Prologo - Gli anni Ottanta


https://www.amazon.it/FUGA-DAGLI-SCERIFFI-Saronni-ciclismo/dp/1087075408

di Simone Basso ©
IN FUGA DAGLI SCERIFFI ©
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni '80
RAINBOW SPORTS BOOKS ©, 176 pagine, 23 euro

Negli anni Ottanta lo sport, quasi tutto, visse il suo zenit. Il calcio di Maradona e Platini e il basket NBA più bello di sempre, l’ultima boxe dei semidei e l’atletica della Guerra Fredda, le rivalità feroci di sci alpino e tennis, la Formula Uno e il motociclismo che ancora appartenevano a piloti e centauri. 


Un decennio che parve infinito, cristallizzato nel suo splendore, a volte luciferino e con segnali evidenti dell’imbarbarimento prossimo. Credemmo, ingenuamente, che quella mirabile fusione fra evoluzione e tradizione potesse sopravvivere all’accelerazione spaventosa del postmoderno. 

Negli anni Novanta invece lo sport si è comportato come un fenomeno entropico: l’eccesso di tutto, denaro, pressione, prestazione, fama, lo ha trasfigurato in altro. 

Una trasformazione genetica che ha riguardato prima il carrozzone dei dirigenti, poi gli atleti e infine il nostro sguardo, disilluso, ma mai sazio di performance stellari. Non si vuole qui sostenere la superiorità etica ed estetica di quei gesti, ma rimarcare una differenza che oggi, per chi assistette a quell’epoca, calpesta una linea sottile, talvolta patetica, tra integrità morale e nostalgia. 

Il passare di quell’era del ciclismo fu come un salto inconsapevole di anni-luce, un’epopea che modificò il senso del tempo di questo sport: in due lustri ci si ritrovò ad ammirare un’altra dimensione della bicicletta agonistica. 

Per un attimo, illusorio ma favoloso, si visse in un equilibrio quasi zen, fra il rispetto religioso della tradizione – eredità di una storia mitologica – e l’approdo costruttivista sottolineato anche dall’esplosione verso nuove frontiere: a ovest le Americhe, a est l’universo Comecon, verso sud i primi vagiti dell’Oceania. Sul paesaggio eterno, preraffaellita, s’innestarono temi e soggetti di mondi nuovi. 

Come sempre, caratteristica ancora oggi dominante, il ciclismo, incosciente e beato, fu all’avanguardia. Per l’ennesima volta, nel bene e nel male, introdusse nello sport nuovi canoni. Successe con il primo vero professionismo e con la sindacalizzazione dello stesso; inventò l’epica e un lessico nuovo per meglio evidenziarlo. 

Conservatore nei costumi, estremizzò invece la sfida agonistica rielaborando un’idea della fatica e del dolore molto prossime a quelle dell’uomo comune. Fu dunque fenomeno pop già nella carne, oltre che nelle intenzioni. Portò il marchio e poi la sponsorizzazione industriale nel modus vivendi delle corse, infine abusò nella sperimentazione sul proprio corpo. Fu più godibile del precedente perché ne raccolse il testimone ma utilizzando mezzi diversi: il ciclismo, negli anni Ottanta, sfruttò il vantaggio tecnologico della tivù. Da quel momento divenne, oltre che epos narrato, testimonianza paesaggistica e umana irrinunciabile. 

Si comprese che quel rito, che dagli anni Sessanta con la motorizzazione era divenuto riserva indiana, aveva il privilegio di raccontare lo scibile umano e i suoi confini, geografici e sociali, in modo migliore rispetto agli altri sport. La cronaca di quei giorni, felicissima, s’innestò su una partecipazione corale dei campioni all’evento; eredi anche in questo della generazione merckxiana, ricrearono i nove mesi di duelli di quel ciclismo ma in uno scenario diverso; più evoluto e globalizzato, liberato dalla dittatura commerciale di pochi nomi, almeno al di fuori dei nostri confini. 

L’Italia, invece, si rinchiuse nelle sue alte mura medievali, coltivando un’idea provinciale del movimento. Comportandosi in maniera opposta rispetto alle scene che dominarono la contesa, soprattutto Francia e Paesi Bassi, l’attività tricolore abiurò progressivamente i confronti più scomodi. 

L’ambiente, sostenuto da media compiacenti e compiaciuti, divenne autarchico e autoreferenziale: l’occasione perfetta, per sfuggire alle frustrazioni, si verificò con la genesi spontanea ma non troppo di un duopolio di comodo. Moser e Saronni furono l’effetto-placebo perfetto per un ciclismo italico in grave crisi d’identità. 

Gli Ottanta nacquero prima della data convenuta e spirarono con il 1989. Furono esaltanti, tecnicamente poco sotto l’era più valida (quella dominata dai dragoni fiamminghi del Cannibale), e continuano a essere sottovalutati. 

Forse perché non unidirezionali e quindi meno semplici da raccontare rispetto alla retorica dei giganti del dopoguerra. Parecchio quarto potere vivacchia da decenni sugli avanzi di Coppi e Bartali, incapace di cogliere la ricchezza delle storie recenti. 
SIMONE BASSO ©
In fuga dagli Sceriffi ©
Rainbow Sports Books ©

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