I Detroit Pistons erano più che Bad Boys



Non si vincono due titoli NBA in tre anni semplicemente picchiando gli avversari.

di DARIO COSTA
l'Ultimo Uomo, 28 maggio 2020

A volte, per provare a farsi un’idea della percezione comune di un particolare fenomeno, è sufficiente procedere con una banalissima ricerca. Cercando su YouTube “Detroit Pistons NBA champions 1988-1989” si scopre presto come la maggior parte dei risultati non porti a canestri di Isiah Thomas o di Joe Dumars, e nemmeno ai titoli conquistati in quel biennio, quanto a raccolte di azioni al limite del codice penale perpetrate sul parquet dai due volte campioni. Certo, quel soprannome – Bad Boys – che squadra e tifosi accettarono e abbracciarono, non aiuta. Eppure, per quanto l’etichetta di ragazzi cattivi fosse meritata, e per quanto abbia permesso ai Pistons di crearsi una propria identità e trovare le motivazioni per eccellere, rimane il fatto che, a distanza di oltre 30 anni dal back-to-back di Detroit, la cattiveria agonistica e la scorrettezza appaiono gli unici aspetti di quella squadra meritevoli di una rievocazione.

Per quanto sia evidente, però, la cattiveria agonistica, e in parte anche la scorrettezza, possono aiutare a vincere le partite, ma non si vincono due titoli NBA mettendo fine all’epoca di Magic Johnson e Larry Bird senza disporre di talento, idee e coraggio. La grandezza di quei Pistons, se esaminata con attenzione, va ben oltre l’immagine di Bad Boys.

È il marketing, bellezza

La storia di come quei Pistons sono diventati Bad Boys può sembrare un dettaglio, ma contiene in sé buona parte degli elementi che caratterizzano l’epopea della squadra. Tutto ha inizio nell’estate del 1988, Detroit è reduce da una controversa sconfitta alle Finals per mano dei Los Angeles Lakers. Thomas e compagni sono già piuttosto noti per la fisicità che mettono in campo, ma fin lì il loro stile è considerato come la logica evoluzione di quello aggressivo e old school di cui si fregiavano i Boston Celtics di Bird, Parish e McHale. La NBA intuisce che la formidabile arma di marketing impersonata dal dualismo Magic/Bird, con cui ha costruito il proprio rilancio negli anni precedenti, è agli sgoccioli perché i protagonisti sono avviati verso la fase calante delle rispettive carriere. Occorre quindi trovare nuovi filoni narrativi con cui impacchettare un prodotto che sta diventando sempre più attraente anche fuori dai confini americani, e quell’estate vengono prodotti diversi documentari da distribuire in formato VHS. Il primo è dedicato ai campioni in carica e, in ossequio ai due titoli consecutivi appena vinti, si intitola “Back to back”; subito dopo arriva quello che vede protagonisti gli sfidanti e il titolo è, per l’appunto, “Bad Boys”.

La questione potrebbe chiudersi tranquillamente lì, anche perché la videocassetta che racchiude gli highlights della stagione dei ragazzi di Chuck Daly ha mercato giusto nell’area metropolitana di Detroit. Invece si mette in moto uno strano fenomeno: prende corpo una bizzarra commistione tra interessi di marketing della NBA e della franchigia, che crea una linea d’abbigliamento con quel marchio, e necessità di crearsi un’identità in grado di rivaleggiare con lo showtime dei Lakers e il pride dei Celtics. Non bastasse, la città – che in quegli anni attraversa l’ennesima congiuntura economica sfavorevole – si riconosce appieno nell’immaginario da villain e lo fa suo. L’etichetta di Bad Boys si trasforma quindi un brand che resisterà all’incuria del tempo in maniera più convincente rispetto al ricordo della squadra che l’ha ispirato.

Narrazione e realtà

Come detto, solo con i gomiti alti e il trash talking difficilmente si arriva a sollevare il Larry O’Brien Trophy. E la realtà di quella Detroit è molto più complessa rispetto al ritratto quasi fumettistico che viene tramandato ormai da almeno due generazioni di appassionati e addetti ai lavori. La quantità e la qualità di talento a disposizione di coach Daly nella seconda parte degli anni Ottanta ha poco o niente da invidiare ad altre dinastie parecchio più celebrate. Tutto, per quei Pistons, comincia e finisce con Isiah Thomas: la sua scelta al Draft del 1981 è il punto di svolta nella storia della franchigia. La parabola personale e la carriera di Thomas sono miniature di ciò che si può applicare, su scala più grande, alla squadra di cui è stato leader, capitano, stella e uomo simbolo. Pur in una lega come la NBA, che quanto a personaggi controversi e caratteri spigolosi vanta una lunga lista di esemplari, risulta difficile trovare un caso analogo di asimmetria tra talento cestistico e carattere, tra efficacia sul parquet e inettitudine relazionale. La lingua tagliente guasta il rapporto con avversari e stampa, per non parlare di quello con i tifosi residenti al di fuori dello stato del Michigan, costando a Zeke l’appuntamento con la storia del gioco alle Olimpiadi di Barcellona 1992, di cui si parla ancora oggi. 

Nonostante ciò, lasciando da parte la disastrosa gestione dell’immagine e concentrandosi solo sull’aspetto tecnico, una verità appare incontestabile: Isiah Thomas è un giocatore epocale. Dal basso del suo metro e ottantacinque scarso, il ragazzo originario di Chicago domina il gioco come mai era successo in precedenza per una guardia di quella statura. Negli ultimi 30 anni la pallacanestro è cambiata in modo così radicale che risulta quasi impossibile rendere l’idea della straordinarietà di Thomas in quel contesto tattico. Isiah è Allen Iverson prima di Allen Iverson, è Chris Paul prima di Chris Paul. Anzi, Isiah è allo stesso tempo Iverson e Paul, un playmaker in grado di segnare 25 punti nel singolo quarto di una gara di finale, zoppicando su una caviglia sola, e difendere come un ossesso sull’esterno avversario più pericoloso.

L’eccezionalità di Thomas è rilevabile anche nella disponibilità a sacrificare la gloria personale, spesso rinunciando a prendersi la quantità di tiri che il talento gli consentirebbe, pur di coinvolgere i compagni di squadra. In questo senso, Joe Dumars rappresenta il compagno di reparto ideale. Anche lui giocatore di una modernità sorprendente, Dumars condivide con Thomas l’efficacia su entrambi i lati del campo. La guardia dei Pistons vanta un ball-handling decisamente più efficace di quello richiesto ai pari-ruolo dell’epoca, caratteristica che gli permette di alternarsi con Thomas nella fase di playmaking. Eccellente tiratore piedi per terra, Dumars è anche in grado di crearsi da solo un tiro e prendersi responsabilità nei momenti decisivi. Quanto alle qualità difensive dell’MVP delle Finals 1989, chiedere a Michael Jordan. 

Se il backcourt dei Pistons – a cui va aggiunto “Microwave” Vinnie Johnson, sesto uomo spesso decisivo – si distingue senza dubbio come il reparto con il maggior talento, è altrettanto chiaro come l’anima dei Bad Boys risieda altrove. In Dennis Rodman, di cui è stato scritto e detto tutto ma di cui molto spesso si magnifica solamente l’avventura ai Bulls, ma ancora di più in Bill Laimbeer. Personaggio tra i più discussi e detestati della NBA contemporanea, Laimbeer raggiunge risultati di squadra e personali impronosticabili a inizio carriera. Snobbato al Draft del 1979, in cui viene scelto con la 65^ scelta assoluta, il futuro campione NBA sbarca nella lega solo dopo una mitologica avventura nella nostra Serie A, chiusa con 21 punti e 12 rimbalzi di media vestendo la maglia di Brescia, dove si rende famoso per la capacità di assimilare bevande a base di luppolo pari se non superiore a quella di posizionarsi a rimbalzo. Thomas è l’uomo simbolo dei Bad Boys, ma Laimbeer ne è il cuore o, meglio, l’essenza oscura. Dotato di un atletismo nella norma e di una discreta lentezza nella mobilità laterale, Laimbeer si trasforma in specialista difensivo grazie alla cattiveria e alla scorrettezza che ne diventa il tratto distintivo. Anche in questo caso, però, oltre al furore agonistico c’è di più: sotto molti punti di vista Laimbeer è infatti uno stretch 5 ante-litteram. Pur giocando nominalmente da centro, l’ex Notre Dame vanta un range di tiro che gli permette di essere pericoloso anche dietro la linea dei tre punti. E Laimbeer ancora oggi è recordman di franchigia per rimbalzi e quinto ogni epoca per punti segnati. La capacità di un lungo di colpire da lontano era una assoluta rarità e, combinata con le caratteristiche di Thomas e Dumars, consentiva a Daly di adottare un approccio innovativo nella metà campo avversaria.

In completa controtendenza rispetto alle logiche tattiche dell’epoca, definite dalla presenza in ogni squadra di una o al massimo due stelle legittimate ad accentrare la manovra offensiva, quei Pistons sono un raro esempio di distribuzione equanime di tiri e responsabilità. Durante la stagione 1988-89, quella del primo titolo, Detroit manda a referto in doppia cifra di media ben sei giocatori, che diventeranno cinque in quella successiva, conclusa con il repeat ai danni dei Portland Trail Blazers. In una pallacanestro giocata a un ritmo decisamente più basso rispetto a quello attuale, e con un un numero di possessi assai più limitato, è un dato che dice parecchio dei concetti su cui era predicata l’idea di Detroit Basketball.

La combinazione così originale di caratteristiche tecniche, incastro quasi perfetto, non si è materializzata per caso. Jack McCloskey, General Manager in carica dal 1979 e soprannominato “trader Jack” per la facilità con cui si buttava sul mercato, l’ha costruita con pazienza certosina. L’arrivo di Thomas nel 1981 è solo il punto di partenza, perché successivamente McCloskey ha scelto Dumars alla 18 nel 1985 e, un anno più tardi John Salley alla 11 e Rodman alla posizione numero 27. E poi ci sono le trade, per l’appunto, non ultima quella che nel febbraio 1989 ha spedito Adrian Dantley a Dallas in cambio di Mark Aguirre, il cui innesto risulterà decisivo per trascinare i Pistons sul tetto della NBA. 

Anche nella propria metà campo i Pistons sono un passo avanti rispetto al resto della lega. Sempre grazie alle caratteristiche del roster a disposizione, e in particolare grazie allo strabiliante atletismo di Rodman, Daly costruisce una difesa aggressiva, feroce, asfissiante. Al netto delle deviazioni che varranno il soprannome di cui sopra, i Pistons di quegli anni sono la prima squadra a difendere su tutti i 28 metri del campo. L’obiettivo di Thomas e compagni è quello di rompere subito e con ogni mezzo possibile il ritmo di gioco avversario, infrangendo un codice non scritto che fin lì sanciva il “dovere” di attendere gli avversari a difesa schierata, senza andare in pressing sul portatore di palla già dalla rimessa. 

Non solo: le peculiari caratteristiche dei giocatori a disposizione, unite alla volontà comune di piegare le ginocchia e buttarsi su ogni pallone, permettono a Detroit di elaborare piani difensivi ad hoc destinati a fermare, o quantomeno limitare, l’avversario più pericoloso. In questo senso le celeberrime Jordan Rules, altro elemento che ha contribuito non poco ad alimentare la mistica dei Bad Boys, vanno interpretate come modello esemplare di applicazione difensiva.

I Pistons di quegli anni, insomma, oltre alla fisicità mettono in campo estro e istinto, intuizioni e impegno, anche se il marchio di Bad Boys finirà per oscurarne il lato meno mediatico.

Prospettiva storica

In definitiva, non sembra esagerato affermare che l’etichetta di cattivi ragazzi, abbracciata dai giocatori e da tutta la franchigia come elemento distintivo essenziale alla vittoria, abbia finito per sminuirne i meriti effettivi. Sono in molti a sostenere come, tra le piccole e grandi dinastie della pallacanestro contemporanea, quei Pistons possano a buon titolo ritenersi i più sottovalutati. È una teoria avallata prima di tutto dai diretti interessati, che seppur con accenti diversi non perdono occasione di esternare le proprie recriminazioni. Nondimeno, va sottolineato come spesso i testimoni diretti siano anche i meno affidabili e imparziali, ragion per cui la disputa sulla rilevanza storica dei Pistons del back-to-back rimane materia per discussioni infinite.

Qualche punto fisso, osservando con sguardo oggettivo alla Detroit degli anni Ottanta, è comunque possibile individuarlo. Al di là delle dispute sull’atteggiamento più o meno delinquenziale, appare incontestabile come quei Pistons abbiano sfruttato al meglio tutto ciò che il regolamento e il metro arbitrale dell’epoca consentivano. Daly e i suoi si sono accorti prima e meglio di altri di come si potesse sfruttare la fisicità del roster a disposizione, potendo contare su una tolleranza per gli interventi difensivi che, vista oggi, appare del tutto inconcepibile. E su quell’impronta, forti di un talento medio eccellente in un roster profondo, hanno costruito un dominio che è stato tanto breve quanto assoluto. Basti ricordare il record con cui Thomas e compagni hanno passeggiato sugli avversari per conquistare il loro primo titolo nell’89, 15 vittorie e 2 sconfitte, entrambe in finale di conference contro i Bulls di Jordan e maturate con uno scarto complessivo di 8 punti, per rendere l’idea di quanto quei Pistons fossero devastanti. Quanto alla brevità del loro regno, è improprio distribuire colpe ai giocatori o allo staff tecnico e dirigenziale.

A delimitare la dinastia dei Bad Boys sono state soprattutto circostanze oggettive, non imputabili a chi scendeva in campo. Così come nella seconda metà del decennio si erano create le condizioni affinché i Pistons chiudessero l’era di Celtics e Lakers, poco dopo arriveranno a maturazione i Bulls, fin lì maltrattati per tre anni consecutivi ai playoff, squadra destinata a dominare gli anni successivi. In una prospettiva storica, se considerassimo gli anni Ottanta di Magic e Bird come la Rivoluzione Francese applicata alla NBA – niente sarà più come prima dopo il loro passaggio – e il Jordan autentico mattatore degli anni Novanta come Napoleone Bonaparte – despota assoluto destinato alla storia – allora ai Bad Boys spetterebbe il ruolo del celeberrimo Direttorio che fece da interludio tra un fenomeno e l’altro, con Isiah Thomas nei panni di Paul Barras e Chuck Daly in quello di Lazare Carnot.

Un po’ come per il Direttorio parigino, il tempo e la memoria collettiva non sono stati clementi con quei Pistons, anche se ad un esame più approfondito non pare azzardato definirli precursori di molte tendenze che caratterizzeranno la NBA nei decenni a venire, dall’utilizzo delle spaziature in attacco alla scelta di mettere in campo contemporaneamente due o tre ball-handler in grado di creare gioco fino alla copertura frenetica delle linee di passaggio avversarie. Quello mostrato sul parquet nella seconda metà degli anni Ottanta dai due volte campioni è stato molto più che “rugby in canotta e pantaloncini”, come qualcuno amava definirlo. E il loro modello di basket si è trasformato nel corso degli anni in pietra di paragone per squadre come i New York Knicks dell’èra-Pat Riley, i Memphis Grizzlies del grit and grind e, in parte, gli stessi Pistons campioni NBA nel 2004. Sono paragoni che lasciano il tempo che trovano, perché se c’è una cosa su cui nessuno, nemmeno tra i detrattori più accaniti, può permettersi di mettere in dubbio è il fatto che i Bad Boys siano stati una squadra unica e irripetibile. Infine, la loro autenticità, molto spesso spinta oltre le soglie del decoro, ha esercitato una notevole influenza sulla NBA, spingendola verso la ricerca ossessiva di uno status “politically correct” che, soprattutto dagli anni zero in poi, risulterà a tratti stucchevole.

In qualche modo, anzi, a modo loro, quei Pistons la storia del gioco l’hanno scritta e l’hanno segnata. Ed è davvero un peccato che rimangano intrappolati nella raffigurazione costruita attorno alla squadra, come un attore costretto per sempre a recitare il ruolo che l’ha reso famoso o un wrestler incapace di abbandonare il gimmick con cui viene identificato più facilmente. 


L'AUTORE
Dario Costa è nato trentotto giorni dopo Kobe Bryant. È innamorato e scrive di musica e pallacanestro, spesso mescolate insieme. Ha collaborato con Barracuda Rock Tour e Rivista Ufficiale NBA.

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