FOOTBALL PORTRAITS - Herr Hoeneß, il campione e il bandito
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di Christian Giordano ©
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4028BEA. Non è la matricola del più illustre fra i 109 detenuti a Rothenfeld, ma quello del suo ex conto segreto alla Bank Vontobel di Zurigo. E il motivo per cui Ulrich Hoeneß c’è finito, al Landsberg, ex convento riadattato a carcere di minima sicurezza, a 65 km a ovest di Monaco. Sette i capi d’imputazione, e tre anni e mezzo di reclusione per «un caso particolarmente grave di evasione fiscale», secondo il PM Achim von Engel, che di anni ne aveva chiesti due in più. E un totale di 28,5 milioni di euro sottratti al fisco. Cifra che il giudice Rupert Heindl ha ritenuto più precisa dei 27,2 «stimati per difetto», e comprovati in dibattimento, dall’ispettore delle tasse Gabriele Hamberger.
http://www.liberation.fr/sports/2014/03/07/uli-Hoeneß-dans-la-nasse-fiscale_985344
SCIATTO DI FORZA
Per ripianare a un paio d’anni di perdite, Uli aveva chiesto liquidità all’amico Robert Louis-Dreyfus, ex presidente dell’adidas ed ex azionista di maggioranza dell’Olympique Marsiglia. Louis-Dreyfus, deceduto nel 2009, gli aveva fatto da garante per un prestito di 25 milioni di marchi: 5 milioni cash (circa 2,56 milioni di euro) più 20 milioni in titoli. Denaro, parcheggiato in quel conto segreto, che a Hoeneß serviva per speculare in borsa; più che una seconda passione, per lui una vera ossessione. Per dire: a Bad Wiessee, località termale dove vive dal 2006, sul fondo della piscina ha fatto dipingere a mosaico un orso e un toro: nel gergo finanziario anglosassone il periodo “orso” (bear in inglese) si contrappone al periodo “toro” (bull); nel primo caso il mercato è al ribasso, nel secondo c’è un rialzo delle quotazioni.
FRA STERN E MERKEL
Ai primi di gennaio 2013 però, era stata la stessa Bank Vontobel a telefonargli per avvertirlo che il settimanale tedesco Stern ne aveva scoperto il conto segreto: «Qualcuno va in giro a fare domande stupide, almeno lo sai». Uli, furioso, doveva quindi muoversi, e in fretta.
Sabato 12 gennaio aveva fatto recapitare all’ufficio delle tasse di Miesbach, cittadina meridionale della Germania, una dichiarazione spontanea sulle sue pendenze fiscali. Nelle carte però qualcosa non quadrava. Trasferito il dossier all’ufficio del procuratore di Monaco, il primo febbraio 2013 era così scattata l’indagine per sospetta evasione fiscale. Il 20 marzo, alla sua villa in collina sul lago Tegernsee, gli agenti si erano presentati con un duplice mandato: di perquisizione e di arresto.
http://www.spiegel.de/international/germany/bayern-president-uli-hoeness-may-end-up-in-jail-for-tax-evasion-a-897474.html
VENDETTA PER BRENO
Dall’ambiente giudiziario era trapelato che gli investigatori avevano scelto la linea dura perché con Hoeneß c’era (almeno) un precedente. Il 24 settembre 2011 il non ancora 21enne Breno, difensore brasiliano del Bayern, era stato arrestato per aver appiccato il fuoco, dopo aver fatto il pieno di alcool, alla villa da lui affittata in periferia, a Grünwald.
Indignato per la severità adottata contro il suo giocatore poco più che adolescente, Hoeneß si era lanciato in una pubblica tirata contro le autorità: «Il PM di Monaco sta facendo un disastro. Spiccare un mandato di arresto contro un ragazzo completamente distrutto, e con la ridicola giustificazione che avrebbe potuto occultare delle prove – ma se neanche parla tedesco!». Intemerata di cui Uli poi si pentirà: «Il mio grande errore è stato attaccare l’ufficio del procuratore. Non la presero bene».
IL DESTINO ECCEZIONALE DI “JUNG SIEGFRIED”
Jung Siegfrid, il giovane Sigfrido: così era chiamato quando, come tutti gli eroi, il calciatore Uli Hoeness era giovane e bello; e trattandosi di mitologia germanica, inevitabilmente biondo, con occhi chiari e mascella volitiva. Come ha scritto Libération, Hoeneß è sempre stato una figura polarizzante, segnata da un «destino eccezionale, di quelli che i tedeschi adorano».
Figlio maggiore di un macellaio di Ulm, 120 mila anime che guardano il Danubio e dove il Baden-Württemberg è già quasi Baviera, Uli con i soldi dimostra presto di saperci fare: in negozio è lui, a star dietro ai conti. A differenza di papà Erwin e mamma Paula, che mai hanno voluto espandere la macelleria di famiglia, Uli è sempre stato «incredibilmente, quasi perdutamente ambizioso».
Se dal registratore di cassa mancavano 5 pfennig, il padre chiudeva il negozio finché non saltavano fuori. Uli invece sin da piccolo ha sempre pensato in grande. Al padre chiedeva di svegliarlo alle 5,30 per andare a correre prima di scuola, dove ovviamente fu subito capoclasse, gestì il giornalino d’istituto e superò brillantemente gli esami. Col calcio aveva cominciato nelle squadrette della sua città, prima l’Ulm poi il TSG Ulm 1846, e sui campetti. Di rado però sceglieva Dieter, più piccolo di un anno, perché lo riteneva troppo scarso. Da GM del Bayern, però, avrebbe cambiato idea.
Perdere era la peggior cosa che potesse capitargli. Prendeva ogni sconfitta come un affronto personale. A quindici, al TSG Ulm, disse a un compagno: «Guarda, gli altri sono fuori a bersi una birra, noi un giorno giocheremo nel Bayern».
Personalità? Debordante. A otto anni aveva disobbedito al prete che lo voleva accanto in processione e si era fatto cinquanta km in bici per raggiungere la sua squadretta, che sta perdendo 4-0. Uli entrò nella ripresa, segnò cinque gol e ribaltò la partita: 6-5. Ovvio capitano della nazionale Under 15, se giocava bene faceva in modo che la stampa locale ne desse ampio risalto. «Non c’è stato giorno in cui non mi abbia dato l’impressione di sapere che cosa volesse», dirà decenni dopo il suo allenatore dell’epoca. A 20 anni aveva già esordito, da titolare, in nazionale A (suo il 2-0 all’Ungheria nell’amichevole del 29 marzo 1972) e vinto l’Europeo. A 22, il mondiale. Nel palmarès col Bayern aveva già la Coppa di Germania, tre Bundesliga in fila e la prima di altrettante Coppe dei Campioni consecutive. Nel 1976 arriverà l’Intercontinentale (2-0 e 0-0 col Cruzeiro).
Nel gennaio 1970, compiuti i 18 anni, appena firmato (col sodale Breitner) per il Bayern, aveva telefonato al maggior quotidiano di Ulm perché pubblicasse la notizia. Subito dopo era alla guida di un’auto nuova fiammante. Lui però era diverso dagli altri calciatori. Giocava nel Bayern ma non lasciò gli studi: nel ’71 conseguì l’Abitur (la Maturità tedesca), ma anziché a economia s’iscrisse ai corsi per diplomarsi insegnante di inglese e storia. Abbandonò dopo due semestri per i troppi impegni calcistici ma così aveva mantenuto lo status di “dilettante” per partecipare all’olimpiade di Monaco ’72 nel suo Olympiastadion. La casa del Bayern, costruita per quei Giochi, prima dell’attuale, la Allianz Arena, costata al club 340 milioni, che sarà invece il suo fiore all’occhiello da dirigente.
Subito titolare nel secondo posto in campionato dietro il Borussia Mönchengladbach ma vincendo la Coppa di Germania (2-1 al Colonia), qualche mese dopo, annunciate le nozze con Susi, cedeva per 25 mila marchi (75 mila secondo Der Spiegel) i diritti per le foto del matrimonio e un’intervista esclusiva. La stagione successiva, in pochi mesi aveva venduto – e autografato a pagamento – trecentomila copie del libro sulla coppa del mondo appena vinta. Per una ditta di abbigliamento maschile aveva posato a torso nudo in pantaloncini (inaudito, all’epoca). E aperto metà della sua nuova dimora a un gruppo di turisti, con i quali si era fatto ritrarre in guanti da forno mentre serviva loro della Leberkäse, specialità bavarese di carne. Il tutto a neanche 23 anni.
Al Bayern aveva incontrato Franz Beckenbauer – il cui padre riteneva i calciatori troppo stupidi per risparmiare – e non pochi problemi. «La sua sfrontatezza non a tutti piaceva», raccontava il suo allenatore-mentore Udo Lattek. Sia il Kaiser sia Hoeneß si erano già promessi al Monaco 1860. Poi il Bayern aveva assunto Lattek, che i due avevano avuto nelle nazionali giovanili: e così il duplice voltafaccia cambiò la storia del calcio (non solo) tedesco.
Beckenbauer a volte si sentiva in dovere di prendere da parte il giovanotto per spingerlo a concentrarsi di più sul calcio, e redarguirlo per l’eccessiva “cocciutaggine”. Per farla breve, Hoeneß andava a genio a pochi, pure tra i compagni. Netzer una volta lo definì un «bandito». Successe a inizio 1974, quando, si narra, Hoeneß lo mise in ridicolo per farlo fuori dalla nazionale. Anche per questi aspetti fu quindi uno choc quando, a maggio 1979, il presidente del Bayern, Wilhelm Neudecker, lo nominò come rimpiazzo del business manager Robert Schwan. A 27 anni e quattro mesi, Uli divenne così il più giovane manager nella storia della Bundesliga.
«Misi una cravatta, mi diedero una scrivania e dopo tre ore non c’era altro da fare», così Hoeneß descrive il suo primo giorno da general manager in un club che, nella primavera del 1979, aveva debiti per 7 milioni di marchi. Un fardello pesante almeno quanto quello di un glorioso passato che pareva irriproducibile, con Beckenbauer ai New York Cosmos già da due anni e Müller pronto a raggiungerlo nella NASL (ai Fort Lauderdale Strikers). Da questo sfascio costruirò «un altro Real Madrid», confidò Uli all’amicone Breitner, che in merengue ci aveva giocato tre stagioni (due con Netzer) prima di rientrare al Bayern nel 1978, dopo un anno all’Eintracht Braunschweig.
FRATELLO SOLE
Nell’estate 1979 Uli prese dallo Stoccarda il fratello Dieter per appena 175 mila marchi. Fu il suo primo colpo e forse l’epitome della filosofia societaria agli inizi della sua gestione. Con giocatori limitati, poco costosi ma molto determinati, il Bayern anni 80 praticava davvero quel calcio noioso e controllato di cui, a torto, veniva accusato negli anni 70. In parte, era un segno dei tempi, ma quel calcio rifletteva anche il carattere di Hoeneß.
«NUOVO REAL MADRID»
Altro che «nuovo Real Madrid» confidato all’amico Breitner. Il Bayern veniva da oltre un decennio di calcio piuttosto grezzo. Una volta segnato un gol, la squadra – guidata dietro da un guerriero come Augenthaler – praticava un gioco difensivo, noioso, votato a mantenere il risultato. E appena in campionato si metteva in mostra qualche giovane talento, Hoeneß era il primo a soffiarlo alla concorrenza. Nei primi anni 90 il Karlsruher si piazzò stabilmente nelle prime posizioni, e uno dopo l’altro il Bayern gli portò via Michael Sternkopf, Oliver Kreuzer, Mehmet Scholl e Oliver Kahn, seguiti poi da Thorsten Fink e Michael Tarnat. Altra politica che certo non ti porta amici.
Un altro duro colpo alla competitività degli avversari Hoeneß lo aveva rifilato a inizio dicembre 1999. Firmò un accordo segreto con il gruppo Kirch, che all’epoca tramite le emittenti SAT.1 e Premiere trasmetteva le partite della Bundesliga. Nel 2000, davanti alla Commissione di Lega lo stesso Hoeneß aveva appoggiato l’offerta di Kirch. Un’esposizione tale da spingere lo studio legale Lovells a emettere un comunicato in cui si sottintendeva che i bavaresi, sotto Hoeneß, erano stati “comprati” dal gruppo Kirch.
Questo il manager che aveva fatto del Bayern il più importante club del paese, il dirigente illuminato capace di anticipare trend e sfide e diventare uno degli uomini più influenti di Germania, nel calcio e fuori. Per quanto preciso però, il ritratto non è completo. L’Hoeneß cuore di pietra, il freddo calcolatore interessato solo ai risultati (sul campo e a bilancio) è l’uomo pubblico che la massa conosce e spesso disprezza. In lui c’è però un altro lato, perché Uli del Bayern non è solo il cervello ma anche l’anima, il cuore, lo spirito. E tutto risale alle 19,45 di un maledetto mercoledì.
http://www.sueddeutsche.de/sport/karriere-des-uli-Hoeness-triple-sieger-im-gefaengnis-1.1655272-7
LA SCIAGURA DI HANNOVER
Il 17 febbraio 1982, Uli fu l’unico sopravvissuto dell’incidente aereo in cui perirono tre dei suoi migliori amici: Helmut Simmler, 35enne direttore editoriale della Copress di Monaco, il 30enne pilota Wolfgang Junginger, bronzo ai mondiali di sci alpino nel 1974, e il co-pilota Thomas Kupfer, studente 25enne. «Quel giorno il ragazzo solare che era in me morì», dirà in seguito, ma quelli che lo conoscono bene sostengono che a morire fu piuttosto l’egoista che c’era in lui.
Hoeneß era diretto a Hannover per assistere alla partita della Germania Ovest contro il Portogallo. Voleva vedere dal vivo in che condizioni era il suo vecchio compagno Breitner a pochi mesi dal mondiale e aveva invitato il presidente del Bayern, Willi Hoffmann. Hoffmann però, all’idea di volare con un bimotore a propulsore, aveva declinato. «In realtà volevo andarci – ricorda Hoffmann – ma poi rinunciai. Neanche Uli era sicuro di partire, aveva passato tutto il pomeriggio a discutere contratti con diversi giocatori e aveva deciso all’ultimo». Forse proprio perché aveva lavorato tanto, a differenza di Simmler si era sdraiato in coda per riposare. E quel pisolino gli aveva salvato la vita.
LA SALVEZZA NELLA CODA
Karl-Heinz Doppe, la guardia forestale che lo aveva salvato, non seguendo il calcio non lo aveva riconosciuto. Anzi, nemmeno sapeva chi fosse. «Quando mi dissero di chi si trattava, chiesi: “E chi è, Uli Hoeneß?”», ha raccontato a Die Welt (il Mondo). Da quel giorno Doppe ha preso l’aereo solo una volta, e per far contenta la consorte. Della volpe argentata appena cacciata che, scaldandolo, a Uli aveva salvato la vita, ne ha fatta una stola e l’ha donata alla moglie di Hoeneß «per ricordo. Senza di me, probabilmente il marito non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe morto d’ipotermia». Non essendo scoppiato l’incendio, e ormai nella piena oscurità, forse i quaranta soccorritori lo avrebbero trovato troppo tardi. Uli si era addormentato con la cintura di sicurezza slacciata, nell’impatto era stato sbalzato fuori e così si era salvato, cavandosela con nove giorni di ospedale, una commozione cerebrale, una lesione polmonare e fratture multiple alla parte destra del corpo. Da allora, se gli capita di volare con piccoli aeroplani, Hoeneß siede sempre in coda. A destra.
http://www.welt.de/sport/fussball/bundesliga/fc-bayern-muenchen/article112208385/Ein-Fuchs-als-Lebensretter-fuer-Uli-Hoeness.html
«WOHLFAHRTSORGANISATION»
Sotto la sua guida, il Bayern pian piano e spesso in segreto era diventato quello che lo scrittore Dietrich Schulze-Marmeling ha definito «Wohlfahrtsorganisation», una sorta d’istituto per il welfare sociale. Nessun altro club tedesco ha giocato più amichevoli per beneficenza e più si è prodigato per la raccolta fondi da devolvere ai bisognosi.
Da quando Markus Babbel se n’è andato al Liverpool sbattendo la porta, nel 2000, ha sempre ripetuto che mai avrebbe parlato male di Hoeneß: «Tra i top club in Europa, il Bayern è il più umano. Se c’erano dei problemi, si è sempre dimostrato generoso. Prendete Alan McInally, rimasto invalido (a un ginocchio) e senza assicurazione. Il club gli disse: “Ti daremo l’indennità di buonuscita”. Quei soldi non glieli dovevano, glieli donarono. Il nostro business manager è uno con cui di cose come queste si può parlare».
A fine 1987, il centravanti danese Lars Lunde ebbe un grave incidente stradale. Era chiaro che non avrebbe più giocato ai massimi livelli ma Hoeneß fece tutto ciò che poté per aiutarlo, e non solo finanziariamente. Per settimane se lo tenne in casa e avrebbe fatto qualcosa di simile parecchi anni dopo per aiutare Mehmet Scholl a guarire dalla depressione.
Hoeneß era stato anche la forza motrice nel recupero di Gerd Müller dall’alcolismo. Gli fissò il primo ricovero in un centro di disintossicazione e poi gli offrì un posto nelle giovanili nonostante i tanti lo avessero messo in guardia sulla presunta inaffidabilità dell’ex Der Bomber.
DER KOKAIN-AFFÄRE
Ma dello strapotere del Bayern e di Hoeneß c’era anche altro che a tanti in Germania non andava giù; ad esempio le ingerenze del GM in questioni generali del calcio tedesco, tipo la nomina del Ct. Nel 2000, esaurita la gestione-Erich Ribbeck, la federazione affidò la nazionale a Rudi Völler: contratto di un anno come traghettatore in attesa che dal Colonia si liberasse Christoph Daum.
Nel settembre 2000, un tabloid di Monaco pubblicò un articolo che gettava altro fango su Daum per una causa intentatagli da un ambiguo ex socio d’affari. L’articolo però conteneva una strana frase, lasciata un po’ a metà, che poteva essere interpretata come un legame tra Daum e l’assunzione di droghe. Nessuno le diede peso, ma il primo ottobre Hoeneß dichiarò che se un giornalista si permetteva di insinuare, senza essere smentito, che Daum si faceva di coca, «allora mi faccio delle domande. E se qualcuno portasse delle prove, non potrei ignorarle. Allora il signor Daum non potrebbe diventare l’allenatore della nazionale».
Hoeneß divenne il nemico pubblico numero uno. Fu fischiato e insultato in ogni stadio, e persino minacciato di morte. Daum professò innocenza ma basandosi sul principio che «è l’accusatore a dover dimostrare la colpevolezza dell’accusato». E rifiutò di sottoporsi al test del capello.
Tempo una settimana e cambiò idea, ma al test fu positivo. La mattina dopo, Daum s’imbarcò su un aereo per la Florida prima che la notizia della sua positività giungesse alla stampa. Mentre Daum era in volo, a Rudi Völler fu chiesto di prendersi carico, temporaneamente, anche del Bayer Leverkusen, che Daum allenava dal 1996. Non appena Völler si sedette in panchina a guardare il suo Bayer che batteva il Borussia Dortmund, si sapeva già che presto Rudi avrebbe lasciato il posto a un allenatore “da Bundesliga” (poi però il 12 novembre arrivò Berti Vogts); ma Rudi ormai era il Ct e lo sarebbe rimasto fino al 2004. Tutto questo a causa, anche, delle parole non dette di Hoeneß.
SENZA APPELLO
A volte quelle da lui invece pronunciate somigliavano tanto a sentenze. Inappellabili. Per referenze chiedere agli “ex” bavaresi Jürgen Klinsmann e, soprattutto, Lothar Matthäus, che nel 2000 perse la causa contro il club per la sua partita d’addio. Quando il pupillo di Beckenbauer sembrava in corsa per la panchina del Bayern, Uli lo gelò così: «Finché io e Rummenigge saremo in carica, (Matthäus) qui non troverà lavoro neanche come giardiniere nel nuovo stadio».
Per un uomo così potente e determinato, abituato a ottenere quel che voleva, sorprende ancora di più – ma forse solo a certe latitudini – che abbia rinunciato all’appello, suggerito invece dal suo pool di avvocati. Sul sito ufficiale il Bayern aveva emesso un comunicato in cui Hoeneß dichiarava che «dopo averne discusso con i miei familiari, ho deciso di accettare il giudizio della Corte Distrettuale di Monaco. E ho dato mandato ai miei legali di non ricorrere in appello, in linea con la mia idea di decenza, comportamento e responsabilità personali. Questa frode è stata il più grande errore della mia vita e posso solo accettare le conseguenze del mio stesso errore, di cui sono l’unico responsabile. Inoltre, con effetto immediato, per non danneggiare ulteriormente il club, mi dimetto dagli incarichi di membro del consiglio di sorveglianza e di presidente. Il Bayern è sempre stato la mia vita, e sempre lo sarà. Resterò in contatto con questo grande club e la sua gente in ogni altro modo possibile e finché vivrò. Con tutto il cuore ringrazio per il sostegno i miei amici e i tifosi».
http://www.wsj.com/articles/SB10001424052702304747404579443052407665492
«Nessuno è insostituibile – ha raccontato a Gabriele Marcotti nell’autunno 2010 in un’intervista poi ripresa nel marzo 2014 per The Wall Street Journal – Abbiamo lavorato tanto e siamo arrivati al punto di avere così tanti bravi collaboratori, che questo club può tranquillamente andare avanti con successo anche senza di me».
Scontata mezza pena (21 mesi) Hoeneß, che il 2 gennaio compirà 64 anni, tramite il suo avvocato Michael Nesselhau ha fatto richiesta per la libertà anticipata e a metà marzo 2016, due anni dopo le sue dimissioni, potrà uscire per buona condotta. «Mia san Uli». Nel toro e nell’orso.
Christian Giordano, Ultimo Uomo
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