Contromano ai carri armati


di ANDREA CAMILLERI
la Repubblica, 4 maggio 2008

Da più di quindici giorni non sapevamo nulla di mio padre, rimasto a Porto Empedocle. Mia madre stava quasi impazzendo. Dopo lo sbarco alleato avevo visto passare dei marinai in ritirata e a qualcuno di loro avevo domandato notizie. Mi avevano concordemente risposto che Porto Empedocle era stata del tutto distrutta dai violenti bombardamenti e che i morti erano tantissimi. Non resistetti oltre. 

Chiesi in prestito a mia zia Concettina la bicicletta che teneva in casa e partii con un mio cugino, Alfredo, di qualche anno più piccolo di me, e anche lui mancante di notizie dei suoi famigliari. Alfredo aveva una sua bicicletta, se l'era portata appresso quando era venuto a trovarci prima dello sbarco. Era una bicicletta di gran marca, costosa, della quale andava fiero. La mia, invece, era una Montante. 

Che il viaggio, una cinquantina di chilometri, sarebbe stato perlomeno assai difficile, lo capimmo da subito, direi quasi dal primo centinaio di metri. Il fondo stradale non esisteva più. Non solo buche e avvallamenti, ma si camminava su uno strato composto da pezzetti di lamiera, da viti, da ruote schiacciate dai carri armati, da vetri rotti, da pezzi di fucili, da schegge di vario tipo, i resti insomma dei camion e dei mezzi italiani e tedeschi colpiti durante la ritirata e le cui carcasse bruciate giacevano ai lati della strada. 

Ad Alfredo la prima foratura capitò fatti sì e no due chilometri. Ci colse un leggero scoramento. «Se la strada è tutta così, non arriveremo mai». Fatta la riparazione, ripartimmo. Ma il peggio venne da lì a poco. All'improvviso ci trovammo davanti un muro, fatto da jeep e carri armati che procedevano affiancati in senso opposto al nostro e non lasciavano varco nemmeno per uno spillo. Io, che marciavo in testa, pensavo che in qualche modo mi avrebbero lasciato passare, ma quelli non si spostarono e io, per non finire stritolato da un carro armato, mi gettai fuori strada, persi l'equilibrio e rotolai per qualche metro con tutta la bicicletta. Alfredo ebbe la stessa sorte. Solo che, al contrario di me, aveva di nuovo bucato. Perdemmo altro tempo. Poi, essendo la colonna militare diventata un pochino meno fitta, rimontammo in sella. Senonché, di tratto in tratto, la colonna tornava a infittirsi e noi venivamo regolarmente gettati fuori strada. A un quarto circa del percorso, Alfredo forò per la terza volta. E io decisi di abbandonarlo al suo destino, visto che la mia bicicletta procedeva imperterrita, salda, forte, non subiva forature, la catena rimaneva sempre ben ferma al suo posto, i raggi nelle cadute non si rompevano, il manubrio non si piegava di un millimetro, una vera meraviglia. Ripresi, da solo, il mio viaggio. E ogni tanto le parlavo, alla bicicletta, carezzandole la canna come se fosse la criniera di un cavallo: «Dai, brava, continua così». 

Ogni tanto mi fermavo, un po' per la stanchezza e un po' per guardare meglio qualcosa che mi colpiva. Per esempio, a un tratto mi venne di traversare un paesaggio che mi sembrò un'immagine dell'inferno dantesco. Decine e decine di alberi troncati, arsi, anneriti dal fuoco, le stoppie diventate macchie scure sulla terra uniformemente bruciata, non un filo d'erba, niente più che fosse vivo. Era il teatro di uno scontro tra carri armati, cinque o sei dei nostri erano ancora lì, sventrati, combusti e dalla torretta aperta di uno di essi pendeva il corpo di un carrista che non aveva fatto in tempo a saltar giù. La giubba, rovesciata, gli nascondeva la faccia. Dalla tasca gli era caduto un pacchetto di lettere. Lo raccolsi, ripromettendomi di farlo avere, in un modo o nell'altro, ai suoi. Vicino agli altri carri armati, altri cadaveri. C'era un odore insopportabile, si era quasi alla fine di luglio e il sole arrostiva uomini, animali, piante. 

Ripresi a correre, e via via che procedevo, mi andavo spogliando e gettavo via tutto, pantaloni, camicia, canottiera. Rimasi letteralmente in mutande e coi sandali ai piedi. Lo facevo per il caldo, certo, ma sentivo di farlo anche per un'altra ragione che sul momento mi sfuggiva. Era dentro di me, quella ragione, e non riuscivo a tirarla fuori. E sentivo che, più che l'ansia per la sorte di mio padre, era quell'oscuro motivo che mi dava la forza di continuare a pedalare, malgrado la stanchezza più psicologica che fisica, malgrado la sete. Già, perché la borraccia era vuota da un pezzo e aveva seguito la sorte dei miei indumenti. 

Mi ero fermato solo una volta a domandare da bere a un contadino e poi non avevo voluto più perdere tempo. Fu quasi alle porte di Agrigento che vidi scritto sul muro di una casupola, a caratteri cubitali, con della vernice verde: «W la libertà». E allora di colpo capii la vera ragione per la quale mi ero spogliato strada facendo. Oggi può sembrare retorica ma allora non lo era per niente. Sentivo di dovermi presentare nudo davanti a una realtà nuova, e tanto attesa, come per una seconda nascita. Se avessi potuto, avrei gettato via anche la vecchia pelle. 

Appena dentro Agrigento, scorsi un mio parente, lo chiamai. Non credo che ci fossimo reciprocamente simpatici, ma un attimo dopo ci abbracciavamo come fratelli superstiti di un naufragio. «Hai notizie di mio padre?» domandai, mentre il cuore mi si fermava in attesa della risposta. «Sì, ieri pomeriggio sono andato a Porto e l'ho visto». Mi sentii diventare di ricotta. Le gambe non mi reggevano, tutti i fasci muscolari mi si erano allentati, non avevo più forze. Rimontai e dopo pochi metri, senza una ragione plausibile, caddi sul selciato. Fu la prima caduta che mi fece male, tra le tante di quel viaggio. Proseguii a piedi fino alla Passeggiata, dalla quale si vedeva il mare. Solo che il mare non c'era più. Era stato sostituito da un ammasso di acciaio e ferro, da centinaia di navi affiancate fino a perdersi all'orizzonte, erano in attesa del loro turno per scaricare i rifornimenti bellici per l'esercito alleato. Restai esterrefatto. 

Un tale, che mi stava in silenzio accanto, a un tratto commentò: «Si potrebbe arrivare a piedi in Tunisia». Per fortuna la strada che da Agrigento portava al mio paese era quasi tutta in discesa, così potei farcela. Il corso però non potei percorrerlo in bici, dovetti smontare. Vi passavano centinaia e centinaia di anfibi che portavano gli armamenti dalle navi ai depositi e uscendo dal mare per trasformarsi da barconi in camion, lasciavano cadere l'acqua che avevano nelle chiglie, sicché mezzo metro di fanghiglia copriva le basole. Sulla facciata di una casa c' era un cartello enorme con sopra scritto: «Chi trova bombi - od altri ogeti inexplosivi - non tocare le! - ma portare le - al commando». I miei paesani si chiedevano perplessi: «Ma se non le possiamo toccare, come facciamo a portarle al comando?». 

Trovai mio padre in Capitaneria. Gli americani l'avevano nominato "Master harbor", comandante civile del porto, e non poteva lasciare il suo lavoro. Mi diressi verso casa, avevo l'assoluta necessità di lavarmi, di distendermi su di un letto. Ma dal portone di casa si partiva e procedeva lungo le scale un'ordinata fila di soldati americani ognuno munito di sapone e asciugamano: avevano scoperto che il mio appartamento era uno dei pochi muniti di vasca da bagno e doccia e lo stavano adoperando. Spiegai chi ero (quasi tutti erano figli di siciliani emigrati negli Usa e parlavano il dialetto) e mi cedettero immediatamente il primo posto nella fila. In casa non c'era un mobile, uno specchio, una sedia, un libro, niente, mio padre mi spiegò dopo che approfittando dei bombardamenti che avevano preceduto lo sbarco gli sciacalli si erano portati via tutto. Per dormire, si era procurato una branda militare e ne trovò un' altra per me. Su quella branda ho fatto, per la stanchezza e le emozioni, uno dei sonni più profondi della mia vita. 

ANDREA CAMILLERI
© 2008 Sellerio Editore Palermo

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