LA LEGGENDA DI ROGER BROWN
di SIMONE BASSO
Sport e cultura - 26 giugno 2020
Sport e cultura - 26 giugno 2020
Pubblicato da Indiscreto il 9 settembre 2011
“They called him The Man Of 1000 Moves, but I don’t know about all that. He probably had 500, but they were all good. “
(Connie Hawkins)
Roger Brown viveva a Bedford Stuyesant, New York. Da adolescente l’unica cosa che gli importava era il playground, ma capì che con quelli più grandi e grossi non si poteva scherzare. Così imparò, di notte, a scavalcare i cancelli.
Miope, avrebbe passato la carriera a chiedere ai compagni di squadra il punteggio e il cronometro delle partite: ma non sembrava fregargli granché. Apprese il segreto giocando nel crepuscolo, illuminato appena dai lampioni. Siccome sentiva il canestro, non aveva bisogno di vederlo.
Divenne, senza saperlo, il primo di una nuova specie. Il corpo di un’ala con la tecnica di una guardia, immarcabile in palestra e sui campetti.
A diciassette anni era già una leggenda di quel microcosmo: cominciarono a soprannominarlo The Rajah.
Nella Grande Mela erano due i prospetti liceali da sballo, l’altro era Connie Hawkins. In quegli anni lo incontrò in svariate occasioni; a Brooklyn come al Rucker o nell’area del St John’s Center.
Ma l’evento più importante si verificò nel 1960, ai campionati cittadini, quando si sfidarono la Boys High del Falco e la Wingate di Roger. Fu la partita liceale più attesa e scrutinata di sempre: Brown contro Hawkins, per la prima volta in un contesto ufficiale.
Il vecchio Garden era stipato all’inverosimile, Boys vinse 62-59 ma Connie giocò così così (18 punti e 13 rimbalzi), penalizzato dai falli.
The Rajah invece, come sempre nelle grandi occasioni, fu devastante: gli avversari e quei 18000 al Madison scoprirono che Brown (39 punti) poteva suonare il saxofono, improvvisando a piacimento per quaranta minuti filati.
Quella estate scelse Dayton per il proscenio universitario, la rampa di lancio ideale prima del salto nei pro'.
Ma nella vita di tutti noi c’è, all’angolo di una strada, un Mefistofele che ci aspetta. Il suo e quello di Connie Hawkins si chiamava Jack Molinas.
Quel bianco vestito all’ultima moda era stato il migliore giocatore della Ivy League e, nell’NBA, un futuro probabile All-Star. Fu squalificato per aver aggiustato alcuni incontri per lo spread quando era ai Fort Wayne Pistons.
Tornò in pista, laureato in legge ad Harvard, come procuratore e faccendiere. Nel frattempo era diventato un uomo di riferimento di gangster mafiosi del livello di Tommie Eboli e Vincent Gigante.
In quattro anni, dal 1957, controllò quarantatré partite e quattrocentosettantasei giocatori.
Brown e Hawkins non truccarono mai un incontro, ma ricevettero favori e denaro da Molinas.
Erano solo dei ragazzi del ghetto, poveri in canna, che si ritrovarono di fronte al fascino diabolico di quell’incantatore di serpenti: circondato perennemente da belle donne, facoltoso e carismatico.
Quando scoppiò lo scandalo, nel 1961, i due furono travolti: entrambi furono squalificati a vita dall’NCAA e dall’NBA. Fine dei sogni o quasi.
Molinas scontò cinque anni di carcere e poi si trasferì a Hollywood. Pornografia e pellicce taiwanesi le sue attività, al solito lecite ma non troppo. Fu ucciso da una pallottola nella testa il 3 agosto 1975 nella sua magione losangelena.
L’anno prima era stato assassinato il socio d’affari Bernard Gusoff: gli investigatori scoprirono che Jack aveva stipulato un’assicurazione sulla vita del collega, del valore di mezzo milione di dollari.
Brown trovò lavoro alla General Motors, nel turno notturno come metalmeccanico; di giorno sfogava la sua frustrazione nei Brothers Mortuaries (sic) dell’improbabile AAU.
Poi arrivò nel 1967 – inaspettata – la proposta di una franchigia, gli Indiana Pacers, facente parte di una realtà appena nata: l’American Basketball Association.
Roger, spaventato dall’idea di lasciare un’occupazione modesta ma sicura per imbarcarsi in un’avventura stile ABL, accettò.
Quando lo firmarono, il proprietario Dick Tinham nemmeno sapeva chi fosse. Fu il giemme Mike Storen che lo prelevò dalla strada: in fabbrica guadagnava 114 dollari la settimana, si accordarono per 17.000 l’anno più 2000 di bonus e l’utilizzo gratuito di un’automobile.
Gli inizi furono precari, avventurosi: l’ufficio dei Pacers era il retrobottega di una gioielleria. L’entusiasmo di Indianapolis e dello Stato, una delle culle della pallacanestro, fu subito contagioso.
Al primo tryout dell’organizzazione, tenuto al Jewish Community Center, in una palestra da quattrocento posti si presentarono millecinquecento spettatori.
“The trouble with the ABA is that there are too many niggers boys in it now.”
(Adolph Rupp)
L’ABA nacque nello spirito di quei tempi esagerati. E’ stata forse l’ultima vera odissea nella storia dello sport americano. Pionieristica, selvaggia, contraddittoria, libera e soprattutto folle. Visse al di sopra delle possibilità e scatenò l’immaginazione, un’alternativa vitale e anarchica all’NBA. Nel bene e nel male edificò, ignara ma non troppo, il basket postmoderno.
C’erano le promozioni assurde, le raccattapalle in tanga a Miami, il pallone biancorossoblù, il cane mascotte dei Colonels che viaggiava in prima classe mentre i giocatori dovevano farlo in seconda.
Regalò una possibilità, finalmente, a Roger Brown, Connie Hawkins, Doug Moe.
L’immagine comunque era quella della Lega dei Fuorilegge. Perché fu il luogo di personaggi senza controllo: Warren Jabali, un fuoriclasse autentico che (ahilui) passò alla storia quando, in diretta tivù, saltò con i piedi sulla testa di Jim Jarvis steso a terra. Immaginatevi la scena, un black panther che calpesta un bianco nel 1970.
C’era John Brisker, il bomber dal fisico scultoreo e dalla fama sinistra: finirà i suoi giorni come mercenario al soldo di Amin Dada.
Il giuliano (...) "Bad News" Barnes, ala grande dal potenziale infinito, che arrivava all’arena in pelliccia, con sotto la divisa di gioco, mentre i suoi cominciavano il riscaldamento pre-gara.
Accompagnato da due sorelle (…) corpoduro che gli sporgevano la dieta, nient’altro che un paio di hamburger e una birra.
E Wendell Ladner, il Burt Reynolds del parquet, un animale tutto donne e intangibles. Entrò nella mitologia quando si rivolse a un medico, a causa di persistenti dolori allo schwanzstuck.
Il dottore: “Sembra che hai fatto troppo sesso.”
Wendell: “Lo pensa veramente?”
“Beh, quante volte al giorno fai l’amore?”
“Non lo so, tre o quattro.”
“Wendell, è troppo!”
“Ehi, ma non lo faccio mai con la stessa ragazza!”
Le buffonate, il circo, i debiti non oscurarono le novità tecniche e ideologiche che l’ABA introdusse nell’anima del gioco. Coptarono dall’ABL il tiro da tre punti, approfondirono lo studio statistico, inserirono la gara delle schiacciate all’All-Star Game. Sdoganarono, per causa di forza maggiore, la creatività delle ali e delle guardie riducendo l’importanza dell’asse point-pivot.
Portarono sul parquet la fantasia, il fluire libero delle giocate, favoriti da un’incredibile quantità di talento proprio in quei ruoli. Le guardie tiratrici e le ali piccole. Brown, Hawkins, Rick Barry, Charlie Scott, Jabali, Brisker, Donnie Freeman. Poi, la seconda ondata: Julius Erving, David Thompson, George Gervin, George McGinnis, Ron Boone, Ralph Simpson.
Avevano più qualità rispetto alla concorrenza ricca e famosa ma in pochi lo sapevano: la mancanza di un contratto televisivo decente ne minò, alla base, i sogni di gloria.
Forse la verità su quel momento storico, l’epitaffio migliore, fu una frase di Ron Grinker: “The NBA was a symphony, the ABA was jazz.”
I Pacers furono i Celtics della Lega dei Fuorilegge. Cinque finali, tre anelli e una continuità ad alto livello di carattere dinastico.
The Rajah fu il pilastro tecnico che permise la costruzione della reggia: dal primo dì, con lui, Bob Netolicky e Freddie Lewis.
Neto era una power forward dalle mani educate, un po' Chuck Jura. Benestante, figlio di un chirurgo famoso, portò il suo spirito bizzarro nello spogliatoio gialloblu: se all’università teneva un cucciolo di leone in bagno, nell’ABA cominciò la saga dei cowboy metropolitani.
Convinse gli altri (in particolare Brown e Daniels) a dotarsi di pistole. Le goliardìe dei nostri ebbero termine quando partì un colpo, inavvertitamente, durante una riunione tattica. L’incidente, che non ebbe conseguenze, convinse tutti che era meglio non giocare con le armi da fuoco…
Il sottovalutato Freddie Lewis, il collante del combo, arrivò per 15.000 dollari a stagione e un frigo usato (sic). Bob Leonard e Mel Daniels giunsero l’anno seguente. Slick subentrò all’inesperto Larry Staverman e portò disciplina, durezza e calore umano.
“All that X’s and O’s talk is garbage. Basketball isn’t a complicated game. The coach’s job is to keep the team together.”
(Slick Leonard)
(Slick Leonard)
Tanto per far capire l’antifona, chiarì che avrebbe multato chi NON partecipava alle risse durante un incontro…
Daniels, stella del college a Minnesota, era un rimbalzista galattico: il classico centro sottomisura che faceva dell’intensità il suo marchio di fabbrica.
Il livello fisico dell’ABA era oltre il limite. Jim Murray scrisse che “per avere un tiro libero avresti quasi dovuto mostrare una lastra con i raggi x”.
A ogni contesa c’era almeno l’accenno di una scazzottata: Daniels, intimidatore nato, era la guardia del corpo perfetta di Roger Brown.
Nel 1971 George McGinnis, l’ultimo tassello, approdò in uno squadrone che era già dominante.
I Pacers svilupparono una mistica arrogante e minacciosa, tipica di un combo che si sentiva imbattibile.
Stabilirono un rapporto speciale con la città (Brown divenne anche consigliere comunale!); isola felice in una realtà – l’ABA – instabile per definizione.
“Having mastered the Big O’s ball fakes, West’s accelerated low, last dribble before squaring up for the springer, Jones’ banker and Lord Elgin’s body control, Brown became the best player the fewest people have heard of – the penalty for beginning and ending his career (’75) as an aba Pacer – took a ticket to obscurity and never got off.”
(Peter Vecsey)
Il ragià aveva un ritmo musicale tutto suo, sincopato. Un raggio di tiro illimitato e l’uso della mano sinistra di un cestista di trent’anni dopo.
I suoi movimenti, seta purissima, coltivarono l’arte dell’uno contro uno a quote mai viste prima. Charlie Parker con un pallone nelle mani, era un solista ma organico, perfettamente inserito, nelle dinamiche dell’orchestra.
Man Of A Thousand Moves, cominciava la liturgia con uno stile nato sul cemento di casa: fintava con la testa, accennava il jumper e poi improvvisamente entrava in palleggio.
L’avversario rinculava all’indietro per impedirgli il canestro e allora si arrestava, su una monetina da un centesimo, scoccando un meraviglioso tiro in sospensione: soffice, dalla parabola altissima e con l’effetto.
Leonard lo utilizzò come il go-to-guy dei momenti decisivi: quando la sfida era sul filo, nell’ultimo quarto, il numero trentacinque saliva in cattedra.
L’eleganza, la facilità estrema nel produrre punti non oscuravano l’intelligenza tattica di Brown. Nel rispetto dell'alchimia di squadra, l’uomo della Grande Mela evolveva anche da playmaker; strepitoso per tempi e angoli di passaggio al compagno smarcato e al lungo.
“Roger was the Larry Bird of the ABA. He had all the all-around skills of Bird and he used that 3-point shot just like Bird – to break your back. Roger made the game look easy and he was a great forward in a league filled with great forwards…”
(Gene Littles)
L’apogeo di Roger Brown, la sua Notte In Tunisia, si materializzò durante le Finali 1970 opposto ai Los Angeles Stars.
Due a uno per i ganzi di Slick e gara4 fondamentale in California. Che rimase equilibrata, incerta per tre quarti fino a quando, con ancora 4 e 50 nel terzo parziale e i Pacers avanti 85-83, The Rajah imbucò una tripla da otto metri.
Da lì in poi, Brown si elevò sopra i comuni mortali. Più che il punteggio finale, 142-120 per gli ospiti, fu il referto di Roger che spiegò quel che avvenne: 47 minuti, 53 punti con 18/29 dal campo e 14/16 ai liberi, 13 rimbalzi e 6 assist.
La quinta sinfonia, il primo matchpoint (casalingo) di Indiana, malgrado i favori gialloblu del pronostico, visse di parziali imprevedibili. Si contarono quindici parità e undici cambi di testa. La banda di Leonard non riuscì, a dispetto di un più otto a metà ultimo quarto, a chiudere la pratica.
Nel supplementare rimase solamente il ragià: sopra 115-112, gli Stars fecero fallo intenzionalmente su Brown per impedirgli un tiro da tre. Mise il primo tiro libero e sbagliò apposta il secondo per favorire un tap-in; ma il fenomenale Mack Calvin di quella sera (33 punti) fece sua la carambola. Il losing effort di Brown? 39, 13 e 8…
Gara6 nella città degli angeli seguì la stessa sceneggiatura, un testa a testa continuo. Spalleggiato da un Daniels favoloso (27 rimbalzi), lo swingman dei Pacers firmò l’ennesimo capolavoro della serie. Il canestro della staffa, la settima (!) tripla della serata, fece partire i festeggiamenti per il primo titolo. Per la fredda cronaca, Roger scrisse 45 e 11.
Nel 1972 rendez-vous con i New York Nets per alzare la seconda bandiera sul soffitto del Fairgrounds Coliseum. Lo scontro diretto era con il grande Rick Barry, ovvero l’ala piccola che con The Rajah aveva espanso maggiormente i concetti tecnici del ruolo.
Finì tutto in gara6 con l’azione che suggellò l’intera carriera di Brown, il suo stereotipo felice. Ne fece diciotto nella prima metà poi i Nets rimontarono. Un parziale di sette punti consecutivi a opera del ragià li ricacciò indietro. Negli ultimi minuti l’ennesimo, disperato, rientro di Barry e soci. Con i compagni sulle ginocchia, 105-101, The Rajah si mise in proprio. Uno-contro-uno, saltò il marcatore e si buttò sotto, contro i tentacoli di Billy Paultz. Canestro e fallo subito: gioco, partita e incontro.
Fu il bis, in attesa di una tripletta che sarebbe arrivata dodici mesi dopo. Poi cominciò il declino, accentuato da una lesione al ginocchio sinistro, e i suoi Pacers passarono sulle spalle (peraltro larghissime) di Big George McGinnis.
Un trasferimento-amarcord, con Daniels e Lewis nel manicomio di Memphis, un pernottamento nello Utah e il canto del cigno nuovamente a Indianapolis.
Non giocò mai, nemmeno un minuto, nella NBA: gli rimase sempre l’amarezza per come fu fregato in quel maledetto 1961.
Quanti di quelli che entrarono nella Hall of Fame furono surclassati dal trentacinque di Indiana? Tanti, troppi.
I Pacers erano un gruppo vero e lo rimasero anche dopo la fine dell’avventura sportiva. Fu Mel Daniels a occuparsi di Roger quando, nella primavera del 1996, gli fu diagnosticato un tumore al colon.
Lo operarono due volte e all’ospedale si presentarono tutti i vecchi compagni dei giorni di gloria, nessuno escluso; anche Reggie Miller, Chuck Person, Donnie Walsh portarono conforto e mostrarono rispetto all’uomo che costruì la storia degli Indiana Pacers.
Il ragià di Brooklyn morì il 4 marzo 1997. La sua vicenda rimane una delle eredità più preziose e misconosciute lasciate da un atleta. Distante, lontanissima dal nostro rumore bianco, nemmeno fosse una pulsar a migliaia di anni-luce dal pianeta Terra.
SIMONE BASSO
Pubblicato da Indiscreto il 9 settembre 2011
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