PREFAZIONE - Jordan Rules


di Dan Peterson

Dopo l’Olimpiade del 1984, a Los Angeles, Bob Knight, il coach degli USA, dichiarò che Michael Jordan era il più grande giocatore di tutti i tempi. Questo commento mi ha sorpreso perché Knight è un allenatore che bada al lavoro di équipe e che disprezza giocatori “da spettacolo” come Michael Jordan.

Anzi, non ero d’accordo con Knight. Per me, Jordan era un bravo giocatore individual, grande atleta, grande talento e dotato di grande carisma, ma non all’altezza di campioni come Larry Bird, Julius Erving e Magic Johnson, giocatori bravi, ma soprattutto, locomotive-trascinatori-vincenti.

Non ero solo in questo pensiero. Anzi, trovavo tanti allenatori della NBA, ospiti al mio camp a Salsomaggiore, o quelli che vedevo nelle leghe estive nel New Jersey o a Los Angeles, che condividevano pienamente il mio parere. Per noi, Bob Knight aveva preso un abbaglio, e anche grosso. 

I primi anni di Jordan nella NBA non riuscirono per nulla a farmi cambiare idea. Primo realizzatore? Ah, certo, quando fai più tiri degli altri, e se sei bravo, succede. Ma non vedevo lui come quei tre: Larry, Magic e Doctor. Loro, sì, erano talenti, ma anche vincenti, i veri supercampioni NBA.

In tutta questa mia valutazione, non tenevo presente un fatto: che la squadra di Jordan nella NBA, i Chicago Bulls, era una squadra debole, e che Jordan non era circondato da campioni come Larry Bird nei Boston Celtics, come Julius Erving nei Philadelphia 76ers o Magic Johnson nei Los Angeles Lakers.

Pian piano, però, la squadra che ha dominato gli anni ’90 nella NBA, i Chicago Bulls di Michael Jordan, ha preso forma: Scottie Pippen e Horace Grant hanno dato a Jordan un appoggio che prima non aveva mai avuto. Poi, il resto del quintetto, gli altri della panchina, e la squadra battagliava con i Detroit Pistons. 

Giorno dopo giorno, partita dopo partita, incominciavo a vedere Michael Jordan sotto un nuovo punto di vista: uno in grado di trascinare in alto una squadra. Anche le serie perse contro Detroit lo avevano fatto vedere come talento fantastico, ma anche come battagliero che stava in campo per vincere.

Un giorno, Sports Illustrated viene fuori con un articolo da copertina: «Jordan Rules». Doppio senso. Rules vuol dire “regole”, ma anche “regno”. Insomma, per fare qualcosa contro il “regno” di Jordan, i Detroit Pistons, con coach Chuck Daly, inventarono le “regole” per marcare MJ.

Forse quelle regole e quell’articolo hanno fatto sì che Jordan incominciasse a pensarla in modo dverso: aveva capito che nemmeno lui, grande talento qual era, poteva vincere le gare da solo. Non contro Detroit. A lui non permettevano di penetrare per la fascia centrale, ma lo indirizzavano verso il bordo laterale, e c’erano i raddoppi.

Proprio l’anno del primo titolo dei Bulls, 1990-91, MJ ha incominciato a giocare con un aggiustamento nel suo stile, sottile ma importante: coinvolgere i compagni di squadra nel primo quarto di gioco, poi iniziare a tirare e a segnare. Così Jordan diventò come Bird, come Erving e come Johnson.

Infatti, chi ha visto, di persona o in tv, le gare dei Bulls negli anni ’90, ha notato che Jordan, dopo un quarto di gioco, aveva forse solo tre tiri e forse solo quattro punti. Ma i compagni avevano toccato la palla, fatto punti o si sentivano importanti perché la palla veniva da Jordan.

Durante quegli anni, si è notata però un’altra cosa: che Jordan non era solamente il milgior attaccante della NBA, ma anche il miglior difensore. N˚1 in attacco; N˚1 in difesa. Quando mai? Mai un riposo in difesa come tanti. Mai un riposo in attacco. Sempre a 200 all’ora per 48’.

Il resto si sa. Jordan ha dominato la NBA come forse solo Bill Russell con i Boston Celtics ha fatto, vincitore di 11 titoli in 13 stagioni, dal 1956 al 1969. Jordan, senza i due anni persi nel baseball, ne avrebbe senz’altro otto. E se fosse stato in campo ancora, con Pippen e Rodman, sarebbe potuto arrivare a 11.

«Siamo tutti generali dopo la guerra» dice un proverbio italiano. In America si dice: «Tutti hanno la vista perfetta guardando indietro nel tempo». Stessa cosa. Ora, tutti noi abbiamo capito Michael Jordan, che non è solo un incredibile talento atletico-tecnico, ma anche un vincente-leader ad hoc.

Dovevamo immaginare questo prima. Prima ancora di Bob Knight, proprio nel 1982, quando Jordan ha messo dentro il tiro che ha battuto, per un punto, Georgetown per il titolo NCAA, quando il tempo scadeva, l’aria non si respirava e la palla non solo scottava, ma pesava una tonnellata o più.

Chiaro, nessuno negava il talento di Jordan. Uno che fa 63 contro i Boston Celtics in una gara-playoff è un fenomeno. Ma gli allenatori sono testardi. Nella squadra ideale di ogni tempo, nessuno di loro mette il recordman Wilt Chamberlain, che segnò 100 in una gara, bensì il supervincente Bill Russell.

Idem con Jordan. Al nostro NBA Basketball Camp di Salsomaggiore, i ragazzi chiedevano agli allenatori della NBA, che venivano come istruttori, di scegliere il quintetto ideale di ogni tempo. Tutti mettevano Jerry West davanti a Jordan per il ruolo di guardia. Oppure, Oscar Robertson o Magic.

Poi, un anno, Richie Adubato venne e disse: «Fino a poco tempo fa, gli allenatori non mettevano Jordan fra i primi cinque. Ora, sì». Infatti, è così. Non solo fra i primi cinque, ma il N˚1. Molto è dovuto alle “Regole di Jordan”, che, secondo me, hanno dato vita e durata al “Regno di Jordan”.

Dan Peterson

CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

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