GUIDA GALATTICA AL GIRO D’ITALIA 2021
di Simone Basso
Sport & Cultura, venerdì 7 maggio 2021
Centoquattro edizioni di Giro d’Italia. Il secondo costretto dal covid-19 in una bolla sanitaria: al pari del 2020 ottobrino, improvvisato e divertente, questa edizione sembra una sfinge, illeggibile.
Nell’èra-Lappartient, diretta (...) dal moloch Tour de France e dell’ASO, il Giro prova a reinventarsi, sperimentando. Con l’eccezione del biennio (d’oro) 2017-18, la partecipazione è ciò che resta dagli avanzi della Grande Boucle e delle classiche primaverili. Così, a sottolineare la tendenza, in Italia i ras – quelli che comandano il plotone – li vediamo a marzo tra Strade Bianche, Tirreno-Adriatico e Milano-Sanremo.
Il Giro invece è costretto alle seconde file, ai giovani leoni e alle promesse non mantenute del (recente) passato. Una Vuelta con un percorso molto più vario e selettivo (e una tradizione secolare): del ’21, con una terza settimana (altimetricamente) spaventosa, ci piace molto l’uno-due della Brunello-Montalcino (coi tratti di sterrato) e della Siena-Bagno di Romagna (una Liegi-Bastogne-Liegi appenninica), il 19 e 20 maggio. Meno la mancanza di una cronometro impegnativa, lunga, a spezzettare la classifica.
Che avrebbe tre nomi tre spendibili, su tutti, ma due in condizioni misteriose: Egan Bernal, vincitore del Tour ’19, sulla carta il più adatto al menu, continua ad avere problemi alla schiena.
Remco Evenepoel, bimbo prodigio atteso a una sfida generazionale (futura) con Tadej Pogacar, non corre dal Lombardia ferragostano 2020 e da quella caduta (rovinosa): è anche matricola in un grande giro.
Meglio allora il terzo uomo Simon Yates, recente dominatore del Tour of the Alps, che verrebbe a riprendersi la maglia rosa smarrita (...) tre anni fa.
Gli outsider potrebbero essere Pavel Sivakov (l’Ineos Grenadiers porta uno squadrone: segnatevi il nome di Daniel Martínez), la strana coppia Jay Hindley-Romain Bardet e il sottovalutato Emanuel Buchmann.
Curiosi di rivedere João Almeida e Aleksandr Vlasov (il pupo è forte...): le alternative verdi a Evenepoel. Ci sarebbe pure Mikel Landa, scalatore di rango e Godot vessato dai propri vuoti tecnici, che alla Bahrain-Victorious divide il ruolo di capitano col regolarissimo Pello Bilbao.
E i George Bennett e Hugh Carthy, incognite (?) da seguire. Degli italiani, in un periodo storico così decadente (la Danimarca ha più corridori di lignaggio di noi...), chissà non ci sorprenda Fausto Masnada, ahilui terzo uomo Wolfpack alla Elegant Deceuninck-Quick Step. Davide Formolo, un talento, ci chiarirà se è un tappista o un classicomane da Ardenne e Lombardia.
Vincenzo Nibali, ultimo patriarca del movimento tricolore, recupera in extremis da una frattura al polso destro e, comunque, a 36 anni, lo si attende(va) al più per un successo di tappa. Giulio Ciccone, suo compagno alla Trek-Segafredo, era forse l’unico italiano spendibile per i primi cinque: l’infiammazione a un ginocchio ne ha complicato la preparazione.
Bauke Mollema, in Trek-Segafredo, sembra più affidabile. Niente male l’altra corsa, quelle per le vittorie parziali: Peter Sagan, Gianni Moscon, Daniel Martin, Filippo Ganna, Caleb Ewan, Giacomo Nizzolo, Matej Mohoric, Elia Viviani, Dylan Groenewegen, Diego Ulissi eccetera. Un mucchio selvaggio.
QUINDICI TAPPE, QUINDICI STORIE
Il Giro, malgrado gli italiani, è imprescindibile dalla storia del Bel Paese: narrazione sportiva, e geografica, che diventa antropologia culturale. Nacque quasi per caso, di fretta, con un telegramma di Tullo Morgagni, comproprietario de La Gazzetta dello Sport, ad Armando Cougnet, redattore di ciclismo per quella testata, e a Eugenio Costamagna, direttore del giornale. Era il 5 agosto 1908 e le voci davano imminente l’idea di un Giro ciclistico, a imitazione della Grande Boucle francese, organizzato dal Corriere della Sera e dal Touring Club Italiano: Cougnet e Costamagna anticiparono la concorrenza. Ridurre la corsa rosa a un articolo è impossibile; riassumerla in quindici date, elencate in ordine cronologico, è invece solo un gioco. Poiché non esiste alcun obbligo di completezza storica, ma solo una serie di spunti che costituiscono un mosaico quasi infinito di avvenimenti e di uomini.
13 maggio 1909 1^ tappa Milano-Bologna
Tutto comincia da centoventisette partenti e 397 chilometri di supplizio nella Pianura Padana. Si impose, in volata, Dario Beni. Il ciclismo dei pionieri era una follia che descrivere non sapremmo, un esercizio estremo per fachiri masochisti. Al termine delle otto tappe, il 30 dello stesso mese, un altro sigillo di Beni a Milano, il trionfatore della classifica – Luigi Ganna – alla domanda su cosa provasse dopo quell’odissea, rispose così: “Me brusa tanto el cu”.
15 maggio 1927 1^ tappa Milano-Torino
Pronti via e Alfredo Binda, il favorito della vigilia, vinse di giustezza su Bonvicini e Pancera. Il ’27 introdusse un formato moderno, costituito da tappe in sequenza, una dietro l’altra, e frazioni dal chilometraggio meno esigente (..). Il Binda da Cittiglio, Varese, fu il secondo Campionissimo del ciclismo italiano: il primo, Costante Girardengo, e il terzo, Fausto Coppi, godettero di un immaginario e di una fama eccezionali. Alfredo, forse troppo evoluto per i suoi tempi, no. La condotta di gara chirurgica, spietata, e la scarsa simpatia verso il regime fascista ne congelarono il fascino. In quel 1927 il Binda vinse dodici tappe su quindici, accumulando dodici minuti di vantaggio di soli abbuoni: talmente superiore da anestetizzare la contesa, cogli avversari dispersi. Tre anni dopo, al culmine del suo dominio, la Gazzetta e la Legnano – la sua squadra – lo pagarono per rimanersene a casa.
17 maggio 1939 16^ tappa Trento-Sondrio
Il dì prima, nella Cortina d’Ampezzo-Trento, un Gino Bartali da antologia pareva aver vinto il duello con Giovanni Valetti e, di conseguenza, il Giro. Salendo il Passo del Tonale, quel pomeriggio il toscano sembrò inattaccabile: eppure, verso l’Aprica, all’inizio col compagno Olimpio Bizzi e poi in solitudine, Valetti ebbe ancora il coraggio di provarci. Le condizioni meteo impossibili, sull’Aprica nevicava, una foratura e una caduta di Bartali (che si accorse, tardi, di essere in una pessima giornata), le doti di rouleur del piemontese produssero l’ennesimo (e definitivo) cambio di maglia. Nella mitologia rosa, degli anni letti e vissuti a memoria, il ’39 rimane l’annata più appassionante.
29 maggio 1940, 11a tappa: Firenze-Modena
Col favoritissimo Gino Bartali che cadde lungo la discesa del Passo della Scoffera, la colpa fu di un cane, la competizione si aprì ai cosiddetti outsider. Il giorno dell’Abetone, la generale ancora in bilico, un certo Fausto Coppi – giovanissimo gregario di Bartali – ebbe l’ordine del gran capo Eberardo Pavesi (l’Avocatt) di attaccare. Cento chilometri di assolo, il primo di un bordone esaltante, nella pioggia e nella nebbia dell’Appennino tosco-emiliano: Orio Vergani, scrittore prestato al ciclismo, sottolineò, con un’intuizione felice, che un atleta di quel livello non si era mai visto. Coppi, a vent’anni, otto mesi e diciotto giorni, il 9 giugno 1940 si aggiudicò il primo dei suoi cinque Giri. Il 10, dal balcone di Piazza Venezia a Roma, Benito Mussolini annunciò l’ingresso dell’Italia in guerra: la folla, manzoniana nella sua demenzialità, applaudì alla tragedia imminente.
10 giugno 1949, 17a tappa: Cuneo-Pinerolo
Adolfo Leoni in rosa, un asso ma un passista velocissimo, di sicuro non uno scalatore, e Fausto Coppi con cinque colli da spianare: la Cuneo-Pinerolo parve subito il palcoscenico ideale per il Campionissimo. Nessuno però, nemmeno il coppiano più fervente, si immaginò quel che accadde. L’Airone – infastidito da uno scatto mattutino di Primo Volpi – partì già sul Colle della Maddalena. In territorio francese, mentre spioveva nella fanghiglia, la tappa si trasformò in una gigantesca cronometro individuale: il Vars e l’Izoard aprirono una voragine tra Coppi e gli inseguitori. Dopo il Monginevro e il Sestriere, 192 chilometri di fuga solitaria e cinque forature, il fuoriclasse di Castellania arrivò a Pinerolo, precedendo di 11’52” il solito Bartali e di 19’14” un gruppetto comprendente Alfredo Martini, Giordano Cottur, Giancarlo Astrua e Giulio Bresci. La più grande impresa sportiva del Novecento.
13 giugno 1950, 18a tappa: Napoli-Roma
Per la seconda volta, la prima fu nel 1911, la manifestazione si concluse nella città eterna. A sorpresa ma non troppo, fu la vernice assoluta di uno straniero, un irresistibile Hugo Koblet. Il traguardo parziale, ad appannaggio delle ruote veloci (prevalse Oreste Conte), divenne una passarella trionfale per lo zurighese. Che incontrò (con la maglia rosa indosso) Pio XII in udienza. Il biennio dorato del Pédaleur de Charme, 1950-51, ha pochi eguali nella mitologia dell’èra dei giganti: l’unico atleta che – per classe esibita – fosse paragonabile a Coppi.
8 giugno 1956, 21a tappa: Merano-Monte Bondone
Più di nove ore in sella, nella bufera, pioggia e neve, attraversando Costalunga, Rolle e Brocon per giungere sul Bondone. L’Angelo della montagna Charly Gaul, a suo agio nelle giornate fredde, ribaltò la classifica con un numero leggendario. Dietro, l’inferno: Pasquale Fornara, capintesta e a un passo dal trionfo, abbandonò con un principio d’ipotermia. Nino Defilippis, in rosa virtuale, alzò bandiera bianca (...) sul Bondone. Una tregenda: più di sessanta corridori si ritirarono. Fiorenzo Magni, indietro, con una clavicola rotta, rimontò e chiuse terzo quella giornata e secondo in classifica. Gaul, che relegò Giuseppe Fantini a quasi otto minuti, fu aiutato a scendere (in stato confusionale) dalla bici: un quarto d’ora dopo, in albergo, capì che aveva vinto il Giro...
1 giugno 1968, 12a tappa: Gorizia-Tre Cime di Lavaredo
Ancora uno scenario dantesco, stavolta le guglie di Lavaredo a far da giudice. A dispetto di un fuga di coraggiosi, che prese ben nove minuti sul gruppo dei migliori, Eddy Merckx, campione del mondo e ormai inarrestabile, contrattaccò. Li rimontò uno a uno, senza pietà: l’ultimo, sulle rampe finali delle Tre Cime, nel nevischio, fu Giancarlo Polidori. Persino Gianni Brera, per ridimensionare lo spauracchio del belga vincitutto, scrisse che Merckx era – geneticamente – solo (?) un altro Van Steenbergen o Van Looy. Non aveva compreso la mostruosità dell’evento e del soggetto: lassù, sui Monti Pallidi, cominciò ufficialmente il Merckxismo. Per oltre un lustro, non ce ne sarebbe stata più per nessuno.
6 giugno 1974, 20a tappa: Pordenone-Tre Cime di Lavaredo
Il quinto Giro di Merckx, l’epilogo della sua dittatura, arriva con una delle tappe più belle di sempre. Indimenticabile quanto selvaggia. Il Cannibale era leader, ma la matricola Gibì Baronchelli e il vecchio rivale Felice Gimondi erano rispettivamente a 33 e a 41 secondi dal mattatore. José Manuel Fuente, grimpeur irresistibile, scattò ai meno dieci dalla vetta e non fu più ripreso. Nel plotoncino dei mammasantissima, la sceneggiatura perfetta: il giovane Baronchelli staccò – in mezzo al pandemonio dei tifosi – Merckx. Tista, a mille metri dallo striscione, era virtualmente in rosa: Merckx, una belva ferita, seppure non al cento per cento, fece l’ultima erta à bloc. Gli mangiò venti secondi e conservò la maglia per appena dodici. Baronchelli, ventunenne, promessa mai mantenuta del tutto, non vincerà mai un Giro.
6 giugno 1987, 15a tappa: Lido di Jesolo-Sappada
La maglia rosa sabotata da un coéquipier, in un golpe ideato con un paio di squadre avversarie (?): una roba mai vista. Quando Stephen Roche attaccò Roberto Visentini da lontano, scendendo la Forcella di Monte Rest, in una delle giornate più incredibili mai vissute in gruppo, aveva in mente un piano. Che realizzò, a causa dell’ingenuità di Visentini e della Carrera, e grazie alle amicizie di chi voleva firmarlo per l’anno successivo: Fagor e Panasonic. Le maledizioni del Visenta, che saltò più di testa che di gambe, riportarono l’irlandese in testa alla generale. La frazione, surreale, conclusa con i fischi e gli insulti del pubblico verso la (nuova) maglia rosa sul palco, fu vinta da quel mattacchione di Johan van der Velde. Sappada, da quell’episodio, non è più soltanto un paese ma uno stato dell’anima: il luogo dove, al di là dei buoni e dei cattivi delle favole, esistono solo vittime e carnefici.
5 giugno 1988, 14a tappa: Chiesa in Valmalenco-Bormio
Quando i girini affrontarono il Gavia, Franco Chioccioli era il capoclassifica e la contesa sul filo. Iniziò a nevicare fitto, manco fosse febbraio, e Johan van der Velde, in maglia ciclamino, impose la sua legge. Sullo sterrato, sprovvisti del vestiario adatto per un momento d’inverno all’incipit dell’estate, la corsa deflagrò. Van der Velde, primo al gipiemme, si tuffò in discesa senza nemmeno un impermeabile: sarebbe arrivato a Bormio, 47 minuti dopo il vincitore. Molti rischiarono il congelamento, alcuni la vita, altri (Jeff Bernard, Urs Zimmermann, Chioccioli e Visentini) persero il Giro. I lupi del Gavia furono Erik Breukink, primo, e Andy Hampsten, secondo. L’americano, scalatore di lusso, si sarebbe poi imposto in una delle edizioni più belle di sempre, forse la migliore dell’èra moderna.
5 giugno 1999, 21a tappa: Madonna di Campiglio-Aprica
L’inizio della fine di Epolandia, un’epoca scintillante di super performance, ha l’odore acre della mattina in quel di Madonna di Campiglio; quando Marco Pantani (con il successo in tasca) venne estromesso per ematocrito alto. Nemesi del Tour 1998, mentre Roberto Heras si aggiudicava la tappa, coperto dal rumore bianco sgomento e un po' ipocrita, segnò profondamente lo sguardo di chi avrebbe guardato da quel momento lo spettacolo. Pantani, un talento straordinario e fragile, da morto sarebbe divenuto – lui malgrado – l’ennesima figurina pasolinesca di un’Italia immobile: quella dei profeti dell’ovvio, con il prossimo libro o la prossima fiction da vendere.
19 maggio 2003, 9a tappa: Arezzo-Montecatini Terme
Con addosso la maglia iridata, e in Toscana, la sua regione (le Fiandre italiane), e pure battendo l’erede designato Alessandro Petacchi in uno sprint regale. Mario Cipollini, il velocista-simbolo degli anni Novanta, sorpassò così il grande Alfredo Binda nel conto delle vittorie di tappa al Giro: quarantadue sigilli per il Re Leone, uno in più del fuoriclasse di Cittiglio.
9 maggio 2011, 3a tappa: Reggio Emilia-Rapallo
Lo sprint vincente di Angel Vicioso sembrò sordo, privo di suono: il silenzio era calato, all’improvviso, con un’inquadratura televisiva (che il regista ebbe il tatto di togliere immediatamente) del corpo esanime di Wouter Weylandt sull’asfalto. Il belga era morto scendendo il Passo del Bocco: il giorno dopo, il plotone gli aveva dedicato una specie di funerale vichingo, neutralizzando la tappa in un mare di lacrime e di dolore. Il destino tragico di Weylandt al Giro si accomuna a quelli di Emilio Ravasio, Juan Manuel Santisteban e Orfeo Ponsin. Il ciclista è un mestiere epico e pericoloso, a ogni caduta temiamo per le sorti di un uomo che potrebbe essere nostro fratello o nostro figlio.
25 maggio 2018, 19a tappa: Venaria Reale-Jafferau
Il giorno prima, a Prato Nevoso, la maglia rosa Simon Yates (che aveva dominato fin lì) mostrò per la prima volta delle crepe. Nella frazione-monstre della Via Lattea, Chris Froome (quarto in classifica a 3’22”) provò a ribaltare il Giro da lontano. Sullo sterrato del durissimo Colle delle Finestre, dopo il (classico) forcing del trenino Team Sky, il keniano bianco partì a 82 chilometri dal traguardo. Una follia, lucida, che trasformò il tappone in un braccio di ferro tra lui, in fuga, e Tom Dumoulin (rosa virtuale) dietro. Yates disperso, la corsa, esplosa.
L’olandese smarriva il Giro nel falsopiano in discesa del Finestre, aspettando per qualche minuto Sébastien Reichenbach, luogotenente di Thibaut Pinot: davanti, Froome sorvolava il Sestriere e trionfava sulla montagna sopra Bardonecchia. Un gesto coppiano (...) nel bel mezzo del ciclismo degli SRM e delle bici in carbonio. Definito di “altri tempi” da chi non comprende che questo sport vive – da sempre – un tempo proprio, sospeso, suo, originale. Che riporta all’origine e al senso (magnifico e brutale) dello stesso. Amen. Viva il Giro.
SIMONE BASSO
Seconda parte (remix) pubblicata il 5 maggio 2017 da Il Giornale del Popolo
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