FantaGhirotto


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books © 

Stanghella (Padova), venerdì 2 febbraio 2018 

- Allora, Massimo Ghirotto: per chi non ti ha visto correre, che corridore era Massimo Ghirotto? 

«Un corridore che dava tutto se stesso, non mi mettevo mai limiti, sapevo quali erano i miei limiti ma non me li mettevo mai. Ero un corridore che andava bene sul passo, tipicamente un passista, mi difendevo nelle volate di gruppo e sapevo andare bene anche nelle salite, tant’è che vinsi all’epoca in qualche arrivo in salita, la cronoscalata della Futa. Un corridore gregario che alle volte si trasformava anche un po’ capitano. Vinsi una prova di coppa del mondo, vinsi una corsa a tappe anche di quattro giorni, quindi se mi guardo un po’ indietro trovo tutte queste “stranezze”, no? Mi piaceva cercare di provare il limite su tutte queste cose». 

- Ma quando ti volti indietro lo fai con il sorriso o magari con un pizzico di rammarico, ah però se avessi avuto qualche giornata di libertà in più… Oppure la tua dimensione era quella ed eri soddisfatto, realizzato di quella dimensione. A tracciare un bilancio? 

«Mah, guarda, queste sono quelle domande con il senno di poi, cioè io… ma no, io non ho rammarichi, non ho nessun rammarico. So di essermi speso per dei grandi capitani, l’ho fatto volentieri, abbiamo vinto tanto. E so di avere avuto delle buone occasioni, di aver anche… essere riuscito a guadagnarmele e a coglierle. Però nessun rammarico, credo che esser stato un corridore in una grande squadra come la Carrera mi ha dato tanto e credo di aver dato qualcosa anch’io». 

- Quanto era grande quella Carrera in quegli anni? Parliamo di trent’anni anni fa, anche oltre… 

«Credo che fosse forse era la più grande perché Boifava ebbe l’intuito di creare veramente una squadra europea e lo sponsor chiedeva di avere corridori un po’ di tutti i Paesi, svizzeri, belgi, irlandesi, spagnoli, tedeschi, austriaci. E Boifava fece questo. Tant’è che avevamo poi anche biciclette di colori differenti, no? Per identificare che corridore di che nazionalità era. Ma credo che seppe veramente creare una squadra con uno zoccolo duro, con i vari Bontempi, Leali, Perini e anche degli stranieri come Mächler, mi ricordo». 

- Che quell’anno, il 1987, vinse la Sanremo, tanto per dire… 

«Quell’anno vinse la Sanremo, la Tirreno-Adriatico, il Giro di Svizzera no, è stato Urs Zimmermann che vinse il Giro di Svizzera, ecco un altro corridore che a tappe sapeva andare forte. Quindi venendo alla tua domanda credo che Boifava mise insieme veramente dei corridori importanti, tant’è che eravamo tra le prime squadre a fare i tre grandi Giri. Noi facevamo per più anni Vuelta, Giro e Tour. All’epoca la Vuelta era la prima delle grandi corse, poi Giro, poi il Tour». 

- E aveva una dimensione molto molto ridotta rispetto agli altri due. Era un movimento ancora piuttosto indietro. Una corsa ritenuta minore, non per la difficoltà ma proprio per l’appeal che poteva avere all’epoca… Si correva in funzione del Giro. Quei pochi italiani che la correvano… 

«Sì, perché poi: esatto. Quei pochi capitani che potevano vincere miravano più al Giro, per quanto riguarda gli italiani e, andando un po’ all’estero, al Tour. È chiaro che comunque la Vuelta era una corsa difficile e faticosa. Perché ad aprile ancora per il clima, per la preparazione, vuoi perché c’era sempre tanto vento. Io difatti l’ho fatta un anno, vinsi anche una tappa e poi ho detto: Davide, io non faccio più la Vuelta, perché non è la “mia” corsa. E però era veramente… magari un profilo un po’ più basso perché adesso, cambiando di stagione e arrivando proprio in prossimità del mondiale, tutti sono interessati. Però era una grande corsa, eh. Si poteva dire che vincere una tappa per me e vincere, a essere sul podio in un Giro di Spagna, te la guadagnavi tutta». 

- Mi raccontava Pagnin, che vinse delle tappe importanti là, che lui si trovava meglio a correre là anche per il calore della gente, invece magari dal punto di vista delle strutture e delle infrastrutture era una Spagna ancora molto arretrata rispetto a quella di oggi. Anche nell’organizzazione delle corse… 

«Mah, sì. Probabilmente era un po’ inferiore a quelle che erano… va bè, il Tour era superiore a tutti, questo è chiaro, ma anche il giro comunque per noi italiani ti dava l’emozione anche come organizzazione era sempre fatta in modo ottimo. Però la Vuelta ti concedeva anche qualcosa di più, perché c’era un po’ più uno spirito battagliero, tant’è che là pronti-via c’era sempre una fuga. E quello che succede - tra virgolette (tra parentesi, nda) – anche adesso, no? Se vogliamo… Invece i primi anni all’epoca c’erano ancora i grandi sceriffi, no? Che riuscivano a controllare al Giro d’Italia la prima parte della tappa e poi si “aprivano” (allentavano, nda) le briglie e via. Invece no, la Vuelta, là, pronti-via, era sempre battaglia. E Pagnin era uno di quelli che sapevano anche sfruttare questa situazione. Era un battagliero di prim’ordine». 

- Hai buttato lì delle perle che magari per uno che è stato in Carrera sembra la cosa più naturale al mondo, ma all’epoca – hai parlato di biciclette personalizzate, di corridori internazionali…. La Carrera è stata all’avanguardia in tante, tante cose, in tanti aspetti: si può dire, forzando magari un po’ la mano, però per rendere l’idea, e fatte le debite proporzioni che la Carrera era ina sorta di Team Sky con trent’anni di anticipo? O se preferisci, il contrario: il team Sky è la Carrera di oggi… Oppure la forbice era troppo più vicina allora e invece troppo larga oggi, magari… 

«Mah, la forbice larga va soprattutto perché Sky ha un budget enorme, questo fa la differenza. C’è poco da fare. Invece Boifava all’epoca era un manager che stava molto attento anche a quella che era la gestione delle spese. E… mah, si può dire comunque… può assomigliare così nella tipologia della grandezza del team. Perché per esempio, la Carrera è stata una delle [prime] squadre ad avere il motorhome…». 

- Addirittura la seconda, se ho ricostruito bene. Perché qui c’è un conflitto. C’è chi dice che la prima è stata la squadra di Stanga, che l’ha comprato usato dalla PDM… A te come risulta? Che ai tempi poi non era un vero motorhome ma un pullman, di quelli da gita, adattato… 

Sì, può anche essere che magari sia stata la seconda… Io quello che dico è che Stanga, persona che io ho sempre apprezzato come manager, come direttore sportivo ha imparato molto da Boifava, quindi mi verrebbe da dire che Stanga è arrivato dopo». 

- Cioè: è arrivato secondo. 

«Esattamente. Magari questo sarò un punto da approfondire». 

- Un altro assist che mi hai buttato lì: tu dicevi andava a prendere corridori all’estero, i forti. Per esempio Boifava vede Roche che fa terzo al Tour nell’85 e lo porta in Carrera, poi un ’86 sfortunato per quella caduta alla Sei Giorni di Parigi nel novembre 1985, quasi un anno fermo e poi il boom con Giro-Tour e mondiale. Ecco: i Tacchella volevano allargare così il marchio della Carrera jeans… Perché loro non avevano il mobilificio come potevano essere i Del Tongo che magari avevano la loro realtà (solo) in Italia, no? Volevano allargare il loro marchio di jeans in tutta l’Europa e quindi il loro obiettivo, perlomeno teorico, era prendere un corridore forte per ogni nazione. Quindi Schepers in Belgio, Roche in Irlanda, il nucleo di svizzeri che citavi tu… ti risulta? 

«Mi risulta anche perché i Tacchella erano veramente degli imprenditori che guardavano all’estero, guardavano avanti. A un certo momento la Carrera si piazzò veramente nel mercato europeo se non mondiale tant’è che fece investimenti anche nei paesi orientali…». 

- Aprì anche degli stabilimenti… cominciò quello che oggi chiamiamo delocalizzare… cominciò con 20-30 anni di anticipo. 

«Esattamente. Però sapevano anche che attraverso… erano grandi appassionati i Tacchella, eh – erano veramente appassionati…». 

- Ma soprattutto uno dei due, Tito era più quello del ciclismo, vero? Perché Imerio… 

«Imerio era più il manager che gestiva l’azienda ma Tito aveva il cuore in questo sport». 

- E Domenico invece? 

«Domenico si vedeva e non si vedeva però comunque faceva parte del…». 

- Il quarto [Eliseo] è un frate, vero? 

«Un frate sì… Quindi una famiglia importante. Però comunque evidentemente diedero a Boifava questa mission dicendo: dobbiamo diventare internazionali e quindi dobbiamo cominciare a correre un po’ in tutta Europa, tant’è che noi – veramente – correvamo… incominciavo dalla Spagna con la Vuelta Valenciana, andavamo ad allenarci a Calpe dove adeso ormai tutti vanno. Quindi si era cominciato ad avere una visione più internazionale e questo ci consentiva anche a noi di crescere ecco perché io ero ancora un ragazzo giovane e quando si andava a correre in quelle gare, non rimanevi solo qua in Italia per fare il Laigueglia come apertura, si andava già fuori». 

- Ecco. Quando eri “giovane”: mi racconti invece come tu sei arrivato tu al professionismo, come mi avevi accennato non ti sentivi pronti. Qual è stato il tuo percorso per arrivare al professionismo? 

«Mah, onestamente dire che ero certo di arrivare al professionismo, no. È chiaro che penso sia per tutti, però era un sogno, no? Mi piaceva il ciclismo, ho fatto questi tre anni da dilettante, già al secondo Piero Pieroni mi chiese se volevo passare professionista con lui ma non ero convinto. Sapevo…». 

- Venne a casa tua addirittura, a proportelo… 

«Sì… Piero [Pieroni] venne a casa mia. Sapevo che probabilmente era un passo un po’ troppo azzardato, avevo anche paura di fallire perché se fallivo, ritornare indietro sarebbe stato un fallimento… Quindi decisi sempre di testa mia perché devo dire che mio papà, i miei genitori non mi hanno mai imposto nulla, mai, e questo credo…». 

- Cioè né vietato né spinto per, diciamo… 

«Mah, ti dirò che non mi hanno neanche mai consigliato. Perché evidentemente avevano capito che forse…». 

- Ma la tua era una famiglia di ciclismo, chiamiamola così? Neanche di semplici appassionati? 

«No. No…». 

- Nonostante siamo in queste terre che respirano ciclismo… 

«Eh. A casa mia il ciclismo non è mai entrato prima, è entrato quando ho cominciato io, quindi mio papà era appassionato di calcio ma lo seguiva perché era un agricoltore, sai ai tempi, agli anni Settanta, era ancora un periodo non facile economicamente. Però insomma gli sforzi che hanno fatto sono stati notevoli, mi hanno comprato una biciclettina e quindi per ritornare al mio esordio, decisi di rimanere ancora da dilettante per il terzo anno. E a un certo momento, dopo i mondiali di Goodwood [1982, nda] dove Saronni vinse e io partecipai sia alla strada sia alla Cento km, fuori dalla porta mi bussò Giorgio Vannucci, che fra l’altro ho chiamato qualche giorno fa perché non sta tanto bene e l’ho salutato. E mi disse: giovanotto, vuoi passare professionista? E io lo conoscevo, sapevo che era il direttore sportivi di Francesco Moser, e per me… Non era importante quanto guadagnavo, l’offerta. Era importante passare. E mi fece un contratto biennale e con anche una proposta abbastanza interessante. E lì si avverò qualcosa di unico, per me». 

- Perché lì c’era anche il tuo idolo… 

«C’era Francesco Moser». 

- E chi invece diede la dritta al direttore sportivo Vannucci per prenderti? 

«La dritta fu data da [Giovanni] Falai, il medico storio di Francesco Moser e Giorgio Vannucci, perché mi conosceva come atleta in quanto la Mantovani di Rovigo si appoggiava a lui, a volte. Per far visitare i suoi ragazzi di cui facevo parte anch’io, quindi il dottor Falai disse a Giorgio: prendi quel ragazzo là ché secondo me ha qualcosa da dare. E io insomma gliene fui grato ecco, tant’è che quando vidi il dottor Falai che era con Giorgio Vannucci quando passai professionista, questa cosa ce la raccontammo e… simpatica». 

- E l’aneddoto invece del Giro del Friuli che eri in soggezione a quando risale? 

«Ecco risale nell’82 quando Pieroni passando per strada e andando verso il Friuli dice: dai, vieni su con me che così magari… voleva in qualche modo convincermi, no? E così ti faccio vivere una giornata al Giro del Friuli, salii in ammiraglia, vidi questa gara, tra l’altro c’era anche Riccardo Magrini che correva, quindi un amico, che poi adesso conosciamo per i suoi commenti televisivi. E però, niente, non trovai quella motivazione per dire okay, faccio il salto forse credo che sia stata la decisione saggia». 

- Cioè un passo alla volta, non ti sentivi ancora pronto per quel salto così’ grande. E invece il salto nei professionisti? 

“È stato abbastanza traumatico. Perché all’epoca nell’83 c’erano ancora le gare da 250-260 chilometri: tutte. Sotto i 200, praticamente non esistevano. Quindi per un neoprofessionista che fino a qualche anno prima, l’anno prima, correva sì, 120, 130, 150-160 (km) quand’eran lunghe, cioè trovarsi a fare una gara di oltre 100 km in più è stato traumatico. E lì devo dire che il passaggio per me è stato traumatico, ma qualcosa sono riuscito a capire di me stesso. Perché alla vigilia del Giro d’Italia, si faceva il Giro di Toscana e arrivai secondo, dietro a Fons De Wolf, che ha vinto una Milano-Sanremo, e Vannucci mi voleva portare al Giro. Anzi, scusa: Moser mi voleva portare al Giro. E Vannucci disse no, stai a casa, non è ancora pronto. Me l’ha detto proprio…». 

- Perché sai tanti son stati bruciati così… 

«Sì-sì…». 

- E te l’ha detto adesso? 

«Me l’ha detto per telefono qualche giorno fa, che l’avevo chiamato per salutarlo e mi ricordò ’sta cosa: Guarda che tu… ti ho salvato…». 

- È stata la tua seconda salvezza: prima non eri pronto con Pieroni e poi qua non eri pronto per fare subito i grandi giri con quelle distanze lì… 

«Esattamente». 

- Perché, un esempio calzante, un cagnaccio come Claudio Corti i primi due anni ha sofferto come un cane…

«E che era uno che [da dilettante] ha vinto un mondiale…». 

- E da pro’ due campionati italiani, gregario storico, ed era uno che non mollava mai… e dopo quei primi due anni stava per smettere, diceva: questo qua è troppo per me. Intendo come cilindrata. 

«Eh sì. E quindi non feci il Giro ed è andato meglio così. E lì insomma è stato un passaggio fondamentale ma è stato anche, sai, pensando di andar a fare il giro d’Italia, con il tuo idolo, nella stessa squadra, era qualcosa anche che uno poteva essere tentato: Ma no, Giorgio, dai, tirami dentro, son pronto. E invece io rispettai la decisione, anche perché se non c’è lui ce n’era un altro, c’era un compagno di squadra, quindi…». 

- E dopo invece che il tuo idolo te lo sei trovato da avversario, e che avversario, anche perché penso all’84 ma anche prima un Visentini non è che le mandava a dire, no? A uno come Moser o a come Torriani, che dopo una spolveratina di neve lo togliamo… cosa dici? 

«Mah, guarda, Francesco per me l’ho visto anche qualche settimana fa, siam stati una giornata insieme e abbiam parlato un po’ di ciclismo, ma neanche tanto, è stato un maestro. Una persona abbastanza, come dire, dura eh. Un po’…». 

- Ruvida, burbera? 

«Un po’ ruvida, burbera…». 

- Ma forse solo come autodifesa? 

«No, no: è il suo carattere. È il suo carattere… è il classico, come dire, trentino, di quelli che se la sono guadagnata…». 

- E quindi non ne vuole tante di stupidaggini, di fronzoli, di orpelli. Va al sodo… 

«Esatto. Ecco. E mi ricordo una volta eravamo a una Coppa Bernocchi – sempre primo anno da prof e sempre 250 km chilometri [ma era di 216,6 km nel 1983 e 256 nel 1984, quindi forse era al suo secondo anno da pro’, nda] – a un certo momento, il penultimo giro, quando ormai eravamo all’arrivo, cioè mancava ancora un giro, la corsa doveva ancora chiudersi però a due giri dalla fine essere ancora lì, per me era qualcosa di straordinario, eravamo rimasti una trentina, trentacinque. A un certo momento si gira e mi vede, Francesco, mi fa: oh, ci sei ancora, ma sei un’ombra, non ti vedo mai. È per dire che io continuavo a rientrare dagli staccati, ero sempre lì ma non riuscivo mai a prender la testa perché quando arrivavo davanti cominciava un altro giro… allora lui si girava per capire in quanti siamo in quanti non siamo e lì mi diede una botta morale che… se non ce la faccio, volevo dire, non ce la faccio, ma… ero anche timoroso di dirgliele certe cose. Però…». 

- E quand’è che hai capito che anche tu potevi farcela anche nei pro’? 

«Il secondo anno da professionista. Anche lì non fu facile perché al Giro delle Fiandre che Vannucci mi portò, al rifornimento caddi. Caddi mentre prendevo il rifornimento, sono caduto, ho battuto il gomito per terra, mi sono rotto il capitello radiale. Morale, tre mesi fermo. Perché il capitello radiale è molto critica, come frattura, perché t’impedisce di fare così, di fare così… insomma mi hanno operato, e lì mi sono…». 

- Ti sei spaventato anche per la carriera? 

«Sì, per la carriera perché ho detto: sono in scadenza di contratto, non so cosa succederà». 

- Eri ancora con Moser lì? 

«Secondo anno da professionista, e avevo un contratto di due anni. E quindi mi scadeva il contratto e non sapevo se avevo ancora possibilità di trovare una squadra, insomma io ce la misi tutta, cercai di allenarmi e arrivai abbastanza pronto per la Ruota d’oro che all’epoca si faceva ancora, no? Non so se te la ricordi. Era una corsa bresciana di tre o quattro tappe. E lì feci una bella gara, feci tre quattro belle corse. Da protagonista, ovviamente non vinsi nulla ma non avevo neanche la pretesa perché, sai, io ero lì solo per mettermi in luce, però qualche bel piazzamento e lì’ Boifava mi chiese di passare con la Carrera». 

- Ma ti notò lì quindi, perché era una corsa nel Bresciano, o già ti aveva messo gli occhi addosso? Non lo sai? 

«Non lo so. Questo non te lo so dire, magari mi aveva già messo gli occhia addosso, magari c’era…». 

- Magari qualcuno lo aveva relazionato… 

«Può anche essere, non lo so… Però mi cercò, mi portò da lui in questa camera d’albergo mi propose di passare, e io non ci ho pensato neanche un secondo…». 

- E quando arrivasti lì che Carrera trovasti? 

“Be’, c’era Guido Bontempi che era un velocista emergente, che aveva già vinto». 

- E anche un bel caratterino, vero? 

“Ah be’, tosto. Io sono… è uno dei miei amici veri, quindi ci frequentiamo spesso io e lui». 

- Ma condivido la passione delle moto con lui o no? 

«No, no. Guido per me è stato anche lui un amico di quelli che…». 

- Uno molto leale, vero? 

«Sì, sì, sì». 

- Lui ha detto io sono come i minerva, già uno che ti cita i fiammiferi minerva vuol dire che… 

«Quando si accende…». 

- Cioè mi puoi fregare una volta, ma poi non mi freghi più… magari lui ti dà anche la camicia, la prima volta, però… penso, io l’ho intuita così, pretende una lealtà assoluta perché lui è il primo a dartela. 

«Sì, tant’è che è molto incazzato con Roche, te l’ha raccontato, no? 

- Sììì, sì. Ma non solo con Roche… 

«Ma Guido, sì, poi lì sai… Questo è l’aspetto… è il rovescio della medaglia, quando hai un carattere come dire talmente di personalità, io ti do tutto, ma quando mi freghi una volta non ti do più nulla, a volte…». 

- Croce sopra, però il mondo non è bianco o nero… 

«Esatto. Quindi bisogna anche saper dire: va bè, questa volta magari tre la faccio passar liscia, in qualche occasione, la seconda magari ci guardiamo negli occhi…». 

- Poi magari dipende anche dalla gravità delle situazioni… Ma è lui un po’ manicheo: o di qua o di là… 

«Sì, sì. Trovai una Carrera… poi c’era Visentini voglio dire, uno che aveva vinto il mondiale juniores, che sapeva andare forte nelle corse a tappe, quindi sapevamo di avere un uomo che poteva vincere la Tirreno-Adriatico, che poteva vincere magari una tappa o anche un piazzato al giro d’Italia, sai… adesso non me ricordo ben la squadra completa, però…». 

- Mi dici alcuni nomi con i quali hai più legato o meno, oppure i compiti: cioè tu dovevi fare così, quello cosa… Tu, Leali, Perini… 

“Bravo: c’era Perini, c’era Leali. Avevano già uno zoccolo duro come squadra». 

- E Rossignoli? 

“Veronese. Quello è arrivato dopo di me. Rossignoli, il fratello aveva corso da professionista che tra l’altro è morto un paio di anni fa, sono andato anche al funerale, però lui passò professionista uno o due anni dopo di me, un ragazzo insomma un buon corridore che doveva aiutare». 

- Però lui non andò al Tour dell'87. Quell’anno lì voi avevate uno squadrone che vinse il Giro ma al Tour avevate uno squadrone addirittura più forte. Per dirti non ci andò Chiappucci al tour perché era ancora un ragazzino. 

«Sì, sì. Ma non c’era al Tour dell’87, ma c’erano tutti i marpioni. Ecco era già una squadra formata». 

- I compiti come ve li spartivate, al di là di chi c’ìera anno dopo anno, corsa dopo corsa? 

«Ma sai sostanzialmente io ero un corridore che aveva, come dote, era un passista, dovevo ancora capire…». 

- Quanto pesavi? 

“76-77». 

- Per? 

“1,89». 

- Per dirti, Guidone che è 1,87 e pesava 71… quando era… 

«Sì? Dubito…». 

- Dubiti? Di più, dici? 

«Sì, sì, sì. Di più di me di sicuro, poi lui fisicamente era massiccio. Credo che questo è un dato che devi verificare». 

- Mi confondo con Leali perché lui è 1,87 per 72, lui ha provato 71 e 73 per vedere come reagiva: 71, più leggero, andava meglio in salita però in pianura ha detto facevo una fatica… 73, avevo potenza in piano ma andar su era dura perché un chilo, due chili in più gli faceva tanta differenza. 

«Eh be’, sì, come no... Io ho vinto un Baracchi con Leali. E nono be’ una squadra potente di sicuro. Quindi poi a un certo momento arrivò anche un altro velocista, Abdujaparov. Un altro veramente che faceva i numeri». 

- Quello era anche un po’ pericoloso. Almeno a sentire gli avversari… 

«Ma, onestamente, ti devo dir la verità, era uno che si buttava dentro, ma non l’ho mai trovato un criminale». 

- Come un Mark Cavendish oggi? 

Perché là poi all’epoca se facevi il criminale, la prima volta ti passava la seconda volta ti prendevano, non è che ti picchiavano però ti mettevano a posto, no? Perché la vita è la vita per tutti, eh. Ma anche adesso probabilmente, solo che adesso…». 

- Cavendish è un paragone calzante o no? Considerando che oggi ci sono mile telecamere eccetera. 

«Sai, Abdu era uno che a volte…». 

- Un altro che tagliava molto era Tyler Farrar, no? 

«No, secondo me uno era [Robbie] McEwan era uno che sapeva saltare da una ruota all’altra, non aveva mai una squadra che gli tirava la volata». 

- Però in maniera corretta o no? 

«In maniera corretta. Ma sai, bisogna anche, in volata non è che, voglio dire, ah aspetta, passi te, bisogna anche sapere voglio dire, allargare anche i gomiti, no?». 

- Mestiere, mestiere… Basta guardare cosa è successo al Tour fra Sagan e Cavendish… 

«Con Sagan?». 

- Eh, per dirti… 

“Be’, io ho la mia opinione». 

- Dimmela, dimmela. Volentieri… 

«Che Sagan secondo me non era neanche da squalificare». 

- Anche secondo me, io però alla prima ripresa che ho visto. Però dopo invece che cosa si sono inventati, che l’hanno voluto colpire per quanto era successo quattrocento metri prima, allora col senno del poi… ci hanno messo una pezza perché forse l’hanno combinata grossa… per me, eh. In tv però non lo possiamo dire… 

«No, no, certo. Ma allora di cosa vogliamo parlare, di quello che è successo lì o di quello che è successo prima? Lì, non è neanche da squalificare». 

- Infatti se ti ricordi lui in un primo momento l’avevano retrocesso al 48° posto, ti ricordi? Non lo avevano espulso. 

«Ma non era neanche da retrocedere, secondo me». 

- Dopo invece: ah, sono arrivate queste altre immagini, allora è stato fatto qui, ha fatto là e alla terza… 

“Va be’, comunque secondo me è troppo grossa, ad ogni modo…”: 

- Anche secondo me. Non so se quest’anno succederebbe… 

«Eh. Io fossi stato Sagan…”: 

- Ha provato a fargli causa, ma ormai… cosa facevi al posto di Sagan? 

«No, sai cosa avrei fatto? Io dico: va bene, adesso quest’anno non vengo più al Tour». 

- Però non so se allora avrebbe gradito. 

“È quello il problema. Ci son troppi interessi sotto». 

- Capito? Perché in altri tempi, sai cosa c’è? Vado al Giro e alla Vuelta, però la Vuelta è di loro lo stesso, dell’ASO, quindi o veniva al Giro, ma la Bora salta il Tour secondo te? Con quello che ha investito? 

«Eh… No». 

- Eh, capito? E allora subentrano altre dinamiche e dici… 

«Sono quelle dinamiche che…». 

- Che regolano quel globo che gira… 

«Eh, esatto, quando ci ragioni sopra, un collega vostro tipo Scaramuzzino ma come mai non viene mai a fare il Giro, ma Giovanni, perché ormai, al di là che uno possa fare una scelta, ma gli interessi che ci sono sotto vanno oltre a quelle che sono le logiche…». 

- Ma perché Froome al di là dell’incidentino di percorso di adesso, ha quest’anno viene, ma perché vuole fare il record, per indorare il palmarès? No, perché gli hanno sganciato… Se invece fosse tutto molto più trasparente: guarda, funziona così… No? Ma perché è il primo che viene pagato per fare il Giro? 

«Ma figurati. Perché Armstrong? Armstrong. LeMond. Ma funziona anche così, per carità eh, va bene… Ma comunque, uno poi viene al Giro?». 

- Eh, dipende da cosa decidono… Perché adesso il team Sky ha cambiato strategia difensiva. Prima solo asma, adesso disfunzione renale. Perché punta al patteggiamento. Se col patteggiamento prende una stupidaggine, tipo sei mesi, sì, va bè, metti anche che retroattiva, perde la Vuelta, perde il bronzo a cronometro del mondiale di Bergen 2017, però non butta via i mesi di preparazione. 

«…al Giro. Ma il Giro ci entra?». 

- Dipende da quanti mesi prende. Sennò salta il Giro e almeno fa il Tour o fa la Vuelta. 

«Ma ti dici che lo toccano, sì?». 

- Eh be’, vuoi che non gli facciano niente? 

“Ho il dubbio. Mi viene il dubbio». 

- Col francese, sai viene giù il baraccone. Sai, non c’è più Cookson come presidente UCI, il cui figliolo lavorava… vabbè, lasciamo perdere… 

«No, va bè, sì, sì… per carità…». 

- Va bene. Quindi, mi hai detto dei grandi compagni. E allora non mi puoi non parlare di quei due là: che cosa è successo? Trentun anni fa scendendo verso Sappada? 

«Ma guarda, intanto lì quando siamo partiti, avevamo una squadra forte e quindi…». 

- Aspetta facciamo ordine per chi magari non lo sa: voi siete partiti con il signore che l’anno prima aveva vinto il Giro. Ecco: avevate due co-capitani oppure no? C’era un discorso di gerarchie già precostituito in Carrera? 

«Io ti devo dir la verità: io non lo so. Io non lo so… Chi cominciò il Giro con i gradi di capitani. Vado per scontato che Visentini, essendo vincitore del Giro e sapevamo che il Tour non è che gli piacesse molto, partiva con i gradi di capitano. Secondo la logica. Poi, perché Boifava gli affiancò Roche, questo bisognerebbe chiederlo a lui. Però siamo partiti con una squadra veramente la più forte credo perché Visentini vinse il prologo. Roche vinse la discesa dal Poggio, poi come team abbiam vinto la cronosquadra». 

- E come l’avete vinta: avete dato a tutti una suonata… 

«Esatto. Andavamo a una media velocissima, una roba strepitosa». 

- Guarda, ho qua la foto: alcuni di voi senza casco, alcuni con le lenticolari, alcuni no... 

«Sì, sì. E be’ sai perché i grossi come me avevano le lenticolari, quelli un po’ più…».

- È vero che non tutti in squadra avevano accesso ali stessi materiali, agli stessi mezzi… c’era un po’ un serie A, B, C? 

«No, non credo, cioè nel senso che può anche essere, però è chiaro che io con il peso che avevo non potevo metter delle ruote leggere, perché all’epoca magari si costruivano delle ruote con i raggi saldati, quindi avevano… io non potevo essendo uno… adesso con le tecnologie di adesso, come il carbonio, non ci sarebbero problemi, all’epoca bisognava stare attenti, cioè… dovevamo…». 

- …calibrarle bene. 

“Be’ insomma, funzionava anche così. Evidentemente allora uno poteva aver una ruota più leggera perché pesava meno, è chiaro che Visentini e Roche, i capitani, potevano avere… erano loro già i designati per poter avere i materiali migliori, il sottoscritto anche se aveva una ruota un po’ più pesante, ma chi se ne frega…». 

- Ma tu per esempio a differenza di Guidone, a ste cose non gli davi peso? Guido invece si sentiva come trattato in maniera diversa e quindi magari a lui pesava di più rispetto a te, caratterialmente? 

«Ma a me francamente pesava ma non più di tanto, cioè io cercavo sempre di dare il massimo, non pensando che se avevo la ruota più leggera o il telaio magari quello in alluminio avevo magari una prestazione migliore, cioè…». 

- No, ma al di là di quello, credo che fosse questo il ragionamento: magari non la uso, però credo che gli desse fastidio – e umanamente è comprensibile – il fatto che tu magari anche se sceglievi di prendere quel materiale, quella bici, per te no, per quello là sì, per te no. Anche se magari a te non serviva, per dire. 

«Però c’è sempre, come dire, un equilibrio nelle squadre. Non adesso, nelle squadre di quell’epoca. Cioè avevano i materiali migliori i leader: un Bontempi, era uno che poteva anche chiedere perché era un capitano è uno che faceva le volate, poteva anche essere privilegiato in questo senso. Io onestamente ero uno dei tanti». 

- Quindi è per quello che a lui magari pesava di più che a te al di là del carattere? 

«Esatto, esattamente». 

- Ecco questo è importante da specificare. 

«Infatti a volte per esempio Guidone era anche uno che si sacrificava per la squadra, eh. Cioè quindi è uno che quando…». 

- Eccome. Addirittura se il capitano non gli stava simpaticissimo, ecco. 

«Lui era uno che tirava quando c’era da tirare e in salita teneva duro magari per scavallare sulla prima montagna magari per essere là su quella dopo se ce n’era bisogno perché si risparmiavano altri corridori. E poteva anche fregarsene eh, perché lui era il velocista, quindi poteva dirgli: io mi tengo le mie energie per far la volata…». 

- Non solo: un velocista e Boifava lo voleva portare anche alle classiche dure che fossero la Roubaix o… 

«Esatto. Cioè questo faceva le classiche, e io ero con lui perché facevo la prima parte, con Leali e Perini, Bordonali, Mächler, mi ricordo, e poi esordiva al Giro, andava al Tour, insomma si chiedeva tanto…». 

- E poi andava in nazionale e doveva far lo stesso lavoro… 

«Ecco: questa cosa adesso è finita. Adesso è cambiato il ciclismo in questo senso. Ma... quindi Bontempi…». 

- Quindi non c’erano, che ti risulti almeno, gerarchie, precostituite. Allora ti chiedo però questa cosa. intanto, quando facevate le riunioni, a te risulta che almeno tra roche e Visentini ci fosse questo accordo: che Roche avrebbe aiutato Visentini al Giro e al tour sarebbe stato il viceversa? Roche però, nei suoi tre libri, anche se spesso cambia spesso versione - perché sai com’è Roche, un po’, no? -, sostiene di aver sentito un’intervista nella quale Visentini diceva che a luglio, altro che Tour, lui se ne sarebbe andato al mare. Tu come la vedi? 

«Cioè: si sapeva che Visentini, fatto il Giro, lui non aveva la motivazione per andare a fare il Tour, ecco. È sempre stato molto forzato le poche volte che è venuto il Giro di Francia e tant’è che uno non poteva andare talmente forte al Giro e talmente al piano al Giro di Francia…».

- Due corridori diversi proprio… 

«Due… pur avendo delle qualità che insomma io delle volte mi chiedevo: ma come fai? Cioè non aveva le motivazioni per fare un Tour de France». 

- Ma perché? Non è solo per… lui soffriva con molto caldo vero in particolare… 

«Ma sai non è che…». 

- Perché nell’86 non l’ha sofferto mai… o quasi.

«Non è che sia proprio vera ’sta cosa qua. Cioè lui in quel periodo voleva avere… essere tranquillo, non voleva sacrificarsi più di tanto». 

- E le battute? Tutti me l’hanno dipinto un po’ come anche uno dalla battuta scherzose, anche dissacranti. Roberto ma perché non vai al Tour? Eh., al Tour: tre funerali e mi son pagato il Tour… Ci sta nel personaggio o magari sono battute che gli son state messe in bocca perché fa colore? 

«No, ogni tanto aveva la sua battutina spiritosa. Ma credo che fosse più per fare una battuta di divertimento, magari non lo pensava. No, no, guarda che Visentini era un professionista serio, eh». 

- Ma infatti a me è questo che preme sottolineare. Perché tutti dicono: ah, bello, arrivava in Ferrari, coi soldi, le donne, però alla fine sto qua si allenava. 

«No, no…». 

- No, anzi ti chiedo se è vera quella cosa che alle dodici-dodici e mezza, piedi sotto al tavolo perché lui voleva pranzare: è vera? 

«Sì, ma magari partiva alle sei della mattina. Ma magari partiva alle sei della mattina. Ma magari partiva alle sei della mattina quando doveva fare…». 

- Lui faceva le sue ore, perché poi doveva andare a magiare e poi doveva fare le sue cose, a sciare o… 

“Be’, a sciare ci andava quando era…». 

- A stagione ferma. 

«Sì, e poi magari andava in qualche ghiacciaio quando era la stagione un po’ più calda, ma quando andava in bici, andava in bici, eh». 

- Quindi pomeriggio riposo? 

«Era un corridore. Ma Visentini… non è vero che fosse, secondo me eh, questa è l’impressione che ho avuto quando son stato assieme, che fosse un guascone. Sì, le donne gli piacevano ma come tutti, gli piacevano le belle macchine, ma come tutti…». 

- Ma poi infatti il venire da una famiglia agiata forse creava qualche invidia, magari al di fuori, tra i giornalisti per dirti, non lo so… 

«Ma perché, appunto, aveva la possibilità di poterle avere queste cose qua, cioè lui andava a sciare in montagna, io non ci sono mai andato perché non avevo i soldi per andarci ma non è che non mi piacesse, eh. Quindi...». 

- E poi lui diceva: guarda che certi miei colleghi potrebbero comprarsi un elicottero, quindi… 

«Ecco dopo di che a volte, a volte magari quando lui staccava la spina, la staccava. Ecco: quando lui staccava la spina, la staccava… La staccava magari il periodo estivo quando non aveva voglia di far fatica perché aveva le sue idee. E quindi io non so, per me sì, questa intervista l’ho letta anch’io sui giornali quando si va a leggere sui siti così, Visentini disse: ma, io vado… però magari era una battuta. Io non so sinceramente se Roche l’ha presa proprio veramente…». 

- Invece provo a dirti questa che secondo me è la ricostruzione più attendibile anche per ammissione dello steso roche per quanto riguarda certi aspetti. Lui si fa male alla sei giorni di Parigi, novembre ‘’85, cade picchia sto ginocchio, non riescono a guarirlo, cos’ha cosa non ha va da due specialisti italiani, gli dicono: no, tu smetti di correre, non torni più quello di prima, la prima operazione non va bene, poi trova finalmente questo Muller-Wolfhart che è il medico sociale del Bayern storico quello per dirti, per tornare ai giorni nostri che litigò con Guardiola, ha fatto tipo 35 anni di Bayern, una orba così, arriva Guardiola, ci sono screzi e lo mandano in pensione, diciamo così. E a Roche ha salvato la carriera. Però cosa c’era nel frattempo? Che questo qua guadagnava un bel cifrone, nell’86 praticamente non ha corso perché era sempre rotto, schiena, ginocchio, Boifava si dice voleva abbassargli lo stipendio: hai ancora un altro anno di contratto però qua … dall’altra parte quello là guadagnava ma non rendeva, quindi sentiva la pressione, doveva prendersi il contratto nuovo, quindi giocava su più tavoli, negoziava con Boifava per il rinnovo poi però strizzava l’occhio alla Fagor, alla Panasonic, capito? E doveva far risultati. E poi nell’87 volava. Aveva fatto una gran Parigi-Nizza, che poteva vincerla, ha forato nel finale, Kelly ha messo i suoi a tirare a tutta. Il Romandia l’aveva vinto. Ha buttato via la Liegi che si guardava con Criquielion ed è arrivato Argentin da dietro che gliel’ha fregata. Ha vinto la Volta Valenciana. Aveva gamba. E sai, ‘’sto qua vola, aveva vinto al Poggio… 

«Infatti, c’ero anch’io quella volta. Alla Valenciana perché sì non sapevamo bene di preciso con che dimensione partisse uno con il nome di Stephen Roche. Però alla Valenciana…». 

- Be’, era sempre uno che aveva fatto terzo al Tour, non era uno qualsiasi. Quindi se te lo porti al Giro, come minimo diciamo che hai un piano-b se Visentini non funziona… la mettiamo così? 

«Sì-sì-sì…». 

- E poi Visentini ha vinto nell’86 un gran Giro ma poi non ha fatto più niente. E quindi Roche dice: ma perché devo correre per ’sto qua che al Tour non mi viene ad aiutare, io vado più forte di lui e forse sono a spasso a fine stagione? Quindi attacco. 

“Ho capito però Visentini è andato forte subito, eh». 

- Infatti a San Marino ha fatto fatica, ha preso tre minuti però anche qua: io ti dico le due campane, poi mi dici tu che eri in squadra, io non c’ero. A Termoli era caduto Roche, aveva picchiato il ginocchio. 

«Questa è una cosa che non… mi mancava». 

- Poi lui era in camera con Schepers il suo fedelissimo, hanno architettato questo attacco - loro dicono. Invece c’è chi dice che è nato in corsa. Dopo sai, io in camera con Schepers non c’ero e Roche. Quindi non so dirti se l’hanno studiato o… cioè se è vero o no. 

«Ma guarda che Roche qualche idea ce l’aveva lo dimostra come si è fatta la…». 

- Noi dobbiamo leggerla col senno del poi, tu eri in corsa, quindi… 

«Per come si è sviluppata la corsa, l’idea che roche avesse qualcosa in testa c’è, perché lui». 

- Magari non lì in quel momento... 

«Già prima in discesa attaccò, cioè… allora un capitano…». 

- Lui è andato dietro a Salvador… 

«Ecco: Salvador. Chi era Salvador? Chi era Salvador, nessuno, da andarci dietro, vuol dire che qualcosa aveva in mente…». 

- Anzi, Salvador ce l’ha ancora perché lo sono andati a riprendere perché i “Carrera” tiravano per andare a prenderli. 

«Sì-sì, ma lì… quando uno ha il capitano che ha la maglia rosa, tecnicamente tu devi star lì, non ti...». 

- Quella è la scuola a cui tutti siamo cresciuti, la maglia rosa non è attaccabile, cioè non esiste… 

«Non esiste, quindi che Roche avesse…». 

- Se la fai sporca, la fai sporca… 

«…e probabilmente lì lo doveva capire il direttore sportivo, se c’era qualcosa che… Sai, non è che noi potevamo sapere tutto». 

- Soprattutto in un ciclismo ancora senza radioline… 

«Ecco. Perché poi alla fine credo che Boifava se questi asti qua cercava un attimino di mascherarli e di tenerli nascosti». 

- Sai anche lui come faceva Roche forse giocava su due tavoli, perché io la maglia rosa la devo portare a casa: o di qua o di là… e anche i Tacchella, no?, volevano portarla a casa, credo… Anche voi compagni, per i premi. 

«Figurati. Poi sai anche ’sta faccenda che si dice che c’era una squadra divisa… Sì, è vero che c’era una squadra divisa, però attenzione: si è divisa in quel moneto lì, come squadra, perché a noi faceva specie che un compagno di squadra attaccasse la maglia rosa, cioè non è mai successo. E non è mai successo nella storia». 

- Anche qui ognuno ti racconta la propria versione. C’è chi dice ah ma lui non ha attaccato, lui è andato dietro a questi qua perché c’era la fuga con Bagot e Salvador e Roche dice. Io magari vado a vincere la tappa, c’è la fuga, mi infilo, se vogliono si muovono i Panasonic con Breukink, Millar, Anderson e compagnia. 

«Io ti dico la mia idea. La mia opinione, se fossi io un direttore sportivo adesso, in quella situazione lì. Cioè Visentini tu hai la maglia rosa, Stephen Roche sei uno dei capitani ma stai lì. Non ha senso che tu mi vada via in discesa. Metti caso che io ho bisogno di te magari la salita dopo che c’è un attacco e tutti i gregari rimangono là, con chi…?». 

- Boifava però ha mandato Quintarelli che era sulla prima ammiraglia a dirgli a Roche. Ti devi fermare, e lui si gira… 

«E si è fermato? Allora, allora c’è qualcosa sotto, no? C’era qualcosa sotto…». 

- No, appunto: certo che c’era. Non mi devi convincere. 

«No, no: c’è qualcosa lo dico a me stesso, voglio dire. Ecco. Quindi…». 

- Quello che è più difficile da capite magari è il ruolo di Patrick Valcke. Per me, dall’esterno. 

“Be’ va bè, Patrick Valcke era comunque il meccanico in quel momento lì non è che… che ruolo vuoi che avesse, magari un po’ da guastafeste...». 

- Be’ se lo chiamavano il diavolo… 

«Ma, onestamente, adesso…». 

- Tu dici che è la sua figura è stata un po' ingigantita

«Ma sì, ma sì… Guarda lì che comandava c’era Boifava e sopra Boifava c’erano i Tacchella. Tant’è che quel giorno lì…». 

- No, ma di sobillare Roche che gli ha detto adesso se hai i coglioni devi far vedere che… 

«Ma può anche essere ma credo che quelle cose lì chi è che le può sapere, cioè eventualmente poteva…». 

- Si parlava di un team roche, una squadra nella squadra no? Di quei tre lì, o no? 

«No no si sa, e si sa da sempre che Roche e Schepers era moto vicino a Roche, lo aveva portato lui, viglio dire». 

- E poi se l’è portato anche l’anno dopo. 

«E se l’è riportato perché era veramente un fedelissimo. Ma questo non vuol dire che io non fossi un fedelissimo di Visentini. O qualora avevo Roche fossi un fedelissimo di Roche, cioè… io facevo il mio lavoro. Quello che mi diceva il direttore sportivo lo facevo». 

- Però tu non sei Schepers, perché allora non è stato vicino alla maglia rosa ed è stato vicino a Roche? 

“Be’, è chiaro perché lui…». 

- Aveva fatto delle scelte... 

“Aveva fatto delle scelte. Insomma poi alla fine…». 

- E poi questa cosa che ti dico che forse c’era una strategia a più ampio raggio ma magari qui si sconfina nella dietrologia: ti ricordi la tappa del Terminillo? Bagot era in fuga con Schepers, che neanche ci prova a vincere, neanche fa finta. La tappa la vinci tu, però tu mi torni buono – e i tuoi, la Fagor – mi tornate utili più avanti. E vi hanno aiutato. 

«Può essere che ci sia stato come dire…». 

- Boifava poi ha anche allentato magari qualche mancetta per cercare di chiudere. 

«Sai, credo che queste sono cose che magari girano nei momenti che servono si fa. Si fa sempre ma non determinano poi la fine». 

- Ma secondo te è stato un errore, ammesso che sia successo, che Boifava sia andato da Leali a dire, perché Visentini voleva farvi tirare per chiudere il buco... perché magari se non avesse perso la calma, se non fosse andato nel pallone, magari Roberto non andava in crisi di nervi, si alimentava, non prendeva 6’47” su una salita dura ma non durissima, cioè si poteva ricomporre la situazione o no? O tu dici che una volta che si è spenta la luce è andata? 

«No, credo che per Roberto è stato un attacco frontale troppo forte e non è riuscito a…». 

- Cioè a lui più che a… Più che a una cosa di ciclismo. 

«Sì, a lui. A lui. A lui, a lui. A lui. E quindi non è riuscito lì a… in quel momento lì. In quel momento lì perché poi alla fine, uno che cosa doveva fare? Si doveva stringere con i compagni di squadra e dire: okay ragazzi, allora adesso, cosa facciamo? Va bene. Regolare, piano piano, teniamoli sempre lì poi ci penso io. Poteva essere». 

- Sì, perché poi lui alla fine, vi ha mollato ed è rimasto solo. Ha mollato là proprio di testa. E quindi è rimasto solo e ha preso… 

«La sua fragilità in quel caso è venuta fuori e ma sai adesso…». 

- Uno come il Chiappa non avrebbe mollato, vero? Pur coi suoi limiti… 

«Ma, no, Chiappucci no di sicuro. Ma magari neanche qualche altro corridore. Ma lui ha proprio mollato di brutto, l’è sciupà, come diremmo in dialetto…». 

- Ma è lì che si è spinta la sua stella, cioè lui con la testa ha smesso lì? Perché poi alla Malvor era pieno di galli se ci pensi, no, avevano fatto uno squadrone in quegli ultimi anni. Cioè lui è durato altri tre anni però di fatto aveva già smesso. 

«No, penso che poi da quando è andato via da Boifava… sì, sì, sì. Boifava l’ha costruito, gli ha dato tantissimo, Visentini ha dato tantissimo a Boifava e al team però credo che dopo, andato via da lì, gli son mancati dei riferimenti». 

- Ma secondo te basta Sappada per dire che dopo non ne ha più voluto sapere o non c’entra niente? 

«No, credo che questo…». 

- Ha inciso? 

«Sì, sì…». 

- Per non volere più sapere dell’ambiente, di una parte dell’ambiente, diciamo così? 

«Sì, sì… lui è stato veramente deluso profondamente da quello che… è stato ferito, ferito fortemente... Anche nel morale, il suo orgoglio, che ambiente è probabilmente 'sto qua? Non ci sono…». 

- Però non con voi ex compagni? Più con i media o meglio ancora con i dirigenti, o ancora di più, forse, i direttori sportivi, tutto il baraccone che gira intorno? 

«Sì, sì, lui con i dirigenti se la prese parecchio perché forse pensavano che potessero decidere qualcosa tipo mandare a casa qualcheduno, ma in realtà cosa…». 

- Ecco. La famosa frase stasera qualcuno va a casa? Tu l’hai sentita l’ha detta sul serio? 

“Be’ credo che ci siano le registrazioni, no? Ma sicuramente l’avrà detta, ma pi sai lì a caldo avevi talmente… avevi perso la maglia rosa, avevi perso il Giro». 
[in realtà no, eravamo solo alla 15esima tappa, ce n’erano ancora sette, compresa la crono finale, nda] 

- Oggi non succederebbe: appena arrivi al traguardo, ti prelevano, ti portano via… 

«Era ancora un ciclismo abbastanza come dire…». 

- Pane e salame si può dire o qualcuno si offende? 

«Pane e salame, sì. Carrera per esempio era una delle poche ad avere un addetto stampa che era Belleri». 

- Era più un addetto stampa ante litteram o era più una sorta di filtro tra la squadra e la proprietà? 

«Esatto, esatto». 

- Una specie di team manager. 

«Sì, però comunque aveva alcuni come dire giornalisti all’epoca…». 

- Tu sei in buoni rapporti con Belleri? 

«Non ho più visto, l’ho visto qualche volta. Però sai all’epoca c’era più un rapporto tra giornalisti e corridori, no?». 

- Questa cosa non ti manca un po’, perché adeso tu sei di qua, no? Dalla parte della barricata? Diciamo che hai un piede di qua e uno di là 

“Va bè, sì… Un piede di qua e un piede di là, però manca a voi». 

- Ah, sicuro. Io non ho avuto il privilegio. Io quando leggo le cronache di Mario Fossati, ragazzi… a parte che era un professionista di un altro livello, però avevi la persona davanti. Non un robottino, capito? 

«Ti faccio dei nomi: Beppe Conti, Zomegnan, Pier Bergonzi, che poi era ancora agli albori, ma ce n’è adesso, se ci pensiamo un attimo…». 

- Zomegnan che poi non era neanche molto amato. 

«Però raccontava». 

- Forse sono stati gli ultimi ad avere quella fortuna di… 

«Di avere la possibilità di…». 

- Di conoscere la persona oltre che il corridore. 

«Sai quando è successo che si è chiusa ‘sta cosa qua? Quando Pantani ha portato quella addetta stampa». 

- Manuela Ronchi che poi gli faceva da manager più che addetta stampa. 

«La Ronchi, da lì…». 

- Da lì è scattato il nuovo evo? 

«Esattamente». 

- Ah sì? 

«Dove tu non avevi più il contatto con il corridore perché…». 

- Ed è stata la sua rovina...

“È stata la sua rovina. Ci sono io. Deve parlare con me». 

- Non soltanto lo estraniano ma proprio gli fanno perdere il senso della realtà. Di gente che magari ti fa vedere cose che non ha interesse a farti vedere o a non farti vedere. È un mondo distorto. 

«Le confidenze che ti facevi una volta con i giornalisti, io sto parlando di anni fa ormai, credo che… penso che i corridori non ne fanno più perché non li vedono neanche i giornalisti». 

- Così come i giornalisti non vedono la tappa. Sia lì in sala stampa davanti ai maxi schermi. Lo puoi fare anche davanti alla tv quel lavoro lì. Da casa. 

«Esatto. Quindi… è cambiato tantissimo rispetto all’epoca». 

- S’è calcisticizzato, il ciclismo. Sei d’accordo? È diventato come il calcio in scala appena minore. 

«Abbastanza minore». 

- Non mi riferivo agli ingaggi o all’indotto che smuove, ma ai filtri… 

«No, no, il rapporto…». 

- Ti assicuro che: pensa al Team Sky, uno pensa: ah, tu sei di Sky Sport li intervisti quando vuoi. È peggio. Cioè è più facile intervistare quelli delle altre squadre che quelli del Team Sky. Filtri e contro-filtri, addetti stampa… a meno che il buon Dave Brailsford o chi per lui voglia far passare dei messaggi. Allora lì i giornalisti tornano utili. 

«Eh certo, io vedo anche nel mio piccolo delle volte quando siamo al Giro d’Italia che, sai, da ex corridore, magari, vuoi parlare con Diego Ulissi, per dirti, che è un ragazzo molto…». 

- L’ho intervistato al Tour. Io per beccare Diego Ulissi cosa faccio? Lo aspetto dopo l’arrivo davanti all’antidoping e nella tonnara di cento microfoni stai lì e speri che ti dica… eh, cosa ti dice, bella tappa, tappa dura. Capito? 

«Fai fatica». 

- Ulissi… Uno che poi era pure nel giro della nazionale, lo puoi far parlare anche di tante cose. 

«Ma anche dal corridore più semplice, non so mi viene in mente Roche [figlio], per esempio, ‘sta gente qua, adesso hanno i social, tu puoi essere un corridore scarso ma se sei un influencer… “vali” molto di più che a essere un corridore…». 

- Perché a tuo modo vendi un prodotto, che sia quello che hai scritto davanti sulla maglia o la tua immagine. Torniamo a bomba. Raccontami cosa è successo la sera, immagino che l’ambientino in albergo, l’atmosfera sia stata piuttosto calda… 

«Ma guarda, calda è stata calda. Intanto in corsa a un ceto momento eravamo disorientati, perché…». 

- Da radiocorsa cosa capivate voi, o Boifava cosa vi diceva? Quintarelli davanti… 

«Credo così che in quel momento neanche Boifava capiva cosa si doveva fare, cioè come gestire la cosa. È vero, mandò davanti Quintarelli ma non successe nulla, perché questo non si fermò. E anche noi dicevamo: Ma, Davide, cosa dobbiam fare? Cioè abbiamo davanti Roche che probabilmente va in maglia rosa e dobbiam difendere la maglia rosa [di Visentini], cioè… facciamo veramente qualcosa che…». 

- Fuori dal mondo...

«Fuori dal mondo… E ci guardavamo, Bontempi, il gruppo, come dire, quello lì che stava davanti a tirare per Visentini e poi a un certo momenti disse: Voi tirate, fate quello che dovete fare. E allora incominciammo...». 

- E avete tirato… 

“Abbiam tirato. Fino a quando… siamo arrivati sorto a Sappada che poi ci siam staccati perché poi alla fine Visentini, vuoi per il lavoro che avevamo fatto prima, vuoi perché Schepers era là [davanti] ma non faceva nulla e magari non so poi si staccò anche lui, boh…». 

- Sì, e poi alla fine quella tappa lì la vinse Johan van der Velde. Anche il giorno dopo, a Canazei, vinse lui. 

«Sì… Eravamo disorientati. In tanto quel giorno lì durante la tappa c’era l’elicottero della Carrera che ci girava sopra… quindi, voglio dire, ma non ci girava sopra per…». 

- In quel giorno lì, in corsa? 

«Sì-sì». 

- Perché sai che c’era Reagan, il presidente americano in visita a Venezia al G8 e la sera non lo facevano atterrare l’elicottero dei Tacchella, per motivi di sicurezza. L’hanno fatto atterrare lontano…». 

«La sera di Sappada?». 

- Sì. L’hanno fatto atterrare non so dove quindi hanno dovuto prendere una macchina e sono arrivati, alle nove o alle undici di sera, in albergo, una roba così… 

«Sì, può essere. Però io mi ricordo che durante la tappa abbiamo visto l’elicottero che ci girava…». 

- Si vede che dopo dove eravate in albergo quella sera lì… 

«Comunque, fatto sta che i Tacchella quella sera lì arrivarono…». 

- Tito e Imerio. C'era anche Domenico? O solo i primi due?

«Penso di sì. Non mi ricordo di preciso, adesso…». 

- E voi tutti nelle vostre stanze o siete andati in riunione tutti insieme? 

«No-no, a un certo momento si fece una riunione, voglio dire, perché insomma non si poteva… la riunione – forse, quella grossa, è stata fatta prima per pochi. Per i tanti era abbastanza tutto, come dire…». 

- Ma coi come vi sentivate, una volta fatti i massaggi eccetera? 

«Imbarazzati». 

- E a cena, per dire? 

«Sai che adesso sinceramente non me lo ricordo. Non mi ricordo se poi a cena c’erano tutti e due…». 

- Roche non credo sia neanche sceso… 

«Cosa ti ha detto Bontempi? Gli hai chiesto ’sta cosa?». 

- Mi pare non me ne abbia parlato. Della riunione tutti insieme, me l’aveva detto. 

«Guarda, sinceramente, ecco: e si fece, quello che mi posso ricordare è questo: loro dissero: a noi interessa vincere il Giro d’Italia, al di là poi delle cose che sono soggettive per ogni atleta, la squadra è qua per vincere il Giro d’Italia. Quindi il messaggio era quello di dire…». 

- Più che chiaro. 

«Era di dire: quindi voi siete qua, dovete fare il vostro la voro. E a quel punto lì, non dovevi stare a pensare a cattiverie, cioè…». 

- Cioè tu sapevi che dovevi proteggere la nuova maglia rosa…. 

«Io ti dico la verità, francamente: passata la giornata, il giorno dopo…». 

- Era uguale. 

«Era uguale. Io ero là per fare il mio lavoro, perché per questo ero pagato…». 

- Però qualcosa in corsa cambiava, perché poi Visentini ha fatto la sua corsa. È caduto a Pila il penultimo giorno e si è rotto lo scafoide, il solito scafoide destro [già rotto l’anno prima, nda]. Ma quindi la Carrera come correva per proteggere Roche ma con l’altro lì… 

«Roberto praticamente, adesso vado un po’ a memoria ma credo che lui partecipò raramente a quella tattica di corsa, anzi credo che a volte pensasse a come mettere in difficoltà nella sua testa ma evidentemente non aveva le gambe». 

- Ma sono vere quelle cose con Visentini che cerca di buttar giù Schepers con la bici di farlo cadere perché BiciSport dell’epoca scrisse che lui prese 3 milioni di lire di multa dalla giuria per comportamento antisportivo di andar lì vicino per buttar giù il compagno? Ti risultano queste cose qua? 

«Non…». 

- A me sembrano un po’ romanzate ma quando ho letto che gli han dato tre milioni di multa... [da qualche parte risulterà scritto, verbalizzato, nda] 

«Ma sai…». 

- Oh, tre milioni dell’epoca erano soldini eh… 

“All’epoca… Eh sì, eh sì…». 

- Ce l’ho qui quel BiciSport, non è che me lo son sognato o inventato… 

«No-no ma effettivamente c’è stato qualcosa...». 

- Quindi è verosimile… è vero che non ci son le telecamere di oggi ma qualcuno lo avrà visto… 

“È verosimile… può essere [gli scappa un mezzo sorriso, nda] che magari Roberto può essere come dire una rabbia che…». 

[Gli mostro la foto che uso per la cover: guarda come si guardano Roberto e Stephen con Millar in mezzo, nda] 

«Dunque, lui era davanti, questo qua gli è andato dietro… Ma dov’era a Pila? Che tappa era questa qua? Perché Millar poi arrivò secondo, no?». 

- E vinse la maglia verde. Ti ricordi quella foto con Roche che sul palco fa il gesto al pubblico. Zitti, con l’indice al naso? Sul palco ci sono Roche in rosa, Millar in verde e Roche che fa al pubblico: zitti! Te la faccio vedere… 

“Hai visto Visentini come lo guarda [sorride]? E l’altro… cosa gli starà dicendo l’altro?». 

- Questa foto meritava, meritava… 

«Gli dirà: ma cosa stai facendo qua che ci sono già io?». [ride, nda] 

- Proprio loro tre… è il riassunto di quel Giro lì… Questa è la foto che ti dicevo, pensavo che te la ricordassi perché è famosa. E l’anno dopo compagni alla Fagor. 

«Ma lì era proprio…». 

- Dovrebbe essere la fine, credo. Dopo la crono finale di St Vincent, che poi l’ha vinta Roche… 

«Sì, sì mi ricordo. E il giorno prima a Pila, no?». 

- Sì. E Roberto è caduto in salita. Ha picchiato il polso, lui ci scherzava dopo che il dottor Tredici gliel’ha fasciato o ingessato: e dopo le radiografie dice l’anno scorso ho cominciato il Giro col polso rotto e quest’anno col polso rotto l’ho finito. Sennò poteva anche ambire al podio finale, perché la crono gli si addiceva. 

«Non so…». 

- Ma forse ormai, come ci siamo detti, aveva mollato. 

«No, no… Non aveva più le gambe, non è stato più lui, Visentini. Cioè, ha fatto quella cronometro, quella cronoscalata di San Marino in cui andò come…». 

- Tre minuti a Roche ha dato, una roba… 
[e 1’11” a Rominger, 1’20” a Piasecki, 1:32” a Bernard, 1’55” a Lejarreta, 2’00” a Breukink, 2’13” a Fondriest, 2’27” a Thurau; e 2’42” a Millar, undicesimo, e 2’47” a Roche, dodicesimo, nda] 

«Una roba strepitosa… E lì, e guarda che secondo me quella prestazione lì l’ha anche pagata in termini come dire di spesa energetica. Perché è andato talmente forte…». 


CRONO SAN MARINO: 


Bicisport scrisse nel trafiletto dell’ordine d’arrivo: 

“Bella prova del francese Bernard”: finì 4° a 1’32”!!! [uno specialista…] 

Nello speciale del Giro la FIR comprò una pagina pubblicitaria, a fronte di quella relativa alla tappa, con il claim: 

Grazie Roberto 

Sempre in compagnia vittoriosa 
Con i tuoi cerchi F.I.R. 
E la didascalia: 

Roberto Visentini (G.S. Carrera 
Con Bici Battaglin e cerchi FIR) 
Trionfa nella cronoscalata Rimini-S. Marino 

- Sembrava la corsa della vita? No? Perché troppo bello da vedere. 

«Perché dunque c’era la cronometro, cronoscalata, il giorno dopo tappa in pianura e poi c’era Sappada». 

- Quell’anno lì c’erano anche le semitappe di ricordi? 

“All’inizio». 

- Sì, quindi alla fine erano 22 in tutto. Ma al di là di quello che è successo è stato un Giro “bello”? ben disegnato? Equilibrato? 

«Se ti devo dire la verità non me lo ricordo di preciso». 

- Anche perché ne avrai fatti chissà quanti… 

«Ne ho fatti undici». 

- Però in quel tappone di Canazei il giorno dopo, Roberto ha provato ad attaccare, vero? 

«Eh. Chi si ricorda. Bontempi vinse il giorno prima, la Osimo-Bellaria… Lui pagò secondo me quello sforzo della cronometro. Perché era una cronometro lunga poi no? [46 km, nda] e mi ricordo che era una tappa lunga, diobono…». 

- Ne saltarono in parchi in quel Giro, Corti saltò… Guarda com’era bello composto il Visenta in bici… [gli mostro la foto, nda] 

“Be’, quella era la sua… cioè capito?». 

- Guarda i tempi… 

LA NUOVA CLASSIFICA:
 
1. Visentini 
2. Roche a 2’42” 
3. Rominger a 3’12” 
4. Breukink a 3’30” 
5. Millar a 4’55” 

12. Argentin a 6’56” 
23. Saronni a 9’49” 

- Alla fine Roche prese la maglia per 5”. Metti che non prevedeva la maglia? Tutto si ridimensionava, magari non c’era la riunione dei Tacchella, no? A volte i bivi gli snodi… 

«È stato meglio così, che l’abbia presa…». [ride, nda] 

- E invece cosa mi dici del giro del Guttalax del signor Fir, Giovanni Arrigoni… 

«Ah, questo… retroscena che francamente mi sfugge, non so… Si dice». 

- E però l’hanno arrestato eh. Anche pensarlo guarda che… 

«Veramente una cosa…». 

- Vuol dire che uno è andato via di testa, non credi? 

«No-no, sicuramente, ha perso il controllo». 

- Anche solo ideare un piano così folle. 

«Saronni a dieci minuti, pensa… Comunque lui, guarda, secondo me, la pagò molto, questa cronometro, così… così forte e probabilmente anche il fatto di [non] averla recuperata bene, gli è costato». 

- Sì, può darsi [vedi intv a Mino Denti, nda] volevo farti veder la foto della cronosquadre: Roberto in testa senza casco, guidone senza caso, qualcuno con gli occhiali, qualcuno no… 

«Cassani-Schepers-Roche… per dirti, guarda, chi ce l’aveva bianchi, chi ce l’aveva azzurri… Era già…». 

- È vero che vi facevano scegliere la divisa, non quella di rappresentanza? La vostra? In un negozio Carrera a Verona… 

«Sì, sì». 

- Anche qui… Vi siete scelti i vestiti. 

«Sì, sì». 

- Bella ’sta cosa qua, perché non si sente spesso. 

«Sì, erano avanti, erano avanti…». 

- Finisce il Giro così. E il Tour? 

«Il Tour, io mi ricordo che in quel Tour lì ho tirato sempre. Ho tirato sempre perché abbiamo vinto la cronosquadre subito, abbiam preso la maglia rosa con Pedersen, poi l’ha presa Maechler [si confonde: Pedersen 5 giorni in giallo nel 1986, Mächler sette giorni nel 1987, nda], l’abbiamo tenuta, poi c’era Bontempi che doveva far anche le volate quindi si tirava anche quando magari ci si risparmiava anche per tenere un po’ protetto Bontempi, insomma…». 

- È stata dura. 

«È stata durissima. Poi due tappe con due semitappe, un caldo infernale dalla Germania…». 

- Ma poi per arrivare in Francia, cinque giorni ci avete messo: quattro giorni in Germania. 

«Sì, sì. Un caldo bestiale. Mi ricordo che si dormiva anche… abbiam domito anche in una palestra insieme e a tutti. Le semitappe ci si andava in quei specie di conventi, in somma è stata anche logisticamente dura, molto dura». 

- A proposito di ciclismo di trenta, quarant’anni fa… 

«Non era quello di adesso… Gli alberghi poi…” 

- Però voi come corridori che storicamente siete sempre stato molto disuniti, mandavate giù veramente di tutto. Oggi sarebbe inaccettabile, un caldo infernale e poi dovete pure dormire in una palestra… Tutto questo era normale all’epoca? 

«Ma sai ai Tour era così per tutti, funzionava così. Non so se qualcuno te l’ha spiegato. Cioè le famose stelle, c’erano un tot di stelle, l’albergo andava da due a tre a quattro, raramente, quasi mai…». 

- Tranne forse l’ultima, a Parigi, vero? 

«Sì. No, l’ultima mi pare Sofitel, là a Parigi, ma era finito. Quindi il totale delle stelle andava suddiviso, chi più, chi meno, con gli alberghi. E quindi eravamo praticamente alla pari. Ma poi il cibo era differente. Tu arrivavi trovavi l’agnello, trovavi la pasta che era buttata dentro fredda, quindi insomma era un’altra cucina?». 

- Ma come facevate voi in gara poi? 

«Ma come facevi, eh be’, l’alimentazione anche lì Boifava era non dico avanti però si avvaleva di medici che sapevano anche sotto il profilo dell’alimentazione quindi per esempio gli integratori dopo la corsa, le famose carboidrati maltodestrine che erano proprio agli inizi, dopo la corsa subito. Quindi già si cercava… io mi ricordo che quel tour lì dell’87 registrai tutte le tappe con il frequenzimetro, anche alla notte. Anche alla notte perché il nostro dottore voleva capire, di notte…». 

- …ma il dottor Grazzi? 

«Dottor Grazzi». 

- Ho provato a contattarlo ma sai che… 

«Non vuole rispondere?». 

- No. E invece con Barry Ryan un giornalista irlandese di Cyclingnews.com che ha scritto un bel libro sul ciclismo irlandese da Roche e Kelly in poi, che è nato un po’ con loro, quello moderno, ha risposto per telefono o email, però ha risposto. Educatissimo, però con me si è negato. 

«Sì, sì, be’ Giovanni sì, sì… E quindi quel Tour lì fu un molto difficile proprio dal punto di vista fisico. E poi quando capimmo che Roche se la poteva giocare, che c’era questo Delgado che comunque era l’uomo da battere che in salita andava forte…». 

- Di quella famosa tappa di La Plagne con l’ossigeno cosa mi racconti? 

“Be’ insomma lì… lì per lì siamo stati un po’ così anche colpiti, e preoccupati perché sembrava che fosse…». 

- …che ci scappasse il morto… 

«Eh, eh… Sembrava che fosse successo chissà cosa. “Ah, è svenuto, non respirava più…”. Sì, non respirava più perché è andato indebito d’ossigeno per quanto ha dato». 

- E appena si è ripreso ha pure fatto la battuta: stasera niente ragazze, o qualcosa del genere… 

«E verso la fine le ultime tappe del Tour, Roche, Stephen praticamente si era un po’ isolato. Si era isolato perché non voleva mangiare con noi, perché aveva bisogno di [farsi] fare dei massaggi un po’ più prolungati, doveva essere come dire molto più attento nella fase di recupero. E quindi sì, c’era, per carità, però, per esempio, l’ultima tappa – la famosa tappa della cronometro – io non l’ho mai visto. Mai visto». 

- Ma questa battuta che nella sua autobiografia racconta il figlio Nicolas, che al Giro in gruppo circolava questa battuta: cosa ha mangiato Roche per colazione? Frittelle, perché passano sotto la porta… Perché da Sappada in poi era isolato, aveva paura di sabotaggi… Valcke portava la bici in camera per paura che la manomettessero… Queste cose qui voi che eravate in squadra non sapevate niente? 

«Io non ho mai percepito…». 

- Io ho sempre l’impressione che un po’ siano esagerazioni giornalistiche per “fare” la storia. E magari con un po’ di sana paura, ma non perché Roche era Roche ma perché tutti i corridori in testa alla classifica han paura che… 

«Guarda, io che…». 

- Però mangiava con voi sempre, questo me lo puoi confermare. 

«Sì, sììì». 

- Ma la sera di Sappada, lì non ti ricordi? 

«No. Non ricordo…». 

- Perché la mattina dopo, questo credo che anche Roberto l’abbia confermato, i due neanche si guardavano, no? 

«Da lì in poi cercavano di evitarsi il più possibile, ma questo era normale. Era capibile. Non tanto per Roche, forse per Roberto, ecco, perché… Ma io francamente non ho mai avvertito che ci fossero questi pericoli». 

- E invece parlando di ciclismo secondo te nel ciclismo di oggi – tra radioline, srm, web, telecamere – non ti chiedo solo se una “Sappada” sarebbe possibile, ma anche se una “La Plagne” sarebbe possibile… Perché oggi Roche non avrebbe bisogno di andare così fuori soglia come un pazzo, cioè di arrivare con l’ossigeno perché saprebbe già quanto gli servirebbe per avvicinarsi a Delgado. Era già in maglia gialla – alla fine – aveva perfino “troppo” margine rispetto a quanto gli serviva, visto che poi aveva dalla sua la crono conclusiva di Digione… Cioè non gli sarebbe servito spingersi così al limite… 

«Sì, ma guarda ormai le strategie della Sky e in generale sono talmente bravi che tutto è alla luce del sole. Perché… perché ci sono questi watt. Ormai si conoscono tutti. Sanno chi ha 10 watt in più, chi ha 10 watt in meno». 

- E quanto può tenere... 

«E quanto può tenere. E la tattica è molto semplice. Vai pure in fuga. Vuoi andare? Tanto vai via a trenta secondi. Vai a venti secondi. Gli ultimi cinquecento metri». 

- Per quello ti chiedo se una Sappada oggi potrebbe esserci… o una La Plagne… 

«No, io… l’abbiamo vista alla Vuelta, dove Nibali era lì che combatteva per vincere. E quelle varie azioni lì non te li permetti più. Perché evidentemente Roche sapeva che in quella tappa doveva recuperare più secondi possibile…». 

- Quindi mi stai dicendo che se vogliamo un’emozione dobbiamo aspettare Kruijswijk che al Giro 2016 finisce sulla neve, giusto? 

«Eh. [ride, nda] Eh be’, un’emozione, quella lì, che…». 

- Nel senso che ti sbarella i piani. 

«Ti sbarella i piani… No, allora se ti devo dire la verità io, per ritornare a dare delle emozioni più “vere”, anche se in realtà delle emozioni ci sono perché ti aspetti sempre…». 

- Negli ultimi anni, soprattutto gli ultimi… 

«Io toglierei i misuratori di potenza». 

- Quindi non le radioline ma i misuratori di potenza? E solo in gara? 

«Ma certo. Perché a quel punto lì tu per quanto tu possa… conoscerti, non saprai mai bene le tue gambe in quale momento… Sei sul filo…». 

- E il tuo cervello, soprattutto, no? 

«Sì, però sai lì leggi la frequenza cardiaca, quindi vedi se il cuore va su o va giù, se non va su vuol dire che non hai recuperato bene, e i watt di soglia ce li hai quindi puoi sempre tentare di… vabbè, vado sotto dieci perché magari questo mi aiuta a star lì… In corsa, queste cose lì non le puoi più ragionare perché devi andare a sensazione. Perché verrà sempre quel giorno dove tu non sai bene interpretarti e magari rischi». 

- Nel bene e nel male. Rischi anche di andare oltre il tuo limite e di sovrastimarti. 

«Esatto. Nel bene. E nel male. In allenamento quelle cose non gliele puoi togliere perché fa parte di quello che è lo sviluppo delle tecnologie, del conoscere il corpo umano. Se tu vuoi tornare a dare spettacolo e avere qualche dubbio in più, devi togliere il misuratore». 

- E secondo te perché non si fa? Quali sono i veri motivi? 

«Questo bisognerebbe chiederlo a chi comanda il ciclismo». 

- All’UCI? 

«Certo, bisognerebbe chiederlo a loro». 

- Perché togliere le radioline – almeno stando a quello che dicono i direttori sportivi – a parte che il progresso non si ferma, non si torna indietro quindi non le toglieranno mai, ma quello che i direttori sportivi dicono – alcuni, perlomeno – e che tanta gente sottovaluta – è che al di là dello spettacolo in gara – le radioline servono per la sicurezza. 

«Ma certo». 

- Perché ci sono molte più rotonde, e quindi per la sicurezza le radioline non le puoi togliere. Vorrebbe dire tornare indietro in un ciclismo che non c’è più. 

«Sono pienamente d’accordo. Perché tu immagina quando le ammiraglie anni fa venivano in mezzo al gruppo per dirci una cosa. per dirci a noi…». 

- Per risalire il gruppo… 

«Per risalire. Quando tu non potevi andare indietro perché se lo facevi non rientravi più. E allora era costretto a trovare il buco l’ammiraglia…». 

- Tra l’altro con delle manovre pericolosissime per la macchina e per i corridori. 

«Rischioso. Poi, le rotonde che all’epoca in Francia c’erano già, adesso ci son dappertutto, quindi sai, arrivi, hai la rotonda, torna indietro, no, la praticità: oh, ragazzi, è così…». 

- Ma anche il vento, pensa anche solo al vento… 

«Ma sì. Ma qual è il problema delle radioline? Poi magari se uno mi dice. Ah, si toglie un po’ la fantasia della corsa…». 

- Tu dici se uno ha gamba, ha gamba anche con le radioline? 

«Certo, certo. Dopo io so che vado anche un po’ contro… Io mi confronto con Gimondi, mio presidente del mio team [di MTB, nda]. È la persona più diretta che ti può dire all’epoca un campione come lui cosa faceva. Lavorava con la testa: cioè, io dovevo combattere con Merckx, quindi cercavo in tutti i modi di capire dove potevo… e non mi aiutava nessuno. Ma a quel punto lì, voglio dire, anche te stesso, anche se non hai la radiolina, cosa ti può dire il direttore sportivo in certe situazioni? Sei tu contro il tuo avversario. Tu devi guardare cosa fa l’altro e capire il momento di debolezza, se ce la fa. Il direttore sportivo cosa vuoi che ti dica. Però ti dice: ragazzi, è ora che andate a tirare. Ragazzi, guardate che adesso la fuga è andata a quindici minuti, è ora di riprenderla. Ragazzi, guardate che là c’è il vento. La tappa dell’anno scorso della Sardegna…». 

- C’ero, c’ero… 

«C’eri? Hai visto là cos’han fatto quelli là? Cioè quando è arrivato il momento giusto, questi qua han detto [picchia il palmo sul bracciolo del divano, nda]: Ragazzi, adesso è ora… Non lo sapevano mica i corridori, lo sapeva chi era davanti, a controllare il percorso, capisci? Cioè: è anche bello. Non è stato uno spettacolo?». 

- Devo dire che lo scenario naturale ha aiutato, perché correre lì… Non era una tappa piatta di cento chilometri in cui non succede niente… Poi devi anche avere un certo tipo di corridori… 

«Ma certo. Però se l’aspettavano tutti, eh. Però, vedi, non è che è successo…». 

CHRISTIAN GIORDANO

Commenti

Post popolari in questo blog

PATRIZIA, OTTO ANNI, SEQUESTRATA

Allen "Skip" Wise - The greatest who never made it

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?