IL CURIOSO CASO DI ARU. IL COMPLESSO DI DJOKOVIC E QUELLO S. DI CONNORS



di SIMONE BASSO
Sport e cultura, venerdì 11 settembre 2020

Il curioso caso di Fabio Aru occupa un bel po’ dello spazio, ingeneroso, di ciò che resta del ciclismo nei media generalisti.

La sorpresa, per un atleta di lignaggio in difficoltà evidenti (da tre anni…), può esserci solo se la narrazione rimane – convinta – quella del teatrino della tivù di Stato: dalle parti de “Gli Occhi Del Cuore” di “Boris”.

Aru è vittima (e carnefice) di un meccanismo infernale, mediatico e nazionalpopolare: la pretesa – irrazionale – che un Paese con una tradizione ciclistica secolare possa reiterare – ad libitum – campioni di alto livello a ogni generazione.

Soprattutto quando questo sport, di un verismo brutale, è andato oltre le scuole egemoni che, per una serie di eventi (che in Italia si chiamano declino organizzativo e culturale), non stanno più al passo del nuovo, che avanza e travolge i vecchi feudi (corrotti) comandati da feudatari senza idee né futuro.

Del sardo fummo testimoni al Giro delle Valli Cuneesi 2011, doppiato dallo storico Giro della Valle d’Aosta: quell’anno e il successivo. Le VAM dell’alfiere della Palazzago, sulle salite alpine, erano già da piano superiore, da pro del World Tour.

Per certe caratteristiche, l’ingobbirsi sulla bici, l’azione di forza coi rapporti medi e lunghi, ci ricordò Fabio Parra: avevamo trovato un colombiano nato nel Campidano… Rispetto al rivale di Lucho Herrera: molto meno performante a cronometro, ma con una botta, quando la strada è all’insù, che faceva la differenza.


Alla Astana, in una coabitazione difficile con Vincenzo Nibali, Aru è diventato un nome quasi immediatamente. Un lustro ascensionale, irresistibile ma non troppo, e il picco (assoluto) nell’estate 2017 con quel gruppo lì (fortissimo).

Al Criterium del Delfinato, un numero da circo sul Mont du Chat, il titolo italiano di cazzimma e prepotenza a Ivrea, e la vittoria al Tour a La Planche des Belles Filles staccando i Chris Froome e i Geraint Thomas. 

Scusandoci per i Vayerismi, necessari quanto antipatici: 463 watt e 6,65 al chilo di potenza in quel frangente. Quinto a quella Grande Boucle, finita così così ma con prospettive (sulla carta) rosee (sic), e poi lo strapiombo.

Una programmazione senza senso (la Vuelta di quell’anno, conclusa in apnea con una deriva sull’Angliru), il cambio di squadra all’UAE Emirates per tanti tanti dindi e il gorilla sulla schiena sempre più evidente.

Aru che correva poco (e male), senza amici in gruppo (poca empatia per i compagni sgobboni…), che pedalava sempre peggio (sembra un ciclista anni Sessanta…): abbiamo rincorso le voci, finché ci siamo stufati della tiritera.

Non sarebbe il primo campione a finire presto il motore e le motivazioni, non sarà l’ultimo.

I successi di Aru andavano contestualizzati, subito: la Vuelta 2015, meritata, fu anche figlia di una serie di avvenimenti. La squalifica del suo capitano, il Nibali, per traino (ripreso in mondovisione…), la frattura al piede di Froome (il favorito) e Tom Dumoulin che corse da isolato contro lo squadrone del sardo.

Con Aru c’erano Mikel Landa (che a maggio – al Giro – era stato sacrificato per Fabio stesso…), Luis León Sánchez, Dario Cataldo, Diego Rosa (che perderà il Lombardia 2016, secondo, tirando mezza gara per Aru…).

Il praticantato da Olivano Locatelli (un sergente di ferro), preparatorio quanto esigentissimo, ci sovviene di Yaroslav Popovych: la stessa parabola, forse più esagerata. 

L’ucraino da under 23 era un’iradiddio: vinse tutto, pareva un Sergei Soukhouroutchenkov, un Eddy Merckx (sic).


Grandi promesse al Giro, per un combo di Colnago disegnato apposta per lui, e poi una carriera piano piano anonima.

Citato il grande Ernesto, non possiamo farci sfuggire Beppe Saronni che, ci hanno riferito, si è prodotto in una straordinaria imitazione di Diego Lopez in diretta televisiva (il teatrino). 

Che inchiostrò Aru, ai tempi, con tanto di dichiarazioni roboanti, e dovrebbe invece solo supportare (e sopportare) una sua scelta.

Perché il punto è proprio qui, la luna non il dito che la indica: il problema del ciclismo italiano non è Fabio Aru, dipinto ieri come il nuovo Federico Bahamontes e oggi uno scansafatiche (dagli stessi!), è che il giochino viene gestito – da eoni – da quelli come Saronni. Punto, due punti, punto e virgola…
.

C’è voluto il dimenticabilissimo 2020.

Il covid-19, il Roland Garros che sbraca, l’Adria Tour, la bolla, la bua al ginocchio di Roger Federer, il forfait di Rafa Nadal e la follia di Novak Djokovic per avere un nuovo campione Slam.

Asteriscato, lo sapevamo da tempo: il brivido di un universo nuovo dopo il Federerismo (e il Minotauro e Robonole, dunque).

Più ignorante e imperfetto di quello prima, speriamo meno omologato (ma non dipende da loro…) e più biodiverso; di sicuro, vedendo i gradini (...) del babbo di Stefanos Tsitsipas durante l’anabasi del figlio (sei match-point buttati nel cesso contro Borna Coric), con la psicopatia a condire battute e risposte.

Il pomeriggio di ordinaria follia del numero uno, in un Arthur Ashe Stadium spettrale, ne è stato l’esempio migliore.

Opposto a Pablo Carreno Busta, un cerbero che non si batte da solo, il fuoriclasse serbo aveva mostrato il repertorio completo di questa stagione.

Un tennis quantitativo sfolgorante, innestato di qualità laddove non si deve colpire la palla alta e al volo, con un rovescio (arma totale) mostruoso per profondità e angoli. Servizio de luxe (al suo meglio di sempre) e più variazioni (pensate).

Le ombre? Il diritto, discontinuo e strappato, smargiassate (la palla corta telefonata) e una nevrosi costante: stare sul campo senza rispettare la liturgia del tennis e i propri cali agonistici.

Una recita continua, estrema, vocale (senza pubblico, le parole si sentono bene…) e gestuale.

E’ il suo guaio, storico, rispetto agli altri due: se Federer comunica la gioia del gioco e Nadal quella della competizione, fiera, della lotta in sé, Djokovic ci trasmette la volontà diabolica (e insana) – un’ansia totalizzante – della vittoria a ogni costo.

Non pare mai divertirsi sul serio (...): un aspetto grottesco se pensiamo che, agli esordi, dei tre pareva il più buffo, il Djoker.

Dovrebbe far pace con la propria immagine, le moine costruite almeno quanto la seconda di servizio (peraltro ottima…), e la sua fama.

Utilizzatore finale del tennis postmoderno, ha avuto in sorte (ancor più del "Fedal") un bonus statistico: un Jimmy Connors destrorso e senza Orso tra le scatole, un Ivan Lendl a favore di terba.

Se il suo ’20 a gioco fermo è stato tragicomico, gli appelli No-Vax, la baracconata indegna tra Belgrado e Zadar, la pallata filinesca (e pericolosa) alla giudice di linea, dovrebbe comprendere che è maledettamente bravo a fare il suo mestiere 

Anche se la clessidra incombe, pure per lui, e stronzo quanto Jimbo lui non riuscirà mai a esserlo. 

Che agli US Open, sfruttando il vantaggio campo, ne fece di ogni colore. Nel ’77 il blitz per cancellare il segno della palla, sulla terra verde, nella semifinale contro Corrado Barazzutti.


Sei anni dopo, nel 1983, in una finale all’O.K. Corral opposto all’odiato (ed emergente) Lendl: un match di quella Flushing Meadows, brutta (straordinaria), sporca e cattiva.

35 gradi all’ombra, un ventaccio umido e una folla rumorosa e ipereccitata. Sul più bello, un set a testa, la leggendaria visita al bagno di Connors, che chiese e ottenne per una (presunta) dissenteria.

Il break, contro le regole di allora, consentì a Jimmy di incontrare – in gran segreto – il medico dei New York Jets che gli praticò un’iniezione di novocaina a un piede dolorante. Roba che i medical time-out calibrati di Djokovic, cinque in finali di major (quattro vinte), paiono il ruttino di un neonato.

Connors, che degli attaccanti da fondocampo fu il capostipite, trionfò (6/3 6/7 7/5 6/0) aggiudicandosi il suo quinto (e ultimo) US Open. A trentun’anni, a quel tempo, pareva un matusalemme.

Chiudiamo il cerchio (stavolta seriamente) poiché tutto torna: nell’83, durante la finale juniores, una battuta di Stefan Edberg (vincente quel dì, opposto a Simon Youl) colpì un giudice di linea.

Richard Weirtheim, 61 anni, cadde e batté la testa: un’emorragia cerebrale lo uccise, dopo cinque giorni di coma.

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