UN TOUR 2020 CHE PARE L’83. HOUSTON, YOU HAVE A PROBLEM. OSAKA MON AMOUR



di Simone Basso
Sport e cultura, venerdì 18 settembre 2020

Pallini infuocati, visti dall’alto, nemmeno fossimo l’elicottero che riprende il Tour: come gli incendi in Oregon e in California, la Baviera che a inizio settimana era dodici gradi sopra (!) la sua temperatura media e il Polo Nord che si scioglie a una velocità imprevista. Troveremo comunque qualcuno che neghi l’evidenza, del pianeta Terra con il febbrone, e altri che chiedono di comprendere il voto a un coglione tipo Jair Bolsonaro.


La vueltizzazione della Grande Boucle procede spedita, a dispetto di un personale che – guardando oltre il presente – pare assicurare un decennio di lignaggio. 

Il cercare la rampa, su un territorio che vive di montagne da un’ora di ascesa, e il ridurre il chilometraggio è un controsenso storico che regala un equilibrio fittizio (e instabile) e ulteriori tensioni a un plotone che, essendo al Tour, corre già con il coltello fra i denti dal chilometro zero. Contenta l’ASO, contenti tutti.

Il ricambio generazionale in atto, poderoso, viene confermato dalle vicende agonistiche. Se Primoz Roglic, trent’anni, è della leva di mezzo – come il moschettiere Julian Alaphilippe e i gemelli Adam e  Simon Yates – ma ciclisticamente più giovane della sua età, gli altri protagonisti hanno un futuro splendente.

Anche Egan Bernal, in crisi, e l’assente (e infortunato) Remco Evenepoel o il Mathieu van der Poel che ha preparato la campagna del Nord alla Tirreno-Adriatico.

Brillano il fenomenale Tadej Pogačar, la locomotiva Wout Van Aert (il più forte, alla faccia della classifica…), Marc Hirschi (attenti allo svizzero al mondiale di Imola…).

Poi ci sono Miguel Ángel López, Richard Carapaz, Enric Mas, Lennard Kämna, Daniel Martínez eccetera. Lo scenario, quasi inedito, ha qualcosa del travolgente 1983. La Festa di Luglio che ci rivelò il mondo nuovo.

La vinse il ventiduenne Laurent Fignon, di classe e fortuna (non fosse cascato – sul più bello – Pascal Simon…), scoprimmo il pirata Eric Vanderaerden, il torero Perico Delgado. Robert Millar, che scattò come un gatto sul Col de Peyresourde e che oggi si chiama Philippa York, la tribù colombiana all’esordio, Stephen Roche, Marc Madiot, Adrie van der Poel (sì, il babbo).

Se volete, potremmo raccontarvela tutta: qualcosa di completamente diverso.

Gli italiani, ora come allora, facevano le comparse: e stavolta, osservando le isobare tra under 23 e continental, il terzo mondo – al pari dell’atletica italiana – sembra una prospettiva certa.

A disegnare quel Tour de France non c’erano i procteriani, ma il diabolico (e rivoluzionario) Félix Lévitan.


C’era il pavé a Roubaix, con tanto di arrivo al Velodromo, quattro crono (due lunghe, due scalate: Puy de Dome e Avoriaz) più due (il prologo e una a squadre), un tappone pirenaico classico e Alpi-monstre. Due frazioni, tra l’Alpe d’Huez e Morzine, per undici GPM e 470 chilometri complessivi.

Sarebbe bello rivedere quel canovaccio al Tour, adeguandolo alla modernità (più umana), senza lo stillicidio di garagismo circense: la crema del gruppo, degna degli anni Ottanta, lo meriterebbe.

Il sottotesto (un altro…) dell’amarcord all’83 è implicito: fu l’ultimo trionfo di una matricola alla Grande Boucle.

Dal dopoguerra, non considerando l’edizione 1947 della ripartenza (non si correva dal ’39), vinta da un dietro-derny parigino del clownesco Jean Robic.

Fausto Coppi (1949, la prima doppietta col Giro), Hugo Koblet (1951: un dominio…), Jacques Anquetil (1957), Felice Gimondi (1965), Eddy Merckx (1969: si sbranò tutte le classifiche a disposizione…), Bernard Hinault (1978) e Laurent Fignon (1983).

Alle gambe (e al serbatoio) di Pogačar e López l’ardua iscrizione a questa lista gialla.


Il bello della NBA, malgrado (la bolla di) Orlando e il pubblico virtuale, è che rimane la NBA: una soap con una sceneggiatura avvincente. Così, abbiamo assistito allo showdown dell’anno – un imperdibile scontro tra sistemi: Raptors contro Celtics – e a due piccole (e annunciate) apocalissi.

I Clips, pure con i dollaroni e la voglia matta di Steve Ballmer, rimangono i Clips.
Riscrivono la storia, a modo loro, facendosi rimontare quattro gare (!) con un vantaggio in doppia cifra. 

Sarebbe un evento clamoroso se non avessimo visto la banda-Rivers: una combo (individualmente forte forte) senza identità offensiva. Solo isolamenti, scarichi (pochissimi ribaltamenti di lato) e qualche transizione.

Nessun playmaker: quanti ancora (nel ventunesimo secolo, sessant’anni dopo Oscar Robertson…) scambiano la point guard, cioè chi porta su la palla, con chi il gioco lo vede e lo implementa?

Curioso che gli altri, i Denver Nuggets della pepita d’oro Jamaal Murray, lo spieghino col loro play corpacciuto (...): Nikola Jokic, reincarnazione di Cresimir Cosic – l’emblema della point center – e lungo europeo più talentuoso (nelle mani e negli occhi che creano palla con estro) dai tempi di Arvydas Sabonis (e Pau Gasol).

Il non-ritmo dei Clippers, che accendevano e spegnevano senza soluzione di continuità, è riuscito a regalare inerzia e possessi alla contender difensivamente più scarsa…

Gli Houston Rockets di Mike D’Antoni invece si estinguono, in una modalità con pochi precedenti anche nel basket pro' americano, alla vernice di una gara-4 contro i Lakers (in ciabatte) che ne annuncia l’autodistruzione.

Separati in casa, allenatore e dirigenza, da un anno, la squadra rincorreva un basket – seppure nella bolla e nella ripartenza – che pareva una parodia estrema delle tendenze attuali.

Col senno di poi, ma lo si capì subito, il treno era passato nel 2018 nella (splendida e spietata) finale occidentale contro i dinastici Warriors. Era quella, nell’esagerazione della ricerca della tripla, del ritmo sincopato, ancora un’idea dantoniana (...) di pallacanestro: small ball e una point guard (Chris Paul) eccelsa.

L’infortunio a CP3 in gara-5, lo 0 su 27 durante gara-7 impedirono l’impresa. Una combo biodegradabile per i concetti cari all’ex play dell’Olimpia: la classe operaia (Trevor Ariza, Clint Capela, Gerald Green eccetera) contribuiva al caos organizzato.

I Rockets 2020, schiacciato l’acceleratore sul massimalismo più folle, no: i cambi difensivi di P.J. Tucker (un grande giocatore di piccole cose), gli aiuti di Robert Covington, lampi isolati in un ensamble dedicato ad altro.

L’uno-contro-uno, esasperato, parossistico, di James Harden e le zingarate (fuori sincrono) di Russell Westbrook. Rockets sequestrati, e autorizzato dal management, dal magnifico solista (solipsistico) con la barba; che produce offensivamente come nessuno, oggi, con uno chassis originale: un palleggio hip hop, lo step back marchio di fabbrica, le entrate per creare (inventare: inarbitrabile) falli e tiri liberi. 

Prigioniero di una concezione ignorante e sopravvalutata (dal Jordanesimo in poi) del gioco: che i realizzatori puri servano a vincere i titoli, sul serio. Ci si inanella con una visione collettiva, magari non giocando bene, ma giusto (...).

La rinuncia a Paul, che non gradiva lo stile di Harden e lo fece capire, ha generato tutte le retroazioni successive: compresa l’imbarazzante Waterloo con Tinseltown. Houston, you have a problem.


Il momento migliore della finale fusti degli US Open, all’insegna del robotennis Pampers, arriva a un cambio-campo: quando il deejay – ironico o cinico? – dell’Arthur Ashe Stadium mette su “Under pressure”… Uno spettacolo così così, a volte orribile, lo psicodramma offerto da Dominic Thiem e Alexander Zverev.

Finisce, sfinisce, che si impone lo zoppo (l’austriaco) sul più meritevole (il russo di Amburgo) ma troppo emotivo: titoli di coda adeguati a un torneo più brutto che asteriscato.

Altra musica, clamoroso al Cibali, nelle donne: a dispetto delle assenze, il Laykold è stato onorato da una serie di match (molto) più interessanti.

Nelle ultime otto, da una parte, erano rimaste tre mamme: un segnale di civiltà, di crescita, in un universo caratterizzato – non molto tempo fa – da troppe storiacce di lolite.

Se la finale è stata rapsodica, pur mostrando un livello altissimo, altre contese (e stelline) hanno brillato nel vuoto di Flushing Meadows. La semi tra Serena Williams e Victoria Azarenka su tutte, Serenona opposta a Cvetana Pironkova nei quarti, Vika contro Karolina Muchova negli ottavi eccetera.

E Maria Sakkari, Jennifer Brady, Elise Mertens.

Williams, esposta nel suo declino, più fragile atleticamente, mostra meglio il suo talento tecnico: due colpi mancini, istintivi, contro Pironkova e un’incredibile sequenza di vincenti nel primo set contro Azarenka (6/1 3/6 3/6).


Bielorussa, smagrita rispetto all’evo da numero uno, impressionante nel parziale d’apertura della finale: Naomi Osaka, per almeno venti minuti è parsa impotente di fronte agli anticipi della bionda. Col rovescio telecomandato, profondo e piatto, diagonale o in lungolinea, che buttava indietro la giapponese.

A un passo dal baratro, un set e un break sotto, Osaka è tornata a spingere: il suo baricentro è avanzato, quello di Vika è arretrato. Naomi (che si imponeva 1/6 6/3 6/3) di lotta e di governo: una fluidità rara nel colpire, un servizio preciso e potente, una risposta (soprattutto dalla parte sinistra) esiziale. L’impressione (oltre lo sguardo sbadato) di una campionessa che sappia leggere il momentum della sfide, l’inerzia delle stesse.

Al di là del tre su tre nelle finali Slam, che ne indicano la qualità e lo status acquisiti, la nipponica sta diventando il nuovo vessillo del tennis femminile.

Antipersonaggio che, per scelta, non si sottrae a prese di posizione scomode: come se diventare la sportiva più ricca del pianeta precludesse, nel contratto, il dire e fare cose meno banali di alcune (alcuni) sue (suoi) colleghe (colleghi).

SIMONE BASSO

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