LA NUOVA SPECIE ANNUNCIATA DA POGACAR E DUPLANTIS. LA TERZA SETTIMANA DI ROGLIC. LA BANDA DEI 4 A IMOLA



di SIMONE BASSO
Sport e cultura, venerdì 25 settembre 2020

Pallini giganteschi, autunnali, grandi e profondi quasi quanto i crateri che si stanno formando in Siberia: il risultato più evidente dello scioglimento del permafrost. Bocche, abissi, che paiono sbucare dal centro della Terra, tra gas e bombe di ghiaccio. Il più spaventoso di tutti è a Batagaika, nell’immensa Jacuzia, ed è stato soprannominato “la porta dell’inferno”.


Alla fine, l’avevamo predetto, è stato un altro 1983. In una Parigi spettrale e affascinante, col cielo rosso fuoco che sembrava un effetto cinematografico (quelli di ASO ci direbbero: “La nostra è classe, il vostro è c**o”), il Tour si è consegnato al nuovo principe sloveno.

Ai Mondiali di Innsbruck (2018), su un percorso durissimo, Tadej Pogacar era il favorito della prova under 23 (aveva vinto un mese prima il Tour de l’Avenir). Corse così così e, sul più bello, fu fregato da una magata di Marc Hirschi che anticipò (di classe e di forza) tutti. Secondo, arrivò Bjorg Lambrecht.

Era l’altroieri, Tadej domenica esibiva il giallo sui pois rossi e il bianco del bottino (trionfale), lo svizzero è stato il più combattivo della Grande Boucle, il belga è volato via – in cielo – un anno fa, al Giro di Polonia. Mestiere bellissimo e bastardo, quello del ciclista professionista.


La statistica più apocalittica (...) della Festa di Luglio spostata a settembre è il 23,9 per cento della gara trascorso dalla Jumbo Visma, in testa al gruppo, a tirare.

Una super combo, degna degli squadroni del passato, remoto (la Molteni di Eddy Merckx) e recente (il Team Sky di Chris Froome), che ha condotto le danze per diciannove frazioni per poi – nel clou – raccogliere i cocci del proprio capitano.

L’hanno sempre raccontata facile (e stupida): il trenino di rouleur e passisti scalatori di lignaggio, che logora di ritmo (e spaventa) la concorrenza, ha sempre bisogno di una prima punta formidabile.

Primoz Roglic, forte forte sino alle Alpi, per la terza volta (consecutiva) dimostra di non avere – nelle gambe e nella testa – una terza settimana degna del progetto (ambizioso).

Era evidente pure un anno orsono, alla Vuelta vittoriosa, nella tappa sulla Sierra de Gredos (dove si impose Pogacar…): ma aveva contro solo il maestro venerabile Alejandro Valverde e l’amletica Movistar.

Il parallelo con il leggendario 1989, allora la chiusura del cerchio aperto nell’83, non regge: Greg LeMond, anch’egli senza supporto come Pogacar, fece il Tour da attendista. Ebbe molta fortuna, tattica, ogni particolare della crono parigina (dal fastidio di Laurent Fignon al soprassella alle appendici da triathlon permesse) permise il ribaltone. Stavolta vince l’agitatore, l’incendiario: il ruolo dello sloveno, che apparteneva a Fignon (e a Pedro Delgado).


Diamo i numeri (...) per espandere meglio due idee-base sull’accaduto e il divenire.
Roglic, verso La Planche des Belles Filles, ha realizzato una performance sotto il suo standard.

I 16’10” di Pogacar sulla salita sono due secondi meglio del Fabio Aru 2017 (sic).

La maglia gialla, in affanno evidente (troppi fuori-sella, con un rapporto medio, rispetto al solito), in quel tratto – con 17’31” – perde ben 39 secondi dal compagno Wout Van Aert e addirittura 59 dal veterano Richie Porte.

Significativo che Tom Dumoulin, il punto di riferimento di Roglic, abbia siglato il suo 17’32” con la specialissima da cronometro, penalizzante negli ultimi 5,9 chilometri all’insù.

Roglic, nel tratto decisivo, è solamente undicesimo.

  • 1.  T. Pogacar 16’10” 21.5 km/h 1863 VAM 6.5 w/kg (!)
  • 2.  R. Porte 16’32” 
  • 3.  W. Van Aert 16’52” 
  • 4.  E. Mas 17’00” 
  • 5.  P. Bilbao 17’15” 
  • (…)
  • 11.  P. Roglic 17’31” 19.9 km/h 1719 VAM 6.0 w/kg
La nuova specie è tra noi. 
Nell’evo del Team Sky, commentando gli exploit di Froome, Rod Ellingworth, oggi direttore della Bahrain-McLaren, disse che era prevedibile – visti i progressi fisiologici negli allenamenti e quelli tecnologici – una generazione di campioni con wattaggi vicini a quelli di Epolandia senza l’uso (smodato) di farmaci.

491 watt espressi a Bourghelles Wannehain (sul pavé), in allenamento, riportati da Strava, da Mathieu van der Poel durante il sopralluogo della prossima Parigi-Roubaix fanno comprendere questo scarto.

Al pari del finale – da asfissia – di Julian Alaphilippe e Van Aert all’ultima (tremenda) Milano-Sanremo: 43,3 orari negli 1600 metri del Poggio col belga – à bloc per seguire Loulou – a 678 watt di potenza media per 78 secondi.

O i 56,6 km all’ora (in una cronometro di 10 chilometri) di Filippo Ganna alla Tirreno-Adriatico.

Il Col de Peyresourde affrontato al Tour 2020 è un’occasione perfetta per indulgere in Vayerismi e dissezionarli.

Pogacar, salendo uno dei colli pirenaici più iconici, ha attaccato producendo – per 17 secondi – 643 watt di media e proseguito con una specie di cronoscalata per 10’25” e 429 di wattaggio: i prodromi di La Planche des Belles Filles c’erano già tutti, compreso lo stesso – eccezionale – rapporto peso/potenza (6,5 watt al chilo).

Tadej, nelle parole del (suo) preparatore Inigo San Millan, a dispetto dello chassis (ragazzino), vanta parametri fisici simili a quelli di Miguel Indurain: in sintesi, il corpo e la cabeza di un freak.

Ci dovremmo abituare a questa genesi e considerare l’empirismo del giudizio (morale ed etico…) affidato a cifre nude e crude che andrebbero, invece, rilette con una visione prospettica.

Il paragone col 2003, in pieno basso robosport (una gara cyberpunk quanto esaltante…), è relativo; essendo, al termine dell’osservazione, un (semplice) dato.

Quel Tour fu disputato nell’estate (finora…) più estrema (calda e siccitosa) dell’evo moderno, eravamo nella terza settimana e lo stile tattico differiva (i fari erano due, lo squadrone egemone soffriva…).

Nei 24’35” – il nuovo record – di Pogacar c’è anche l’andatura (folle) della Jumbo-Visma (e di Dumoulin).

Il 25’20” di Aleksandr Vinokurov (uno di Tana delle Tigri…) e Iban Mayo fu il risultato di una dimostrazione di forza in una tappa all’assalto…

Non ci sono correlazioni logiche tra due eventi, che distano diciassette (!) anni uno dall’altro.

Tenendo conto di altri mostriciattoli apparsi da poco, Remco Evenepoel il più annunciato, noi aggiungiamo (per sfizio) la pulce atomica Tom Pidcock, i limiti si sposteranno ancora di più.


Altrimenti, sulle cifre del principe sloveno – vedendo Mauro Gianetti e Matxin Fernandez nella foto – saremmo antimaterici: ovvero che durante il lockdown si sia tornati, per qualche mese, al 2008.

Il resto non è mancia: vorremmo leggere di medicina sportiva, e fare domande, pure su discipline meno esposte così brutalmente. Manca una letteratura (di qualsiasi tipo…) sul PRP e ne intuiamo il motivo. “Ccà nisciuno è fesso.”


Imola è una prova-arcobaleno improvvisata ma non troppo. E’ mutato lo scenario, rispetto alla montagnosa Martigny, e il bordone tattico conterà maggiormente.

Alcune nazioni tradizionali, soprattutto l’Italia e la Spagna, hanno poco talento (e vecchio: il nostro Vincenzo Nibali e l’highlander Alejandro Valverde) e dovranno inventarsi qualcosa.

Altri dipendono dalla situazione e dal caos generato: chi vorrà un mondiale selettivo (la banda slovena, Jakob Fuglsang, Alexei Lutsenko, Max Schachmann, Tom Dumoulin, Michael Woods…) agiterà presto le acque, a dispetto dell’assenza (tranne Michael Matthews) dei velocisti resistenti.

In soldoni, sono quattro moschettieri – che provengono dal Tour (un vantaggio – in termini di gamba – come ai tempi dell’iride agostana…) – i favoriti della giostra. In prima fila, Julian Alaphilippe e Wout Van Aert, la coppia di attaccanti della Sanremo. Appena dietro, l’emergentissimo Marc Hirschi e il pirata Michal Kwiatkowski.

Le dinamiche della banda dei quattro muoveranno il domino: nel Belgio, dominante, mettersi d’accordo – Greg Van Avermaet non ha mai brillato per generosità coi compagni… – diventerà cruciale.

Ricordiamo che la sindrome di Sallanches è sempre dietro l’angolo: la descrizione delle salitelle del circuito al pari della Cote de Domancy, tremenda, spianata dal migliore Bernard Hinault di sempre (1980), è immancabile come il diktat pallonaro “Sono tutte finali”.

Donne, il sabadì, antipasto di lusso della domenica (del villaggio). Una caduta al Giro ha sparigliato le pedine: Annemiek van Vleuten, malgrado il polso fratturato, potrebbe essere della partita; di Marianne Vos, altrimenti il centro di gravità della contesa, non sappiamo se ha smaltito i postumi della botta sull’asfalto. Le olandesi, un Dream Team della bici, avrebbero anche Anna Van der Breggen (da sostenere). 

Le avversarie sono toste: Elisa Longo Borghini, uscita benissimo dalla corsa rosa, sogna il colpaccio della carriera. Dei nomi spendibili, Cecile Uttrup Ludwig, Kataryzina Niewiadoma, Coryn Rivera, sottolineiamo quello di una coéquipier – alla Trek-Segafredo – di Elisa Longo Borghini: Lizzie Deignan.


Il primato mondiale all’aperto (6 metri e 15 centimetri) di Armand Duplantis ha ridato – per una lunga notte – la dimensione (perduta e dovuta) dell’aleph all’atletica leggera.

Il sorpasso all’imperatore Sergei Bubka – da quel dì al Sestriere del 1994 – era scritto nelle stelle. Poiché proprio in quel luogo, l’Olimpico di Roma, in una serata di fine agosto del 1984, si realizzò il duello (ad alta quota) tra Bubka e Thierry Vigneron. Col francese (che fumava le Gauloise in attesa dei tentativi…) che strappò il primato mondiale (5 metri e 91) al giovane zar e il sovietico che rispose – pochi minuti dopo – riprendendosi il record (e il Golden Gala) a 5,94.

Mondo, predestinato quanto un Pogacar e un Evenepoel, era atteso a questi numeri da un biennio. Il DNA giusto, mamma, babbo e fratelli sportivi, e la storia apolide di uno nato per stupire, fenomenale e quasi circense nel suo modo di interpretare la specialità (e la vita).

La rivalità con Sam Kendricks, una tecnica peculiare nel gesto (essenziale) che è forse (perché una sequenza di gesti differenti) il più difficile di tutto lo sport e potenzialità che paiono infinite, passioni (bambine) per il cibo-spazzatura permettendo…

Le circostanze italiane e televisive dell’avvenimento rivelano poi, nel confronto con l’84, l’erba gramigna nel nostro orticello.

Bubka contro Vigneron quella volta fu una non-stop (esaltante) di ore, in diretta; Duplantis a 6 e 15, oggi, 2020, in RAI è passato in differita, col secondo canale impegnatissimo (per cinque minuti) nelle prebende pubblicitarie e l’annuncio del telegiornale.

Mondo viene dopo il tiggì (...), che a vedere lo spot che presenta il prossimo Giro d’Italia – talmente brutto e posticcio da essere scambiato per una serie horror di net-coso (almeno Godzilla ce lo meritavamo…) – siamo all’antropologia del Godoaro.

Lo sport spiega lo stato (participio passato?) del Paese.
SIMONE BASSO

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