, ci sono delle cose varie da fare però il principio è quello. Se tu in quei momenti non hai lo spettacolo, non c’è niente da fare». 

- Dammi una chiusa, Beppe. Il ciclismo per te? Lo so che ti ha dato tanto e che tu hai dato tanto al ciclismo. Ma il ciclismo per te che cos’è? Che cosa è stato? Che cos’è, e cosa sarà sempre? 

«Bah…». 

- Col cuore me lo “devi” dire, eh. Senza star a ragionar troppo. 

«Nooo, vabbè, ma sai… Difficile trovare anche delle farsi a effetto». 

- Una frase "di Saronni". Non per forza deve essere a effetto. 

«No, ma a me... Io ho avuto la fortuna di provare tutto. Cioè ho provato ad andare forte, ma forte che nemmeno io mi sarei mai aspettato. Ho provato anche ad andar “piano”. Ma piano. E soffrire, e far fatica. Le ho provate tutte. E però… Però poi, alla fine, il ciclismo credo che, alla fine, è stato soprattutto un insegnamento di princìpi e di valori. E mi ha dato tanto». 

- Sai c’è chi dice che la vita è quella cosa che assomiglia al ciclismo, non male eh? Invece che il viceversa. Compresi i colpi bassi… 

«Guarda, è strano. Il ciclismo… Il ciclismo è una cosa… è stranissimo. Il corridore è una cosa stranissima. Tu arrivi alla sera e sei stanco morto, sei finito. Sei finito. Guarda che non lo so… non so se esiste un altro sport [così]… Manderesti a quel paese tutti, ma sei talmente finito che non riconosci nemmeno i parenti, gli amici, se… Ti alzi alla mattina, sei più convinto e “peggio” di prima. Questa è una cosa che io non ho mai capito. Mai. Mai. E questo significa… Significa che in realtà, vedi, nella vita poi alla fine ogni giorno passa, ogni giorno è un giorno nuovo, ci sono cose che non ti aspetterai mai. Il ciclismo ti abitua ad avere… ad avere speranza, no? Ad avere degli obiettivi e le cose possono cambiare. Le cose possono cambiare. Se tu vuoi, le cose possono anche cambiare. Non devi perdere questa speranza qua. Credo che sia la cosa più importante, guarda. Più importante - perché tu pensi sempre… dice: eh, tante volte sei demotivato e dici: Eh, basta, ma nooo. Ma come fai? Ma qui non cambia più niente… E sei destinato… Nooo, non è vero. Non è vero. Dalla sera alla mattina le cose cambiano». 

- Hai avuto anche una fortuna, anche come uomo e non solo come corridore perché te ne sei andato in tempo prima che cambiasse il vento… O che cambiasse “troppo”. 

«Io ho avuto la fortuna, come tutti noi che facciamo sport, ho avuto la fortuna di: fare quello che volevo fare, la mia passione, l’ho fatta ed è diventato anche un lavoro. No? Un lavoro, quindi sei stato anche pagato per fare un qualcosa che avresti continuato a fare». 

- Che avresti fatto comunque... 

«Che avresti fatto comunque». 

- Come uno che sogna di fare il giornalista e poi lo diventa. Però ti volevo dire questa cosa: che te ne sei andato prima che diventasse qualcos’altro. 

«Sì. Di questo sono contento». 

- Difatti, tu, una delle cose più belle che hai detto, sì, la rivalità con Moserone – come lo chiamavate voi – c’era, ma con “quel” Moserone. Dopo, era “altro”, quindi l’hai anche persa… 

«Questa è la cosa più importante. Ma io a Francesco gliel’ho detto, ma gliel’ho detto tante volte». 

- Anche il Visenta gliel’ha detto: ha detto io voglio invecchiare bene, ma con la “mia” faccia… 

«No, ma è vero. È vero. Io riconosco la rivalità con Francesco, fino a quando – e ti dico anche quando: il secondo Giro d’Italia che io ho vinto, no? Nella tappa che si arrivava su, come si chiama lì?, i Colli San Fermo, siamo prima di prendere la salita, sul lago d’Endine, lì sotto, e si avvicina Francesco – Moserone non posso più dirlo, Francesco – viene vicino, io mi sto togliendo la maglia rosa di lana, perché avevo il body, no il body, avevo la maglia di seta perché volevo fare l’ultima salita con la maglia un po’ più leggera, una maglia di seta. E butto via la maglia rosa di lana, la butto via – c’eran dei tifosi che l’han raccolta, chissà se l’hanno ancora… Si avvicina Moser e mi dice: oh, dai complimenti, dai, vedrai vedrai che lo vinci questo Giro. Guarda, no. Ti saluto. Lui è andato via dritto, si è ritirato. Ti saluto, no-no, guarda, ho capito… Ho capito che i grandi giri non sono più per me, no-no, farò le corse in linea, questa roba qui… Mi dà una pacca sulle spalle e mi dice: Oh, dai dai, bravo complimenti, ciao ciao, ti saluto. Ed è andato via dritto». 

- Il suo testamento spirituale. Del "primo" Moser, intendo. 

«Questo… Questo. Il Moser che conosco io finisce lì. Finisce lì. Enervit ha proposto di fare il record dell’ora, l’ha proposto a me, prima che a Moser. L’ha proposto a Thurau. Dopodiché è stato proposto a Moser. Io non ho accettato perché in quel momento, a parte che non era, diciamo, non era un qualcosa che io avevo in mente, in testa, non era una cosa “mia”. Non era, e ovviamente con l’accettazione di progettare, di programmare il record dell’ora c’è stata un’altra carriera. Ma che ripeto – ripeto – e lui lo sa perché gliel’ho già detto più di una volta, non era più Moser. Il vero Moser era fin lì. Fin lì. E lui mi ha detto queste cose qua prima di ritirarsi dal Giro d’Italia. E tutti noi, tutti noi corridori che ci siamo scontrati, abbiamo fatto… discusso, litigato e non… con Moser, tutti noi, riconosciamo che il nostro vero avversario, il grande Moserone, era quello lì. Finita lì. Perché poteva essere le spinte, poteva essere tutto quello che vuoi, ma lì tu avevi davanti un avversario diverso. Era quello lì. Che soffriva, pativa, vinceva, era forte. Perché attenzione: tutto quello che è stato detto, cioè, l’ho detto ma riconosciamo a Moser tutto quello che dobbiamo riconoscere, eh. Ecco, fino a lì. Tutti noi che abbiamo vissuto la rivalità con più o meno con lui, tutto si ferma lì. Quello che è successo dopo, è un’altra cosa. Tutto qua». 

- Di Fignon non t’ho chiesto niente. Un altro corridore che avevo nel cuore. 

«E Fignon, poverino… Poverino, aveva vinto il Giro d’Italia e, vabbè, gliel’han portato via. Ma in modo…». 

- Indegno? 

«Veramente. Da vergogna. Veramente da vergogna. Perché…». 

- Tu ci andavi d’accordo, perché non era facile… Un personaggio un po’… 

«Coi francesi… No, coi francesi non è che c’era una grande… “vera” amicizia, no? Anche se Fignon era un francese…». 


- Atipico… 

«Sì, e difatti lui si è scontrato sempre no?». 

- Sembrava quasi che si sentissi più vicino all’Italia che alla Francia… 

«Ecco, lui era il meno francese dei francesi, perché era un po’ meno pieno di sé, meno arrogante e bla-bla-bla. Però rivedendo poverino cosa gli è successo, e rivedendo quei momenti lì, è veramente... Mi dà fastidio». 

- Però la dignità con cui l’ha portata avanti… 

«Sì, lui ha fatto un piccolo tentativo di… che però si è fermato lì. Da gran signore. Da gran signore, quello sì». 

- Mi fa bene che me l’hai detto. Mi è piaciuto. 

«Quello sì…». 

CHRISTIAN GIORDANO

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