MAESTRI DI CALCIO - Rehhagel, König Otto
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di CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo
Alla vigilia dell’Europeo portoghese un tedesco, diventato chissà come Ct della Grecia, si vantava in conferenza stampa che l’aver raggiunto la fase finale gli consentiva privilegi vietati ai comuni mortali. Per esempio, transitare con la propria auto nel centro di Atene sulle corsie preferenziali riservate agli autobus. Più che un oscuro segno della decadenza dei tempi, un chiaro segnale della mutevolezza degli umori del calcio; dopo le sconfitte nelle prime due partite del girone di qualificazione, Rehhagel doveva tornarsene a casa, meno di un mese dopo quella conferenza stampa, il privilegio è diventato «riuscire ad entrarci, ad Atene».
Facile, ad Europeo vinto (dalla Grecia!), dimenticare che cos’era la selezione ellenica prima dell’arrivo del nuovo “Kaiser” del calcio europeo (a proposito, una montatura le polemiche legate alla sua presunta auto-proclamazione avvenuta nello spogliatoio, e buone solo per l’ennesima “vierata” sulla virilità dell’incauto giornalista coinvolto, fulminato in quattro e quattr’Otto: «Se sei un uomo dimmi chi te lo ha detto»). Chi invece conosce i trascorsi del vecchio, ma tutt’altro che bollito, condottiero – «moderno è chi vince» dice convinto – si sorprende il giusto. Perché il “miracolo-Grecia”, come alcuni media, al solito superficialmente, lo dipinsero per settimane, di casuale aveva ben poco.
Otto Rehhagel nasce a Essen (Germania) il 9 agosto 1938. Il suo primo club “vero” è una squadra locale, l’Hellene, che lascia nel 1960 per trasferirsi a un’altra compagine cittadina, il Rot Weiß dove resterà tre anni. Le cose migliori però le ottiene difendendo i colori dell’Hertha Berlino (1963-65) e del Kaiserslautern (1966-72), prima che un incidente di gioco gli spezzi, a 34 anni, un ginocchio e la carriera di roccioso terzino destro o mediano (ruolo coperto nelle prime tre stagioni con i Diavoli rossi) di poca tecnica ma dalle discrete attitudini offensive (22 gol in 201 partite di Bundesliga).
Nell’aprile ’74, grazie soprattutto al buon passato agonistico, inizia la carriera di allenatore partendo dalla prima divisione, con i Kickers Offenbach, che chiudono il torneo al 10° posto. Dopo essere salito di altri due gradini alla sua prima stagione intera alla guida della squadra, nel dicembre ’75 lascia il club per passare, in febbraio, al Werder Brema. Il primo passaggio nella città-stato, che oggi costituisce il più piccolo Land della Repubblica federale, dura pochi mesi, il tempo di finire il campionato in 13ª posizione.
Il biennio successivo (1976-78) lo trascorre sulla panchina del Borussia Dortmund, che con lui al timone centra la 10ª e la 11ª piazza. In ottobre subentra allo slavo Milovan Beljin alla guida del modesto Arminia Bielefeld, che lo esonera prima di precipitare in seconda divisione come 16° e terzultimo classificato. Queste le parole di commiato del tecnico: «Almeno, grazie a me, adesso al campo di allenamento hanno la toilette»; un tormentone ricorrente in tutte le trasferte delle future squadre di Reehagel. Come l’anno precedente, anche nell’ottobre ’79 Otto cambia società. Stavolta va al Fortuna Düsseldorf, che con lui al timone naviga nella parte bassa della classifica (11° e 13° posto in Bundesliga), ma mette in bacheca la seconda Coppa di Germania consecutiva (2-1 al Colonia).
Il biennio successivo (1976-78) lo trascorre sulla panchina del Borussia Dortmund, che con lui al timone centra la 10ª e la 11ª piazza. In ottobre subentra allo slavo Milovan Beljin alla guida del modesto Arminia Bielefeld, che lo esonera prima di precipitare in seconda divisione come 16° e terzultimo classificato. Queste le parole di commiato del tecnico: «Almeno, grazie a me, adesso al campo di allenamento hanno la toilette»; un tormentone ricorrente in tutte le trasferte delle future squadre di Reehagel. Come l’anno precedente, anche nell’ottobre ’79 Otto cambia società. Stavolta va al Fortuna Düsseldorf, che con lui al timone naviga nella parte bassa della classifica (11° e 13° posto in Bundesliga), ma mette in bacheca la seconda Coppa di Germania consecutiva (2-1 al Colonia).
In dicembre Otto lascia il cuore finanziario, economico e industriale della Ruhr per giocarsi, a partire dalla stagione ’81-82, la seconda chance a Brema dove per 14 anni si confermerà uno dei migliori allenatori del Paese. Con il suo arrivo, il Werder entra stabilmente fra le grandi del calcio tedesco. Oltre alla quinta piazza nella stagione d’esordio, nell’83-84 e nell’86-87, il club centra un’incredibile quanto crudele sequela di secondi posti: tre in cinque stagioni tra l’82-83 e l’86-87, per differenza reti alle spalle di Amburgo (+46 contro +38) e, due volte, Bayern Monaco (primo per 4 punti nell’84-85; per il computo dei gol, +51 contro +42, l’anno dopo). L’agognata vittoria in Bundesliga arriva nell’87-88, restituendo la cortesia: quattro punti di vantaggio sui “soliti” bavaresi.
Dopo il terzo posto dell’89 e il 7° del ’90, nel 1991 insieme a un altro terzo posto in campionato ecco la Coppa di Germania (la seconda per Rehhagel), successo arrivato battendo in finale di nuovo il Colonia, stavolta per 4-3, e replicato nel 1994 (3-1 al Rot Weiß Essen, squadra nella quale aveva militato da giocatore). Il 91-92 è l’anno del trionfo europeo, in Coppa delle Coppe. I tedeschi eliminano i rumeni del Bacau, gli ungheresi del Ferencváros, i turchi del Galatasaray e i belgi del FC Bruges prima di piegare, con le reti di Klaus Allofs e Winton Rufer, i francesi del Monaco nella finale di Lisbona, gara disputata però al “vecchio” Da Luz. In quello ristrutturato, 12 anni dopo, Rehhagel scriverà la storia come Ct della Grecia per la prima volta campione d’Europa.
Nel 1996, corona invece il sogno di guidare la grande per antonomasia del fussball teutonico: il Bayern Monaco. Ma con una rosa imbottita di campioni in perenne contrasto tra loro (Kahn in porta; l’ultimo Matthäus, libero part-time in lotta con Helmer per la maglia da titolare; Strunz, Babbel, Hamann e Ziege in concorrenza in difesa; Zickler, Scholl, Sforza, Herzog, Nerlinger a centrocampo; Kostadinov, Klinsmann e Papin in attacco), il tecnico subisce l’ammutinamento dei senatori.
Anche se centra la finale UEFA (contro il Bordeaux di Lizarazu, Zidane e Dugarry), il 28 aprile, a soli quattro giorni dalla gara di andata, viene esonerato. In panchina va il monumento nazionale, nonché presidentissimo del club, Franz Beckenbauer, che vincerà il trofeo che Otto si era guadagnato fino al penultimo atto eliminando il Lokomotiv Mosca, gli scozzesi del Raith Rovers, il Benfica, il Nottingham Forest e il Barcellona. In campionato, quel Bayern All-Star chiuderà al secondo posto, 6 punti dietro il Borussia Dortmund che bissava il titolo strappato per un punto (49-48) al Werder di Rehhagel, secondo per la quarta volta.
Anche se centra la finale UEFA (contro il Bordeaux di Lizarazu, Zidane e Dugarry), il 28 aprile, a soli quattro giorni dalla gara di andata, viene esonerato. In panchina va il monumento nazionale, nonché presidentissimo del club, Franz Beckenbauer, che vincerà il trofeo che Otto si era guadagnato fino al penultimo atto eliminando il Lokomotiv Mosca, gli scozzesi del Raith Rovers, il Benfica, il Nottingham Forest e il Barcellona. In campionato, quel Bayern All-Star chiuderà al secondo posto, 6 punti dietro il Borussia Dortmund che bissava il titolo strappato per un punto (49-48) al Werder di Rehhagel, secondo per la quarta volta.
A 58 anni, Rehhagel sembra un tecnico, se non finito, di sicuro in parabola discendente, invece il futuro gli riserverà ancora (almeno) due clamorose impennate. La prima è al Kaiserslautern (appena retrocesso eppure vincitore della Coppa nazionale), che in due anni porta dalla Zweite Bundesliga, la seconda divisione, alla promozione (10 punti di distacco sul Wolfsburg) e addirittura al titolo di campione di Germania con due lunghezze di vantaggio sui rivali di sempre, il Bayern Monaco. Dopo due quinti posti, nella stagione 2000-01, che il club chiuderà all’ottavo posto, arriva l’ennesimo esonero di una carriera piena di alti e bassi. Il duro, “superato” Rehhagel, ormai, sembra buono al più come seconda voce per la Tv. Niente di più sbagliato.
Nell’agosto 2001 la Grecia, già eliminata dalla corsa al mondiale nippocoreano, gli affida la panchina. Per il tedesco «bravo solo in patria» è la prima esperienza all’estero. Voluto a tutti i costi dal presidente federale Vassilis Gagatsis, stanco dell’omonimo Daniil da lui ritenuto troppo morbido, Rehhagel parte col piede sbagliato: 1-5 esterno con la Finlandia il 5 settembre. Ma il 2-2 in Inghilterra del 6 ottobre lascia intuire che la strada intrapresa è quella giusta, anche perché gli albionici arpionano pareggio e qualificazione per il rotto della cuffia, con la punizione-gioiello di Beckham che al 93’ evita loro lo spareggio (con l’Ucraina) che tocca invece alla seconda del Gruppo 9, la Germania.
Il 2002 greco è pieno di luci e ombre: promettenti successi in amichevole, seguìti da due sconfitte consecutive in match di qualificazione a Euro2004: 0-2 in casa con la Spagna (arbitrò Markus Merk, dentista di Kaiserslautern e vecchia conoscenza di Otto, forse uno dei suoi 5000 pazienti: perché nessuno ebbe da ridire?) e in Ucraina. La stampa ellenica parlava già di «Mission Impossible», ma poi le 6 vittorie consecutive (senza subire gol) in meno di un anno, compreso il doppio 1-0 nel retour-match con iberici e ucraini, spalancheranno agli uomini di Rehhagel le porte della fase finale in terra portoghese.
In una squadra dal grandissimo collettivo, ma priva di stelle (l’unica, forse solo potenziale, Vassilis Tsiartas, ha giocato col contagocce), logico che ne trovi una nel comandante, il primo artefice della storica impresa di portare al titolo europeo una Nazionale anarchica, indolente e litigiosa, che non aveva mai vinto una partita né agli Europei né ai Mondiali. E che deve all’insistenza del suo nuovo Ct, un tedesco, il fatto di avere finalmente un centro tecnico federale (costato 2,5 milioni di euro) dove radunarsi.
«Quando sono arrivato – ripete sempre Rehhagel, maestro di tattica e gran motivatore – i giocatori facevano quello che volevano, adesso fanno quello che devono». Chi “sgarra” paga, come l’ex interista Grigorios Georgatos, lasciato a casa, assieme ad altri che forse avrebbero meritato la convocazione (Anastasiu dell’Ajax e Zikos del Monaco su tutti), ma che evidentemente non ritenuti pronti o adatti alla missione diventata, col tempo, non solo possibile, ma compiuta. «Se uno lavora con un gruppo di trenta professionisti, è impensabile che ognuno possa fare quello che gli pare.
I greci, nel calcio, sono sempre stati grandi individualisti. Io ho cercato di fargli capire che l’unica maniera di farcela, di esistere, era quella di essere una Squadra». Più forte degli screzi interni (fra Tsiartas e Nikolaidis, membro di una fantomatica cordata che vorrebbe l’AEK: risolta spedendo entrambi in panchina), delle ingerenze politiche dei grandi club della capitale (lo stesso, AEK, Olympiacos e Panathinaikos) che pretendevano una quota fissa di propri giocatori e subito liquidati: «Con me, giocano i migliori: questa è una squadra, non un partito». E a proposito di partiti, anche l’apparato da Politburo che prima gravitava attorno alla Nazionale, da Rehhagel in poi è stato potato come un bonsai a primavera.
I greci, nel calcio, sono sempre stati grandi individualisti. Io ho cercato di fargli capire che l’unica maniera di farcela, di esistere, era quella di essere una Squadra». Più forte degli screzi interni (fra Tsiartas e Nikolaidis, membro di una fantomatica cordata che vorrebbe l’AEK: risolta spedendo entrambi in panchina), delle ingerenze politiche dei grandi club della capitale (lo stesso, AEK, Olympiacos e Panathinaikos) che pretendevano una quota fissa di propri giocatori e subito liquidati: «Con me, giocano i migliori: questa è una squadra, non un partito». E a proposito di partiti, anche l’apparato da Politburo che prima gravitava attorno alla Nazionale, da Rehhagel in poi è stato potato come un bonsai a primavera.
La “sua” Grecia, Squadra, lo è stata anche perché ha saputo cambiar pelle durante il torneo (battere 1-0 in fila Francia, Repubblica Ceca e Portogallo richiede capacità camaleontiche fuori del comune) e nel corso della gara. A differenza del match contro i francesi (Seitaridis su Henry e stop), purosangue un po’ bolsi, per domare i riottosi puledri cechi gli ellenici hanno marcato a uomo quasi ovunque e per tutta la partita: Seitaridis-Baros e Fyssas-Poborsky sulle corsie esterne, Kapsis (figlio d’arte, il padre Anthimos disputò l’europeo italiano dell’80) su Koller al centro, Katsuranis su Nedved (poi Smicer) anche al bagno, capitan Zagorakis sulle piste di Rosicky. In finale, la Grecia torna a zona, seppure non integrale e con tanto di libero (Dellas, troppo lento per giocare in linea): Cristiano Ronaldo e Figo si scambiano le fasce, Seitaridis (a destra) e Fyssas (a sinistra), deputati al loro controllo, invece no; al centro, davanti a Dellas e dietro a Katsuranis che spegne il più brutto Deco dell’anno, Kapsis s’incolla alla parodia del centravanti che fu Pauleta.
A Rehhagel & C. gira anche tutto giusto; dopo la non impeccabile semifinale di Collina (come notizia, l’uomo che morde il cane), ecco il secondo jolly: il settepolmoni Basinas che, nella linea mediana a tre con Zagorakis (esemplare), disposti a zona come contro i Blues, fa “galleggiare” Maniche, estraniandolo dalla partita. In avanti, Vryzas prima punta apre spazi per il saltatore Charisteas e per gli sporadici inserimenti dalle retrovie (Giannakopulos, tornato titolare in luogo dello squalificato Karagunis). Un Ct così, i tedeschi, nemmeno sapevano di averlo e ora lo vorrebbero alla guida della Nationalmannschaft per il mondiale casalingo del 2006. Troppo tardi. In Tv lui canta (per scherzo, ma lo canta) l’inno nazionale greco, in Grecia il ministro per l’Ordine pubblico, Georgios Voulgarakis, dopo il successo sulla Francia ha addirittura proposto «di farne un cittadino greco, perché greca è la sua anima».
A Rehhagel & C. gira anche tutto giusto; dopo la non impeccabile semifinale di Collina (come notizia, l’uomo che morde il cane), ecco il secondo jolly: il settepolmoni Basinas che, nella linea mediana a tre con Zagorakis (esemplare), disposti a zona come contro i Blues, fa “galleggiare” Maniche, estraniandolo dalla partita. In avanti, Vryzas prima punta apre spazi per il saltatore Charisteas e per gli sporadici inserimenti dalle retrovie (Giannakopulos, tornato titolare in luogo dello squalificato Karagunis). Un Ct così, i tedeschi, nemmeno sapevano di averlo e ora lo vorrebbero alla guida della Nationalmannschaft per il mondiale casalingo del 2006. Troppo tardi. In Tv lui canta (per scherzo, ma lo canta) l’inno nazionale greco, in Grecia il ministro per l’Ordine pubblico, Georgios Voulgarakis, dopo il successo sulla Francia ha addirittura proposto «di farne un cittadino greco, perché greca è la sua anima».
Visto e rivalutato con gli occhi di adesso, il trionfale cammino cominciato nelle eliminatorie e finito (per ora) al nuovo Da Luz di tutto sa tranne che di miracolo. Del resto, a differenza del can-can mediatico, il campo non mente mai. Ed è lì che König Otto, orgogliosamente in polo e tuta, regna sovrano.
CHRISTIAN GIORDANO
Guerin Sportivo
Guerin Sportivo
OTTO VOLATO
Alla vigilia della finale di Lisbona, lo hanno descritto come «un imbianchino chiamato a dipingere il capolavoro della storia», dimenticando però che mastro Rehhagel, in carriera, ha mietuto successi anche esponendo autentiche “croste”.
La tela dipinta in Portogallo, ancora fresca, è la più illustre, ma forse non la più difficile. Nel lungo (14 anni) e fortunato ciclo a Brema, re Otto aveva trasformato un club di secondo piano, il Werder, in una superpotenza in patria (due vittorie in Bundesliga, altrettante in Coppa di Germania) e in Europa (Coppa delle Coppe 1991-92).
Non a caso, nei quarti di Coppa dei Campioni 1988-89 seppe mettere in serissima difficoltà persino il Milan stellare di Sacchi, qualificato grazie al generoso rigore nel ritorno a San Siro dopo lo scippo del gol buono non visto al Weserstadion. Non aveva fuoriclasse (la critica gli imputa di non saperli gestire: e al Bayern andò così), ma ottimi giocatori quali il norvegese Rune Bratseth dietro, il mediano Miroslav (Mirko) Votava e l’interno Frank Neubarth nel mezzo, Klaus Allofs e il neozelandese Wynton Rufer (più, dall’82-83 all’86-87, Rudi Völler) là davanti.
Al Kaiserslautern, portato in due stagioni dalla Zweite Bundesliga al titolo di campione di Germania 97-98 (nonostante i dissidi con l’invasivo Ds Hans-Peter Briegel), poteva contare sullo svizzero Ciriaco Sforza, regista tutto fosforo ma dalla lentezza proverbiale, sul’asse straniero Marian Hristov e Everson Rodrigues Ratinho (entrambi a lungo indisponibili, prima il bulgaro poi il brasiliano), sull’Under 21 Marco Reich e su un manipolo di giocatori retrocessi due anni prima: il portiere Andreas Reincke (rincalzo del ceco Petr Kouba, infortunato); i difensori Axel Roos, Harry Koch e il ceco Miroslav Kadlec; il vecchio jolly difensivo Roger Lutz; Andreas Brehme, schierato da esterno di centrocampo ma ormai a fine carriera; l’ala sinistra Martin Wagner (ex nazionale ma sotto tono come il centravanti Pavel Kuka, anche lui ceco, rimasto controvoglia dopo la discesa fra i cadetti), la “torre” ex DDR Olaf Marshall e l’attaccante di scorta Jürgen Rische. Quello sì fu un miracolo calcistico, altro che la Grecia di Euro2004. (chgiord)
La tela dipinta in Portogallo, ancora fresca, è la più illustre, ma forse non la più difficile. Nel lungo (14 anni) e fortunato ciclo a Brema, re Otto aveva trasformato un club di secondo piano, il Werder, in una superpotenza in patria (due vittorie in Bundesliga, altrettante in Coppa di Germania) e in Europa (Coppa delle Coppe 1991-92).
Non a caso, nei quarti di Coppa dei Campioni 1988-89 seppe mettere in serissima difficoltà persino il Milan stellare di Sacchi, qualificato grazie al generoso rigore nel ritorno a San Siro dopo lo scippo del gol buono non visto al Weserstadion. Non aveva fuoriclasse (la critica gli imputa di non saperli gestire: e al Bayern andò così), ma ottimi giocatori quali il norvegese Rune Bratseth dietro, il mediano Miroslav (Mirko) Votava e l’interno Frank Neubarth nel mezzo, Klaus Allofs e il neozelandese Wynton Rufer (più, dall’82-83 all’86-87, Rudi Völler) là davanti.
Al Kaiserslautern, portato in due stagioni dalla Zweite Bundesliga al titolo di campione di Germania 97-98 (nonostante i dissidi con l’invasivo Ds Hans-Peter Briegel), poteva contare sullo svizzero Ciriaco Sforza, regista tutto fosforo ma dalla lentezza proverbiale, sul’asse straniero Marian Hristov e Everson Rodrigues Ratinho (entrambi a lungo indisponibili, prima il bulgaro poi il brasiliano), sull’Under 21 Marco Reich e su un manipolo di giocatori retrocessi due anni prima: il portiere Andreas Reincke (rincalzo del ceco Petr Kouba, infortunato); i difensori Axel Roos, Harry Koch e il ceco Miroslav Kadlec; il vecchio jolly difensivo Roger Lutz; Andreas Brehme, schierato da esterno di centrocampo ma ormai a fine carriera; l’ala sinistra Martin Wagner (ex nazionale ma sotto tono come il centravanti Pavel Kuka, anche lui ceco, rimasto controvoglia dopo la discesa fra i cadetti), la “torre” ex DDR Olaf Marshall e l’attaccante di scorta Jürgen Rische. Quello sì fu un miracolo calcistico, altro che la Grecia di Euro2004. (chgiord)
La scheda di OTTO REHHAGEL
Nato: 9-8-1938, Essen (Germania)
Ruolo: terzino destro/mediano
Club da giocatore: Hellene Essen (-1960), Rot-Weiss Essen (1960-63), Hertha Berlino (1963-65), Kaiserslautern (1966-72)
Presenze (reti) in Bundesliga: 201 (22)
Club da allenatore: Kickers Offenbach (1974-75), Werder Brema (1976), Borussia Dortmund (1976-78), Arminia Bielefeld (1978-79), Fortuna Düsseldorf (1979-dicembre 1980), Werder Brema (1981-95), Bayern Monaco (1995-96), Kaiserslautern (1996-2000)
Nazionali da Ct: Grecia (2001-)
Palmarès da allenatore: 3 Bundesliga (Werder Brema, 87-88 e 92-93; Kaiserslautern, 97-98), 3 Coppe di Germania (Fortuna Düsseldorf, 79-80; Werder Brema, 90-91 e 93-94), Coppe delle Coppe (Werder Brema, 91-92), 1 Coppa UEFA (Bayern Monaco, 95-96).
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