Perché Sanremo è Sanremo
Sabato 8 agosto 2020 in Liguria ma non troppo, il minimo indispensabile, si disputa la Milano-Sanremo più improbabile di sempre.
La Classicissima dei Fiori, per una volta agostana, è riuscita a ricomparire nel calendario malgrado il Covid-19: si temeva lo stop, il primo dalla Seconda guerra mondiale.
Un 2020 che di cose da raccontare ne avrebbe troppe, anche e solo (...) di sport e ciclismo.
La Milano-Sanremo nacque quasi per scommessa nel 1907, dopo il fallimento di una competizione automobilistica, e potremmo definirla (fin dalle prime pedalate) ammalata di fregolismo.
La Classicissima è sempre stata un rebus difficile da interpretare: ha vissuto di tali trasformazioni nella sua storia da divenire, a dispetto del chilometraggio fachiresco, un enigma beckettiano.
“Chi osservi una fotografia delle strade sulle quali un tempo si correva la Milano-Sanremo non può che rimanere sgomento: carreggiate, mucchi di ghiaia quasi in mezzo l’arteria a ostacolare maggiormente il già difficile procedere, pietre aguzze sparse ovunque e polvere, polvere come solo se ne potrebbe trovare oggi in una cava di calce…”.
Bastano quattro righe vergate da Rino Negri (nel 1954) per fotografare la situazione: la Sanremo muta, imprevedibile, come la stagione primaverile che annuncia(va) con il suo passaggio.
Non è la Parigi-Roubaix, che parte da Compiègne per rinnovare il rito sadico e primitivo del pavé e che si è trasformata in un ciclocross folle a sud del Velodromo.
Nel 1960 introdussero, per sparigliare il poker dei Rik Van (Steenbergen e Looy) fiamminghi con Miguel Poblet, il Poggio. Rassegnati all’idea che il Turchino, con l’asfalto, fosse ormai un Passo panoramico o poco più.
Fu dell’82 la novità della Cipressa, altro dente promosso per setacciare il gruppone che sfreccia (pericolosamente veloce) sull’Aurelia: eppure lo svolgimento della corsa dei fiori fu sempre metafisico.
Potremmo avanzare una sentenza certa, l’unica snocciolabile sul suo fascino perverso: il vento e la pioggia, soprattutto quest’ultima, modificano (modificavano) lo standard agonistico.
L’acqua, da tempo immemorabile, privava i velocisti della certezza di un arrivo a ranghi (quasi) compatti. Perché rende ostica la protezione degli stessi nella placenta del gruppo ed espone tutti al rischio nei tratti più insidiosi.
In primis la discesa della Cipressa con quella serie arabesca di curve che, nel 1984, concluse la carriera di un drago come Jan Raas.
Con l’asterisco del 2013, un’edizione estrema, da tregenda: tre ore sotto la neve, il resto freddo e pioggia a catinelle. Ci furono degli agonisti da divano, al calduccio, che se la presero per il trasferimento in bus (di quel rimaneva del gruppo) in Riviera.
La realtà è che quel dì alcuni corridori rischiarono l’ipotermia: vinse il lupo Gerard Ciolek, davanti all’orso Fabian Cancellara, con Peter Sagan (stravolto) alla prima puntata di una saga sbilenca con una corsa che parrebbe disegnata per lui, ma che – puntualmente – sfugge al suo palmarès.
Questa edizione con lo zero ci impone il ricordo di annate storiche.
Nel 1950, il quasi trentaseienne Gino Bartali batté clamorosamente allo sprint un plotone con Fiorenzo Magni e Rik Van Steenbergen.
Vent’anni dopo si interruppe il digiuno italiano (diciassette anni di vittorie forestiere...) grazie a un numero eccezionale di Michele Dancelli, spirito libero che suggellò una carriera matta.
Il 1990 fu la volta di Gianni Bugno: Eolo selezionò la truppa prima del Turchino e rimasero fuori dai giochi Sean Kelly e Laurent Fignon. Il monzese andò via con Angelo Canzonieri dopo Imperia e si isolò sulla Cipressa: gli inseguitori, malgrado il vantaggio esiguo, non riuscirono a riprenderlo. La media, quasi 46 km orari, testimoniò la battaglia e la tramontana che sospinse i corridori in Riviera.
La grandezza ingestibile della Sanremo sta anche nell’albo d’oro, a dispetto della noia regale di alcuni approcci al Capo Berta o del tatticismo esasperato: sontuoso, sacro, nello scorrere i nomi di quei semidei della bicicletta.
I due specialisti (sic) massimi furono Costante Girardengo e Eddy Merckx, entrambi idealmente a sette scalpi: l’omino di Novi infatti fu squalificato dopo aver dominato nel 1915.
A Porto Maurizio imboccò il budello del centro storico, invece che la strada della corsa, tagliando qualche centinaio di metri di percorso. La giuria alla sera, dopo il reclamo presentato dal secondo arrivato (Ezio Corlaita), gli tolse la vittoria.
Solo un animale speciale come l’orco fiammingo riuscì a sorpassarlo: se i corridori da Sanremo, quelli veri, sono purosangue, Eddy fu Ribot all’ennesima potenza.
La vinse in tutte le maniere possibili e immaginabili: tra la volata al cardiopalma, bimbo ventunenne, del 1966 e la fuga a due, dittatore al tramonto, del 1976 c’è un’immensità che descrivere non sapremmo.
Nel menu sciorinato dal Cannibale altri due sprint di gruppetto, nel 1967 promosse l’azione nella discesa del Capo Berta e nel 1975 rinvenì sui fuggitivi: punì sceriffi tricolori in entrambi i casi. Gianni Motta, Franco Bitossi e Felice Gimondi nella prima occasione, Cecco Moser nella seconda.
Sfruttò il Poggio come nessun altro nella mitologia sanremese, scattando in salita (1971 e '72) o volando in discesa (1969): fu semplicemente Merckx, uno dei non plus ultra atletici del Novecento.
L’evo (benedetto) del Passaporto Biologico di queste stagioni ha chiuso il cerchio di quello, maledetto, di Robosport.
Se prima le soluzioni soliste (Beppe Saronni ’83, Francesco Moser ’84 eccetera) erano controbilanciate dagli sprint quasi affollati (Roger De Vlaeminck ’79, Pierino Gavazzi ’80), con l’esaltazione del ciclismo cyberpunk si passò a performance sbalorditive, assolute in termini di watt: Giorgio Furlan e la Gewiss padrona del ’94, Laurent Jalabert (contro Maurizio Fondriest) la primavera seguente nel ’95.
Per trasformarsi, progressivamente, nel limbo del velocista resistente: come insegnarono Erik Zabel (1997-98, 2000-01) e Oscar Freire (2004, 2007, 2010).
Il contrappasso è che, nella bici pro' contemporanea, si è ritornati alle soluzioni miste (...): le volatone (John Degenkolb ’15 e Arnaud Démare ’16) si alternano ai colpi di classe, di stecca, come quello di Vincenzo Nibali sul Poggio nel 2018. Un numero alla Fignon.
E lo sprint tra Sagan, Michal Kwiatkowski e Julien Alaphilippe l’anno precedente (2017), una roba per palati finissimi (si impose Kwiato, beffando lo slovacco)…
Il ’20 riaggiornerà lo standard.
La stupidità dei sindaci savonesi, una conferma, considerando quanto sia amministrata male la Liguria da decenni, ha costretto (?) la RCS Sport a uno sforzo di fantasia.
Si percorrerà una strada alternativa, piemontese, per approcciare il gran finale: il Monferrato, le Langhe, e l’Alta Val Tanaro prima del tuffo a Imperia e il segmento (classico) decisivo.
Un tracciato meno monotono, senza pianura da Santo Stefano Belbo in poi, che potrebbe suggerire soluzioni (scapigliate) clamorose: i sei atleti a squadra sparigliano non poco, con tutti quei chilometri (insidiosi) in falsopiano (e in salita), i piani delle ruote veloci.
L’altra incognita sarà il caldo, che peserà nello sviluppo complessivo della maratona: trattasi comunque di corsa per fondisti autentici.
I 299 chilometri, titanici in un’èra che pretenderebbe un ciclismo più leggero, non mentono.
In particolare con queste condizioni, atipiche, e un gruppo (che ha corso pochissimo e si è allenato così così) agonisticamente alle aste.
L’abbiamo constatato qualche giorno fa nella vernice senese, splendida (la classica tricolore più bella di tutte…), della Strade Bianche. A cinquanta chilometri dal traguardo, il plotone era già spappolato, in mille pezzi: in via Santa Caterina, dopo lo strapotente Wout Van Aert (uno forte forte…), sono arrivati contati. Una selezione impietosa.
La Sanremo non vanta quella brutalità, ma altrettante incognite: vaglieremo lo stato di forma (o di grazia) dei due fenomeni da classica, Mathieu Van der Poel e Peter Sagan. Entrambi, sabato nel Chianti, parsi a disagio nella canicola (e nel polverone) e lontani dalla loro versione migliore.
Deceuninck-Quick Step, l’armata dei classicomani che a Siena le ha buscate, potrebbe inventarsi qualcosa: per Julien Alaphilippe, Zdenek Stybar e la gloria perenne.
Il resto vive della contrapposizione (ideologica) tra chi vorrebbe giocarsela in Via Roma e quelli che sognano la soluzione di forza e fantasia.
Della cricca degli sprinter, la strana coppia UAE composta da Fernando Gaviria (talento super, cabeza fluttuante…) e Alexander Kristoff (per lui sarebbe il bis), Démare, Elia Viviani e Sonny Colbrelli, Michael Matthews (fosse la volta buona?), Caleb Ewan, Alex Aranburu eccetera.
Degli assaltatori, l’oltre Wout Van Aert è rappresentato dai maestri venerabili (Philippe Gilbert, Kwiatowski, Greg Van Avermaet, Alejandro Valverde, Nibali…) e dalle promesse (Oliver Naesen, Davide Formolo, Dylan Theuns) magari già mantenute (Alberto Bettiol, Tiesj Benoot).
Una lista allargata, un bordone tipico della monumento più imprevedibile (e più "facile") di tutte.
Sulla striscia d’asfalto, ad accompagnare un gruppo di uomini che la rincorrono, i fantasmi di Lucien Petit-Breton, Gaetano Belloni, Giuseppe Olmo e dei corridori che quella gara l’hanno corsa eoni fa.
Applaudita da generazioni di italiani, appassionati o casuali, che magari hanno solo intuito la metafora potente che incarna(va), della vita che ricomincia(va) dopo l’inverno.
Ad agosto, in un evento che ci auguriamo irripetibile, che terminerà verso le sei del pomeriggio, questa Sanremo è ancora più importante. La prima manifestazione italiana sportiva, di respiro internazionale, dopo i morti (e i feriti) del coronavirus.
Uno di quei campioni, sul palco delle premiazioni, vivrà la vertigine di sentirsi il re del mondo o Eddy Merckx: onore che va oltre il beffardo quarto d’ora warholiano, mentre il mondo (partecipe o indifferente) gira per i fatti suoi come la ruota di una bici.
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