Team Destiny - I Washington Bullets campioni Nba 1978


di CHRISTIAN GIORDANO © 
Rainbow Sports Books ©

«The opera isn’t over ’til the fat lady sings».
– Dick Motta

L’opera non è finita finché la signora un po’ in carne, in genere un soprano, non ha cantato. La frase, tormentone ormai entrato nel linguaggio sportivo (non solo) americano, per il grande pubblico nasce dopo gara-5 delle Finali Nba 1978. A pronunciarla è Dick Motta, coach dei Washington Bullets sotto 2-3 nella serie ma prossima terza squadra di sempre a vincere in trasferta la gara-7 del titolo. E che invece vedeva favoriti (4.5 a 1) i Seattle SuperSonics, l’altra finalista su cui a inizio stagione nessuno avrebbe puntato un centesimo. 

La franchigia dello stato di Washington ha avviato una complicata rifondazione durante la offseason. In panchina, l’assistant coach Bob Hopkins ha rimpiazzato Bill Russell, monumento della dinastia Celtics degli anni Sessanta. 

Nel roster, accanto a Downtown Fred Brown e a Dennis Johnson, i giocatori chiave dell’anno prima, ci sono cinque volti nuovi: il veterano Paul Silas, rimbalzista di 1.99 arrivato da Denver, il rookie Jack Sikma, ala/centro di 2.09 uscito dal minuscolo Illinois Wesleyan e ottava scelta al draft Nba, lo stoppatore Marvin Webster, centro di 2.14 non a caso detto the Human Eraser per le sue doti di annullatore dei tiri altrui, Gus Williams, discontinua guardia di 1.87 presa come free agent da Golden State, e l’affidabile John Johnson, ala forte di 1.99. 

Dopo il pessimo avvio (5-17), la proprietà licenzia Hopkins e richiama Lenny Wilkens, già ai Sonics come player-coach dal 1969 al 1972. 

Wilkens debutta il 30 novembre vincendo (86-84) contro i Kansas City Kings, primo di 6 successi consecutivi che, assieme a una striscia di 12 vinte su 13, rilanciano la squadra. Chiudendo a 47-35 (con 42 vittorie nelle ultime 60 partite) Seattle è terza nella Pacific Division. Le vere sorprese però arrivano nei playoff, con i Sonics che superano Los Angeles (2-1) e, in sei gare (l’ultima sempre al Center Coliseum), i Blazers campioni in carica e primi nella lega (58-24), e Denver. 

L’arma totale di Seattle è la difesa, la seconda della NBA e capace di concedere agli avversari 102.9 punti a partita. In attacco, un’equa distribuzione delle opportunità porta sei giocatori in doppia cifra di media: Williams (18.1), Brown (16.6), Webster (14), i due Johnson – Dennis (12.7) e John (10.7) – e Sikma (10.7). Williams è secondo nei recuperi (2.34), Webster nono nei rimbalzi (12.6) e nelle stoppate (1.98), mentre Sikma entra nell’All-Rookie Team. Mica scemi i bookmaker. 

Tutt’altra musica si ascolta a Washington D.C. (District of Columbia). Quando Motta viene nominato head coach dei Bullets per la stagione 1976-77, Elvin Hayes, il miglior giocatore della squadra e mai entrato in un’ideale classifica di simpatia o di bon-ton, minaccia (promette?) di ritirarsi piuttosto che giocare per uno così. Già, ma così come? Motta è un piccoletto tutto pepe, pure troppo. Big E uno che ama fare quel che gli va quando gli va e tutto sembra tranne che il giocatore su misura per Motta. Ala forte di 2.04 che ha il suo “special spot” sul vertice sinistro dell’area, Hayes aspetta lì il pallone finché questo non arriva. Una volta ricevutolo, se la difesa non converge su di lui, Elvin in qualche maniera riesce a crearsi un tiro; in caso contrario, tira lo stesso. 

Ecco il punto: Hayes tira. Sempre. La sua carriera parla di una macchina da statistiche, nei punti e a rimbalzo, che però s’inceppa quando più conta. Un marchio che, assieme all’etichetta di giocatore egoista che mai avrebbe vinto il titolo, è diventato per lui un’ossessione. 

Invece, Hayes si presenta al training camp – questa la notizia – e come per incanto tutto si sistema. Lo scatenato Motta è proprio come lo descrive la reputazione che lo precede: o fate a modo mio o ve ne andate, dice subito ai giocatori; che almeno sanno chi hanno di fronte. 

Figlio di emigranti italiani, Motta è cresciuto nella piccola cittadina di Union, nello Utah, con la speranza che un giorno avrebbe fatto qualcosa «di così grande da poter lasciare la fattoria». Dopo una laurea e un master a Utah State, ci riesce diventando un ottimo allenatore di college a Weber State, a Ogden, sempre nello Stato dei mormoni, dove sta tanto bene da rinunciare alla corte serrata dei Chicago Bulls della Nba. Fino a che... 

Fino a che un settepiedi con il quale è già in parola lo tradisce per Brigham Young University, voltafaccia poco apprezzato dal vicino d’ufficio nonché Athletic Director di WSU (e a quel punto 

ex amico) che l’indomani gli lascia sul tavolo un velenoso post-it. Il coach, che schiuma rabbia, appallottola il foglietto e gli affida il futuro mirando il canestrino tenuto vicino alla scrivania: «Se segno, vado». Parete, swish, Bulls. È il 1968. Motta, che non è mai stato a una partita dei pro, rimarrà a Chicago otto stagioni (4 oltre le 50 vittorie) prima dell’avventura a Washington. Le carriere, a volte, seguono percorsi strani. 

Le sue squadre giocano una difesa asfissiante e in attacco si prendono il loro tempo muovendosi a memoria fino a trovare il canestro quasi come logica conseguenza. Le sue idee sul gioco sono scolpite nel marmo, il che è da sempre la sua forza e il suo limite. Insieme con il caratteraccio. Le intemperanze con giocatori e arbitri gli sono costate espulsioni in serie. Ai tempi dei Bulls, in una gara allo Stadium, sfiora la leggenda. Espulso prima dell’intervallo, si ritrova in spogliatoio il GM Pat Williams e la mascotte Benny the Bull. Scatta il coup de théâtre: il coach vuole infilarsi il costume del Torello per tornare in campo ad allenare, come dire, sotto mentite spoglie. Williams tentenna ma poi frena, Dick se la lega al dito. La più bella però la regala nel 1980, come coach dei Dallas Mavericks, squadra d’espansione che secondo lui consisteva di tre tipi di giocatori: con brutti contratti, con pessima mentalità o scarsi e basta. «E alcuni rientravano in due delle tre categorie». Il 25 ottobre i Mavs giocano a Oakland contro i Golden State Warriors e le cose a rimbalzo non vanno granché bene (eufemismo). In città c’è il circo e all’intervallo, mentre le squadre raggiungono gli spogliatoi, Motta vede una ragazza dello spettacolo che ha al guinzaglio una scimmietta e una tigre ammaestrate. La prima tira ad un canestrino – e non sbaglia mai –, la seconda corre a rimbalzo e con le fauci afferra il pallone. «Bella tigre» esordisce Motta. «Me lo farebbe un favore? Quando avete finito il numero, ce la porta in spogliatoio?». Una volta dentro, con il felino davanti alla porta, il coach carica i ragazzi urlando: «Se non cominciate ad andare a rimbalzo, dovrò fare qualcosa». Poi esce e per chiarire il concetto rientra novello Sandokan tenendo al guinzaglio la belva. Panico generale ma, ricorda Jim Spanarkel, uno dei Mavs più terrorizzati, senza fare movimenti bruschi, per non innervosirla. E la scimmietta? «Tirava meglio di tante guardie che avevo» giura Motta. Tigre o non tigre, 89-76 Warriors. 

Torniamo al non-rapporto con Hayes. Per un po’ sembrava che nessuno dei due volesse cedere, ma alla fine arriveranno a ciò che raramente avevano raggiunto in carriera: un compromesso. Il risultato? Due finali Nba consecutive e, soprattutto, l’anello. Un sogno ritenuto impossibile. 

«Dick esigeva molto dai suoi giocatori», ha detto nel 1990 Hayes, con un sorriso largo così, rievocando quel periodo, «E da se stesso. C’indicò la direzione, e noi la seguimmo». 

Sarebbe stato più difficile farlo senza quel muro che impedirà alla squadra pericolose deviazioni, il centro Westley (Wes) Sissel Unseld. Un blocco di granito (113 kg che non arrivano a due metri) dalle ginocchia malandate e prossimo al crepuscolo della carriera, contro il quale s’infrangono come flutti sulla roccia i migliori centri contemporanei, fatalmente più alti ma non più grossi. Stilisticamente non impeccabile (quando si appresta a tirare sembra stia per fare un passaggio), Unseld è la quintessenza del giocatore di squadra: blocchi monumentali, implacabile in difesa e a rimbalzo, altruista, insomma la pietra angolare sulla quale costruire una formazione da titolo. 

«Quel che ci serviva era il pugno di ferro» ripete Unseld a chi gli chiede dell’effetto-Motta. E a giudicare dai risultati era vero. Per dieci anni filati i Bullets avevano fatto i playoff ma inutilmente. Con Motta tutto cambierà, ma il processo non sarà indolore. 

Il coach manda via Truck Robinson e Nick Weatherspoon, poi toglie dal quintetto un perenne All-Star, la guardia Dave Bing. I Bullets 1976-77 chiudono a 48 vittorie ma poi perdono (4-2) con Houston la semifinale della Eastern Conference. Il pubblico di Washington, che aveva sommerso di «boo» il coach sin dalla prima partita, si era fatto meno ostile. In ogni caso Motta non era tipo da abbattersi e riusciva anche a scherzarci su. Gli piaceva ripetere di aver esordito a Washington con una standing ovation, solo che tutti erano in piedi per gridargli dei «boo». 

La seconda stagione del coach alla guida dei Bullets comincia con un fondato ottimismo ma anche con alcuni punti interrogativi, a partire dallo scricchiolante compromesso storico tra Motta e Hayes. Stufa dell’ingombrante stella, la dirigenza voleva liberarsene per un giovane, meglio se un centro dominante o un’ala piccola capace di segnare. Inoltre, Unseld, la vera anima della squadra e della franchigia, voleva ritirarsi e Phil Chenier, alle prese con persistenti problemi alla schiena, aveva saltato le amichevoli di pre-stagione. 

Il nucleo-base della squadra da titolo c’era già (anche se nessuno poteva anche solo immaginarlo), ma per arrivare all’anello occorrerà qualche piccolo rimescolamento. Motta sposta Kevin Grevey da ala piccola a guardia al posto di Tom Henderson (arrivato a stagione in corso da Atlanta), ma il suo uomo chiave arriva dal mercato dei free agent: è Bob Dandridge, ala piccola da nove anni nella Lega lasciato libero da Milwaukee. Il GM Bob Ferry lo considera l’ideale complemento per Hayes e Unseld, frontline di veterani, al decimo anno in Nba, la cui esperienza si rivelerà decisiva nei playoff, in particolare nella finale contro l’acerba Seattle. Ferry è convinto che il titolo della Eastern Conference sia più alla portata di Washinton prendendo Dandridge che non perdendo Hayes e alla fine avrà ragione. Anche qui, non era facile. 

Mai nella storia della franchigia i Bullets avevano acquistato un giocatore (tutti erano stati scelti al draft o scambiati), ma la decisione del proprietario Abe Pollin di rompere la tradizione acquisendo Dandridge mise a posto le cose. L’ex Bucks è la small forward più completa in circolazione e il suo inserimento in quintetto significa per Grevey, un’ala piccola nella media, spostarsi nella sua naturale posizione di off guard, ruolo in cui sa disimpegnarsi con grande intelligenza. 

Tra il 26 novembre e il 4 dicembre la squadra infila cinque vittorie (Rockets e Spurs, a Milwaukee, Celtics in casa e Cavaliers fuori), poi ne vince 11 su 13 e si issa al comando della Central Division. Il 13 gennaio, batte 102-93 Portland, al quinto stop stagionale, e tocca il picco della propria regular season, perché di lì in poi quelle cose che sembravano andate a posto tornano a precipitare. 

La sconfitta esterna (113-106) contro Golden State di cinque giorni dopo è un’ecatombe: Mitch Kupchak si infortuna a un pollice (che lo farà star fuori 15 gare), Tom Henderson si distorce una caviglia (3 le partite saltate) e Grevey si stira un muscolo del collo (una partita e mezza per recuperare). Non è finita: invece di raggiungere la squadra sulla West Coast per la gara dell’indomani contro i Lakers, il 19 gennaio Chenier va in ospedale per via di fortissimi dolori alla zona lombare che gli chiudono anzitempo la stagione. 

In quintetto, una volta guarito, lo sostituirà Kupchak (sì, quello che nell’estate 2004 passerà alla storia, anche, come il GM che ha ceduto Shaquille O’Neal), ma intanto il 29-28 degli acciaccati Bullets darà il via libera agli Spurs (52-30) nella corsa al titolo della Central Division. 

Il fondo viene toccato nella trasferta a Phoenix del 22 gennaio (Bullets battuti 114-101), quando gli abili e arruolati sono sette, uno in meno del minimo richiesto. Così malmessi, era dura finire la regular season, figurarsi arrivare in Finale o addirittura vincerla. Altro che Team Destiny, la squadra destinata a vincere, come i Bullets campioni sarebbero passati alla storia. 

Per fortuna di Washington, si era rivelata quanto mai lungimirante la decisione del management di rimpolpare il roster, poi decimato da una eccezionale sequela di infortuni, firmando a inizio gennaio un altro veterano, Charles Johnson, guardia di 1.82 da University of Carolina, tagliato da tre settimane da Golden State. Il decadale che doveva cominciare il 24 gennaio fu esteso a un triennale. Una mossa azzeccata, perché CJ, più avanti nella stagione, avrebbe acceso quella scintilla di cui la squadra aveva bisogno. 

Ai Warriors, Johnson ha vinto da titolare il titolo nel 1975 e pur non essendo un nome ha una straordinaria fiducia nel suo tiro da fuori. In più, si dimostra subito un buon collante per la (prossimamente) fortissima panchina di Washington e per lo spogliatoio. 

Hayes ricorda nitidamente il debutto del neo-arrivato: «Giocavamo di domenica pomeriggio, arrivò in elicottero e vincemmo la partita. Fu allora che cominciammo ad essere un gruppo. E in quel momento mi resi conto che avevamo una squadra da titolo. Avevamo faticato a lungo, e tutto ad un tratto, boom. Tutto andò a posto. In squadra avevamo talenti così diversi, Kupchak, Larry Wright, Johnson, e Greg Ballard uscivano dalla panchina, e ognuno di loro poteva essere un titolare importante in qualunque altra squadra. In quintetto, Henderson, Grevey, Dandridge, io e Unseld. E fra panchina e titolari, c’era un grande equilibrio». 

A metà marzo i Bullets giocano ancora con appena tre guardie nel roster (Johnson, Phil Walker e Wright, futuro play del BancoRoma di Valerio Bianchini) e a un certo punto (il 21) non ci sono abbastanza giocatori sani per fare uno scrimmage a tutto campo. 

Se Washington barcolla ma non crolla è anche merito del campo di casa, il Capital Centre, dove fino al 16-0 l’affluenza media scollina quota 12000 unità. Quando invece la squadra, falcidiata dagli infortuni, comincia a faticare, anche il cosiddetto fattore campo inizia a venire meno: dopo aver compilato il sesto miglior record casalingo, i Bullets perdono cinque delle ultime sette partite interne, comprese le quattro contro club che erano sotto il 50% di vittorie. 

A quel punto il 41-36 non basta per uno degli allora sei posti utili per i playoff della Eastern Conference. Washington deve vincere almeno una delle ultime cinque gare o sperare in una sconfitta di Atlanta. La svolta segue uno dei rari rilievi polemici fatti pubblicamente da Unseld alla squadra, che secondo lui «non stava facendo le cose che servono per vincere», aggiungendo che solo una persona (coach Dick Motta, nda) poteva cambiare certe pessime abitudini. 

L’indomani Unseld e Motta parlano per un’ora dei problemi della squadra. Nella partita successiva, il centro segna 25 punti (career high) nel successo interno per 125-119 su Los Angeles. Poi i Bullets vincono tre delle ultime quattro gare di regular season (a Boston e le due con i Sixers, in casa e fuori, primi a Est), chiudendo sul 44-38 buono per il terzo posto nella Eastern Conference. 

Motta ruota con regolarità dieci uomini (ma Chenier, gran tiratore in sospensione, salterà 46 partite per i soliti problemi alla schiena) e sembra aver trovato la quadra. 

Hayes (19.7 punti di media) e Dandridge (19.3) sono le prime opzioni offensive e i migliori marcatori della squadra. Il primo di solito segnava di più (era sceso sotto i 20 a sera solo nel 1976), ma aveva imparato a sacrificarsi per il collettivo e non a caso, cifre a parte, stava vivendo la sua miglior stagione. Pur partendo dalla panchina, Kupchak porta 15.9 punti per gara, non pochi per la riserva di Unseld. In doppia cifra vanno anche Grevey (15.5) e Henderson (11.1), la point guard titolare. 

I Bullets sciolgono ogni dubbio sulla loro consistenza già nel primo turno dei playoff spazzando via gli Hawks in due gare, 103-94 in casa e 107-103 all’overtime fuori (all’epoca il primo turno si gioca al meglio delle tre gare, nda). E la pur dura difesa di Atlanta si dimostra propedeutica per le sfide successive, a cominciare da quella con gli Spurs campioni divisionali del capocannoniere George Gervin (27.2). Può sembrare paradossale ma spesso le squadre incentrate su un grande realizzatore si battono meglio facendolo segnare e isolando il resto. Secondo il concetto per il quale un solista, per quanto grande, risulta più vulnerabile di un complesso di meno dotati ma affiatati coristi (vedi i Bulls del primo Michael Jordan), Motta non spreca tempo ed energie nella missione impossibile di contenere Iceman. Meglio fermarne i compagni, a cominciare dal secondo violino Larry Kenon (20.6). Il game plan non funziona in gara-1 (Gervin 35), vinta in casa dagli Spurs 114-103. Ma lo fa in gara-2, con i Bullets che espugnano San Antonio 121-117, rubando così il vantaggio del campo. Le squadre si erano equamente spartite gli scontri diretti di regular season e San Antonio, al secondo anno nella lega, non aveva ancora vinto sul campo dei Bullets. Il sortilegio sarebbe continuato. Washington si prende le due gare interne (118-105 e 98-95) e la serie torna in Texas sul 3-1 Bullets. Gli Spurs la riaprono in gara-5 (116-105). Gara-6, di nuovo a Washington, è la partita più strana della serie e forse della post-season. Prima la guardia degli Spurs Mike Gale smarrisce in aeroporto la divisa da gioco in uno scambio di bagagli perpetrato dalla compagnia aerea e quindi è costretto a indossarne, alla rovescia, una da trasferta. Poi, nel terzo quarto, con San Antonio avanti 62-61, le luci del Capital Centre si spengono per otto minuti. Quando il blackout finisce, comincia la vera partita dei Bullets, che conquistano l’accesso alla Finale di conference vincendo 103-100. 

Subito dopo la qualificazione dei Bullets, tale Nils Lofgren, chitarrista di Washington e futuro membro della E Street Band di Bruce Springsteen, incide come tributo alla squadra un orecchiabile motivetto dal titolo non proprio originale di Bullets Fever che, come a volte capita a canzoncine di poche pretese, diventa un successone. Ben presto entra nella playlist delle emittenti radiofoniche cittadine e ancora oggi fa bella mostra di sé nelle vecchie collezioni di dischi dei residenti nella zona. 

Ma la vera stranezza musicale, diciamo così, la scatena suo malgrado coach Motta con un estemporaneo commento rilasciato, alla fine di gara-5, a un inviato che gli chiedeva con insistenza come ci si sentiva a lottare per il titolo. Il coach riprese il parallelo fatto da un commentatore di una Tv di San Antonio (fra la serie e un’opera lirica, nda) e lo mixò con una frase che il padre di Motta ripeteva spesso: «The opera ain’t over until the fat lady sings». Una quisquilia, ne converrete, ma entrata di diritto nella letteratura del gioco. 

«Non fu una cosa voluta – spiega Motta – Un giovane cronista non faceva che chiedermi: “Come ci si sente a giocare per il campionato del mondo?”. E io: “Ancora non ci siamo arrivati”. Quello insisteva e allora per farlo star zitto gli dissi: “Come dice il mio vecchio, non è finita finché la cicciona non ha cantato”. Avevo una ventina di telecamere in faccia, e quando sono tornato a casa, quella sera, mia moglie mi ha detto: “Ragazzo mio, hai detto un sacco di stupidaggini in vita tua, ma questa le batte tutte”. Però, funzionò». 

Eccome. Nel giro di pochi giorni, Washington è invasa da T-shirt raffiguranti una rotonda signora bionda che suona il corno e canta vestita di bianco-rosso-blu, i colori dei Bullets. E al Cap Centre, uomini cresciuti non si vergognano di travestirsi da Fat Lady pur di incitare la squadra. 

Contro la favorita Philadelphia, i Bullets stupiscono tutti vincendo (122-117 al supplementare) 



Gara-1, dopo aver scialacquato un vantaggio di quattro punti negli ultimi nove secondi del quarto periodo e perso in quella frazione Unseld, infortunatosi a una caviglia. 

Trascinata da Caldwell Jones (11 stoppate) e Darryl Dawkins (11 rimbalzi), Philadelphia impatta la serie vincendo (110-104) una gara-2 molto fisica. «Non sentirete mai lamentarmi del gioco fisico – dirà nel dopopartita il contrariato Motta – Ma in campo ho visto un sacco di tiri cheap (più che facili, canestri segnati con mezzucci meschini, nda) e alle mie squadre non era mai capitato». 

I Bullets serrano le fila in gara-3, vinta agevolmente 123-108 grazie soprattutto a Dandridge, capace di tenere la stella Julius Erving a 12 punti e al contempo di segnarne lui 30. Sullo slancio Washington si porta sul 3-1 vincendo in casa anche gara-4 (121-105). La serie torna a Phila, dove i Sixers s’impongono 107-94 nonostante il rientro di Unseld. Il centrone è però decisivo nel finale di gara-6, arpionando il rimbalzo nato da un suo errore e andando a infilare quello che per molti resta il più drammatico tiro della sua sin lì decennale carriera: 122-117 e Sixers in vacanza. Dandridge vince 137-129 il duello con Erving nella serie, mentre Hayes guida i suoi nei punti (138), a rimbalzo (94) e nelle stoppate (20). I Bullets sono alla terza finale in otto anni e dopo aver imparato a perdere (male: 0-4 contro Milwaukee nel ’71, quando ancora erano a Baltimore, e Golden State nel ’75) è tempo di imparare a vincere. 

In finale Washington trova i SuperSonics, già battuti tre volte su quattro in regular season (111-109, punteggio invertito nel primo match a Seattle dopo un overtime, e 120-115 in casa, 106-100 fuori). Nelle ultime due serie post-stagionali Motta si era dovuto preoccupare di squadre molto simili ad autentici one man show, cioè legate alle lune di una stella (Gervin negli Spurs e Dr J nei Sixers), ma con i Sonics sarebbe stato diverso perché il loro punto di forza era il grande equilibrio, la capacità dell’intero quintetto di segnare e difendere. I Bullets appaiono più profondi di Seattle nel frontcourt, mentre forse concedono qualcosa negli esterni dietro, che si pensa faticheranno non poco a contenere le tre prolifiche guardie dei Sonics, DJ, Williams e Brown, che erano state fra i fattori principali nella grande stagione di Seattle e in particolare nel successo su Denver nelle Finali della Western Conference. 

Prima ancora che cominciasse si sapeva già che la serie per il titolo avrebbe avuto un diverso formato, il 1-2-2-1-1 anziché l’usuale 2-2-1-1-1. I Sonics (imbattuti al Center Coliseum da 20 partite) avevano il vantaggio del campo ma per via di un conflitto di calendario con uno show (assai poco) itinerante, dopo gara-1 a Seattle la serie si sarebbe trasferita al Capital Centre per due partite prima di far ritorno per altre due a The Emerald City, la Città dal verde smeraldo (dove era andato a vivere il mitico Dido Guerrieri, uno che aveva capito tutto). Le eventuali gara-6 e gara-7 si sarebbero giocate a Washington e a Seattle. 

La truppa di Wilkens vince (106-102) gara-1 grazie anche all’ottima difesa del 34enne Silas su Hayes e di John Johnson su Dandridge, tenuto a soli 6 punti (16 sotto la sua media), un gran lavoro difensivo cui JJ aggiunge 18 punti e 10 rimbalzi. A proposito di carambole, come spesso accade molta della differenza sta tutta lì: 57-35 Sonics. I Bullets, avanti anche di 19, avevano la partita in mano ma poi era salito in cattedra Brown con una fiammata da 16 punti (dei suoi 30 totali) negli ultimi nove minuti del quarto periodo. 

I ragazzi di coach Motta tornano a Washington, dove li attendono i velenosi media locali memori delle precedenti spazzolate subite dalla franchigia nelle due finali disputate e in campana per evitare il ter. E siccome Hayes, ancora una volta, nel quarto periodo era scomparso, era fin troppo facile farne il bersaglio grosso. Lui a sua volta se la prende con Unseld, che ha tirato talmente poco che a un certo punto i Sonics lo avevano lasciato da solo per andare a raddoppiare su altri. Il vero obiettivo di Hayes era però coach Motta, che non aveva dato più minuti a Kupchak, uno che non solo ci provava ma la metteva pure. 

Vincendo gara-2 (106-98) i Bullets spengono il fuoco delle polemiche prima ancora che divampi. Unseld, oltre a immolarsi in modo quasi commovente sul gigantesco Webster nel consueto lavoro oscuro, mette in fila 15 rimbalzi e 5 assist e in attacco piazza i soliti, monumentali, blocchi nel mezzo, specie su Silas, per liberare al tiro Hayes e Dandridge. Subito sotto di 16, i Sonics rimontano fino al -4 dell’intervallo. Nel terzo quarto approfittano dei problemi di falli di Hayes, mentre Unseld butta giù a spallate la frontline dei Sonics, lasciando – scriverà qualcuno – «Goldilocks and the Three Bears», come la chiamavano media e tifosi, senza porridge. E qui urgono ragguagli: il porridge è la farinata di fiocchi d’avena con latte o acqua, e il riferimento è alla favola Riccioli d’oro e i tre orsi, classico d’oltreoceano nelle recite scolastiche. Riccioli d’oro è Sikma, gigante con la faccia da bambino che all’epoca esibisce permanenti che sarebbe generoso definire imbarazzanti. I tre orsi (babbo, mamma e pargoletto) sono il già canuto Paul Silas (che quell’anno porta pure una barba assai ingrigita), Webster e l’ala piccola John Johnson, una specie di point forward ante litteram. 

Dandridge e Hayes riscattano l’opaca gara-1 segnando 34 e 25 punti. Henderson ne aggiunge 20, gran parte dei quali sfociati da penetrazioni. 

«Il nostro gioco è questo, Hayes e Dandridge svelti a uscire dal traffico» dice nel dopopartita Motta, comprensibilmente soddisfatto «Tutti sanno dove siamo diretti. Adesso devono solo provare a fermarci». 

Gara-2 era stata un po’ lo specchio della serie, con i Sonics che parevano destinati a soccombere sotto le plance. In gara-3, ancora al Cap Centre, provano allora a buttarla sull’intensità. A suonare la carica due leoni: il giovane DJ (23 anni), fortissimo sul perimetro, che stoppa 7 tiri e costringe Grevey a 1 su 14 al tiro; e il vecchio Silas, che chiude ogni varco alla prima linea dei Bullets, con Dandridge e Hayes che qualche giocata decente la tentano ma, specie nel finale, con la partita in equilibrio, proprio non riescono a farsi largo. 

Nonostante gli sforzi, ancora una volta Seattle per poco non rovina tutto negli ultimi 10 secondi. Avanti 93-90, Johnson spreca la rimessa servendo involontariamente Henderson che in sottomano deposita il -2 a 5 secondi dalla fine. Poi è Silas, uno dei migliori, a combinarla grossa. Sempre su una rimessa, anche lui regala la palla ai Bullets. I Sonics ripiegano in difesa e costringono Dandridge a mandare per aria una preghiera quasi dalla linea laterale. Il ferro non la esaudisce e Seattle sale sull’aereo in vantaggio 2-1. 

A nordovest, intanto, c’è aria di record. Gara-4 si gioca al Kingdome perché il Coliseum è occupato da un altro di quegli americanissimi show itineranti (ma ce lo vedete un San Siro o un Olimpico indisponibili per motivi analoghi?). I 39457 fedelissimi – all’epoca il massimo mai visto a una gara di playoff Nba – che quel pomeriggio stipano l’impianto a cupola valgono il nuovo record di affluenza per una Finale. I Sonics partono bene e guidano di 15 a un paio di minuti dalla fine del terzo quarto. 

A quel punto le ipercriticate guardie di Washington, in difficoltà nel primo tempo (chiuso sotto 43-15 con i pari ruolo) come all’inizio della serie, cominciano a invertire il trend negativo. 

Per i Sonics i guai iniziano quando DJ si becca una gomitata alle costole che lo costringe in panchina per quasi sei minuti. Dall’altra parte, con CJ (in serata al tiro), Wright, Kupchak e Dandridge in quintetto, i Bullets effettuano il sorpasso, 103-101, a 3 minuti e mezzo dalla fine. 

Intanto DJ rientra e sta talmente bene da chiudere a 33 punti, 7 rimbalzi e 3 stoppate. Poi, negli ultimi 180”, esplode: segna il pareggio, recupera palloni, stoppa il tiro di Dandridge, prende un rimbalzo offensivo e trascina i Sonics avanti 104-103 con un tiro dalla lunetta. Dandridge risponde con un gioco da tre punti che riporta al comando Washington, 106-104. Palla a Seattle che pareggia con uno dei classici downtowners di Brown. A 2” dalla fine, Dandridge ha una buona chance nel mezzo, ma la spreca facendosi stoppare da DJ. Ooooovertime. 

Nel supplementare, CJ – fondamentale, con Wright e Kupchak, nella rimonta Bullets – infila subito tre tiri, importantissimi nel 120-116 finale pro Bullets. 

Per quanto improbabile poteva sembrare, specie considerando l’affluenza-record presente a Seattle, Washington impatta la serie e lo fa nelle condizioni più difficili. 

Le prime quattro gare si erano decise nel quarto periodo (in gara-4 ce n’era voluto un quinto), e le ultime due addirittura all’ultimo tiro. Motta non ha un go-to-guy quindi si affida a chi di volta in volta dimostra di avere la mano più calda. E a fare la differenza sarà la maggior profondità dei Bullets, dote a lungo mancata durante la regular season. 

Per gara-5 si torna al Coliseum, e lì i Sonics, pur non avendo vita facile, non falliscono. Sulla scia dei 63 punti del trio Brown (26), D. Johnson (24) e Williams, Seattle si porta sul 3-2 vincendo 98-94 (decisivo il 10 su 13 dalla linea negli ultimi 4’). I Bullets pagano l’imprecisione dalla lunetta (solo 9 su 20 dalla linea nel secondo tempo) e vanificano la rimonta che li ha portati dal -11 al -2 con meno di due minuti da giocare prima che Sikma infilasse i tre liberi della staffa. 

Domenica 4 giugno si gioca a Washington gara-6, ma a Landover, Maryland, sembrano esserci solo i Bullets: 117-82. Sulle prime, a dire il vero, pare il contrario. Grevey ha un polso slogato, e il backcourt locale fatica non poco. 

Motta sposta allora Dandridge nello spot di guardia (un mezzo azzardo, considerata la poca esperienza dell’ex Bucks in quella posizione) e inserisce la matricola Ballard all’ala. 

La mossa produce un parziale che porta i Bullets sul +12 all’intervallo. Ma nel secondo tempo Washington segna 70 punti e in sei vanno in doppia cifra, mentre i Sonics perdono colpi, specie a rimbalzo: 69-49 per Unseld & C. 

Vedere quei vecchi marpioni (Hayes stellare: 21 e 15) sbattersi a tutto campo come indemoniati è uno spettacolo memorabile, e i più giovani non sono da meno: Kupchak chiude a 19 punti, Ballard a 12 più altrettanti rimbalzi. 

Dall’altra parte qualcuno non gradisce gli eccessi di entusiasmo. «Ho visto un sacco di sorrisi e di risatine laggiù» sibila D.J. indicando la panchina avversaria «Ma si va alla settima [partita] e saremo noi a giocarla in casa». 

Il 7 giugno, nell’ancora buio Center Coliseum (dove i Sonics non perdevano da 22 partite), Grevey prega: non per la pace nel mondo o per scongiurare eventuali infortuni, ma per vincere. «Non avevo mai vinto niente», ricorda la guardia/ala allora al terzo anno ai Bullets e nella Nba. «All’high school, ho perso la finale del campionato statale; al college (a Kentucky, nda), nel mio anno da senior, perdemmo contro Ucla alle Final Four. Non mi considero religioso, e non avevo mai chiesto davvero qualcosa prima, ma allora chiesi a Dio di farmi diventare campione, solo quella volta». 

Prima di gara-7 Unseld, che per tutta la serie ha francescanamente sopportato non solo i propri dolori fisici ma anche gli improperi e le frecciate lanciatigli dei compagni, fa una cosa per lui rara: parla. 

E lo fa alla Unseld, con un discorso pre-gara non certo audace – peraltro non nelle sue corde – ma che va dritto al punto. «Disse solo: “Voglio sapere chi ha voglia di giocare, stasera. Chi vuole vincerlo [’sto titolo]”» ricorda Dandridge. Un discorso che, nella sua semplicità, qualcosa deve aver pur fatto scattare se i Bullets guidano di otto all’intervallo e di undici nel quarto periodo. 

Per i Sonics (39% al tiro) l’intera gara è una discesa agli inferi, in particolare lo è per DJ, che sbaglia tutti i suoi 14 tiri dal campo e finisce con la miseria di 4 punti dopo averne fatti 19 di media nella serie. 

Gus Williams è appena più preciso, 4 su 12 su azione, ma anche qualche palla persa di troppo. Rispetto al mediocre rendimento offensivo del backcourt (13 su 44 nelle conclusioni), che pure aveva trascinato la squadra fino all’ultimo atto della postseason, il frontcourt salva la faccia grazie ai 27 punti (più 19 rimbalzi) di Webster e ai 21 di Sikma, gli unici a tenere Seattle in partita. Washington, che aveva gettato al vento un margine di 19 punti in gara-1, entra negli ultimi 12’ avanti di 13, poi ridotti a due lunghezze a 4’ dal termine. 

Con un parziale da 12-4 (e Webster e Sikma che segnano tutti i punti tranne uno), i Sonics si portano sul 98-94 a 1’45” dall’ultima sirena. A quel punto c’è il gioco da 3 punti che decide la serie. CJ, il cui tiro dalla lunga distanza ha tenuto in vita Seattle all’inizio del periodo, rilascia un jumper che non raggiunge il ferro. Il pallone sfugge dalle mani di Webster e di Sikma e rimbalza a terra. Henderson si tuffa, lo deviò tra le gambe di Webster, Kupchak lo afferra e va a segnare in layup mentre subisce fallo da Webster, rientrante in disperato recupero. Trasformando il tiro addizionale, Kupchak ricaccia indietro i Sonics (101-94 a 90” dalla fine) nel momento più critico. Brown, che finirà a 21 punti, ci prova ma converte solo un libero su tre, poi, dopo un errore di CJ, segna dai due metri e mezzo. I Sonics devono commettere fallo per fermare il cronometro e giocarsi una seppur minima chance di vittoria. Decidono di colpire Unseld, che dalla lunetta nei playoff ha tirato col 55 % scarso. Sikma sbriga la faccenda, e Unseld non arriva neanche al ferro. Tutto come prima, a 26” dallo scadere. 

Brown guida l’attacco dei Sonics e va per la soluzione personale dalla distanza: un jumper che arriva corto. Silas, che fin lì ha racimolato solo quattro punti, afferra il rimbalzo e deposita a canestro il pallone del 101-99 a -18” dalla resa. 

Motta strepita chiedendo il timeout nel quale togliere Unseld, vittima predestinata dell’altro fallo che terrebbe in vita i Sonics, ma nessuno lo sente. Rimessa Bullets e, nel giro di sei secondi, Silas afferra Unseld alle spalle a palla lontana. 

I 14008 invasati presenti sugli spalti inveiscono contro Unseld che in lunetta si appresta a eseguire i liberi, 14” dopo quei due errori consecutivi. Il primo prende il ferro e rimbalza fuori. I tifosi ondeggiano striscioni e gridano, se possibile, ancora più forte. Unseld (15 e 9) guarda la panchina e tira un profondo respiro: solo rete. Pochi istanti ancora e Dandridge chiude ogni discorso andando a schiacciare in contropiede il 105-99 conclusivo, mentre in sottofondo – neanche fosse la fat lady mottiana – deflagra il ruggito di Frank Herzog, lo speaker radiofonico dei Bullets. 

Per la franchigia, nata come Chicago Packers nel 1961 e alla quinta stagione in città dopo le 10 trascorse a Baltimore (4 titoli divisionali), era il primo successo. 

Un traguardo mai raggiunto prima nonostante grandi giocatori quali Walt Bellamy, Archie Clark, Gus Johnson, Jack Marin e il giovane Earl Monroe. 

Washington è l’ottava diversa squadra campione Nba in nove anni, e oltre all’anello si porta a casa i 150.000 dollari di premio destinati ai vincitori. 

Tra questi, c’è finalmente Hayes (12 punti e 8 rimbalzi), uscito per falli a 8’05” dalla sirena e quindi, ancora una volta, punzecchiato dai cronisti che, a differenza dei tifosi, mai lo hanno amato. Per loro, The Big E stava più che altro per The Big Enigma. 

«Possono dire quel che vogliono», sbotta tenendo il trofeo sotto il braccio e improvvisando un sorriso chissà quanto bonario. «Una cosa però dovranno dirla: E è campione del mondo. Indossa l’anello». 

Dodici anni dopo, Hayes torna con la memoria a quell’ultima, storica, trasferta stagionale. «Ricordo il volo per Seattle», dice, «e il pensiero andava a tutto ciò che avevamo passato in tutti quegli anni di Nba. 

Tutto si riduceva a una partita, quella per il titolo, e dopo averla vinta ricordo di aver provato una gioia che sarebbe durata 48 ore, una gioia pura, e la sensazione di aver compiuto una grande impresa. 

Aspettavo quel momento da 16 anni, da quando diventai giocatore, quel momento era arrivato e fu straordinario». 

Altrettanto straordinario, e non solo nel sopportare Hayes, fu l’intero roster. Per tutti i playoff, un giocatore diverso era emerso sugli altri per portare la squadra al turno successivo. 

Contro San Antonio, la crisi di Grevey al tiro era stata surrogata dagli 80 punti di Johnson nelle ultime quattro gare. Contro Phila, Wright vestì i panni di Henderson in regia e in più segnò 76 punti nelle ultime cinque. 

In gara-7 con i Sonics, fuori Hayes, dei 20 punti finali dei Bullets, 18 vennero da Kupchak (11 nel secondo tempo), Johnson, Unseld e Henderson, gran difensore e bravo a pilotare i suoi nel bollente finale. 

Di questi solo Johnson aveva segnato molto nei playoff, e anche in gara-7 garantì quel tiro da fuori perso con Grevey (6 punti nei primi 20’), fuori nel secondo tempo per dolori al polso sinistro. E poi c’era Unseld, degno Mvp della Finale, e totem dell’etica lavorativa se ne esiste uno, che per tutta la serie aveva distrutto i Sonics dentro l’area. 

E straordinario era stato Motta, festeggiato dai giocatori con una doccia di birra, evento a cui il coach era giunto preparato. «Indossai la più vecchia e più brutta giacca sportiva che riuscii a trovare», disse. «Sapevo che avremmo vinto, e non volevo ritrovarmi una delle mie giacche buone inondata di birra». 

La giacca si salva, la camicia no: gliela strappano via, rivelando così la T-shirt sotto, prodotta da un’azienda di Hyattsville, Maryland, e recante la celebre frase «The Opera Isn’t Over ’Til The Fat Lady Sings» con tanto di autografo dell’autore. 

«Sta cantando – grida Motta ormai birrato – Ragazzi, sta cantando!», e avrete già capito chi. 

Poi abbraccia il fido assistente Bernie Bickerstaff (futuro capoallenatore ai Charlotte Bobcats) a metà campo e a balzelli raggiunge il vicino stanzino dove avrebbe ritirato il trofeo di campione Nba. 


Il proprietario Abe Pollin, sopraffatto dall’emozione dopo 14 anni spesi a inseguire il titolo, riesce a stento a sussurrare solo un «incredibile...». 

Il primo giugno 1979 la vendetta, tremenda vendetta: i Sonics sbancano Washington 97-93 per vincere 4-1 l’unico titolo della loro storia. Anche lì, era destino. Avverso, però. 
CHRISTIAN GIORDANO

Finali Nba 1978 

Washington Bullets-Seattle SuperSonics 4-3 
Gara-1. Seattle-Washington 106-102 (1-0 Sonics) 
Gara-2. Washington-Seattle 106-98 (1-1) 
Gara-3. Washington-Seattle 92-93 (1-2 Sonics) 
Gara-4. Seattle-Washington 116-120 (2-2) 
Gara-5. Seattle-Washington 98-94 (3-2 Sonics) 
Gara-6. Washington-Seattle 117-82 (3-3) 
Gara-7. Seattle-Washington 99-105 (3-4 Bullets)


Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio